Fuga dall’utopia. La tragedia dei “monfalconesi”. 1947-1949
Abstract
All’inizio del 1947, dopo la firma del trattato di pace (10 febbraio) e il ritorno della sovranità italiana nell’Isontino (Gorizia e Monfalcone), più di duemila operai dei Cantieri navali di Monfalcone, uno dei principali del Mediterraneo, lasciano il lavoro, le case e l’Italia per raggiungere i Cantieri di Fiume e Pola e altre località della vicina Jugoslavia, dove sperano di vivere in una società libera e più giusta. Il dossier, composto da documenti di vario genere, archivistici, orali e narrativi, richiede un lavoro in classe di almeno 4 ore.
Durata
Almeno 4 ore
Premessa: l’utopia comunista
Nel 1947, più di duemila operai e tecnici dei Cantieri navali di Monfalcone, provenienti da varie località del Friuli Venezia Giulia, minacciati dai licenziamenti a causa della crisi produttiva, decisero di emigrare spesso con le famiglie in Jugoslavia, dove era richiesta manodopera specializzata. I “duemila” scelsero di varcare il confine anche per una convinta scelta politica. Ai duemila operai dei Cantieri si aggiunse anche un migliaio di lavoratori, operai e contadini provenienti da altre località della regione. In seguito, la delusione per le condizioni di vita e la scelta di appoggiare Stalin contro Tito dopo la “scomunica” del partito comunista jugoslavo in seguito alla Risoluzione del Cominform del 28 giugno 1948, causarono una sconfitta bruciante che ebbe devastanti ripercussioni sulle vite personali e familiari: dal ritorno a casa alla detenzione nei gulag di Tito, tra i quali “l’inferno” di Goli Otok.
Questa conclusione tragica è una delle vicende più drammatiche, ma ancora poco conosciute della storia novecentesca della Venezia Giulia, per lunghi anni rimossa e solo recentemente studiata dalla storiografia per lo più locale. I fatti rinviano a una complessità di questioni non ancora del tutto analizzate e rielaborate. E’ un tema storiograficamente complesso, perché vi si intrecciano, spesso in modo contraddittorio, fattori, motivazioni e dipanarsi di avvenimenti storici. Ma proprio per questo, può tradursi in un’efficace attività didattica. In particolare, l’interesse può riguardare l’incrocio tra condizioni lavorative all’interno di una grande fabbrica moderna nell’area del confine orientale, le rivendicazioni economiche e gli ideali di rinnovamento sociale e politico in un’ottica di appartenenza alla classe che preferisce la solidarietà e la fratellanza rispetto alle contrapposizioni tra nazionalismi.
Testo per docenti
Il dopoguerra difficile
La storia della frontiera orientale è segnata da due aspetti fondamentali. Dal settembre del 1943, con la costituzione del Litorale Adriatico, il territorio della Venezia Giulia fu annesso, di fatto, al Reich hitleriano subendone il dominio ideologico, politico ed economico; mentre, dopo la fine della guerra e fino al 15 settembre 1947, l’Isontino (Gorizia e Monfalcone) fu attraversato da conflitti e lacerazioni che procrastinarono l’instaurarsi della pace e delle regole democratiche[1].
L’amministrazione angloamericana, che subentrò a quella provvisoria partigiana, ripristinò la legalità del vivere civile, ma di fatto escluse dal governo del territorio le popolazioni che lo abitavano. Dal punto di vista della partecipazione politica, gli Alleati avevano portato una democrazia formale, con le libertà di pensiero, parola e opinione, l’uguaglianza tra i cittadini ed alcune importanti forme di assistenza economica e sociale in regioni martoriate da una guerra durissima. Ma non avevano portato la democrazia dell’autogoverno delle comunità, delle elezioni libere e degli amministratori scelti dal popolo. A Monfalcone non si votò per il referendum nel quale il resto d’Italia scelse tra monarchia e repubblica, come non si votò per la Costituente o per le amministrazioni locali. In assenza di elezioni, i partiti utilizzarono la piazza non solo per esporre le proprie idee e programmi, ma anche per valutare la propria forza, e per imporre la propria visione del mondo agli amministratori alleati. Per questo motivo, vi furono manifestazioni politiche che degenerarono nella violenza.
Il “controesodo”
In questa situazione, dove la legalità imposta dagli Alleati da molti veniva vista come parziale e poco rispondente agli ideali perseguiti durante la guerra partigiana di liberazione, e nella prospettiva ormai concreta del ritorno della sovranità italiana nell’Isontino, a Gorizia e a Monfalcone, tra la fine del 1946 e la metà del 1948, un numero notevole di lavoratori dei Cantieri navali di Monfalcone emigrò nella giovane Repubblica federativa socialista jugoslava. Allo stato attuale delle ricerche non ci sono elementi quantitativi definitivi, anche per le difficoltà di recuperare i dati nelle anagrafi comunali. Ma da varie fonti italiane e slovene si può ricavare che dai Cantieri di Monfalcone si spostarono in Jugoslavia tra i duemila e i duemilacinquecento operai, pressappoco un quinto del totale delle maestranze allora impiegate.
Partirono per la Jugoslavia anche diverse famiglie contadine e coloniche delle zone limitrofe, del Gradiscano, del Cormonese, della Bassa Friulana. Inoltre, alcune testimonianze raccontano di partenze dal Pordenonese e dalla Carnia.
Un intreccio di motivazioni è alla base di quello che è stato definito nel linguaggio popolare come il “contro esodo”. Il termine marca la contemporaneità di due fenomeni di peso diverso e di segno contrario. A fronte dei trecentocinquantamila esuli dall’Istria che scelsero, a partire dal 1947, di abbandonare le proprie case in seguito all’occupazione jugoslava delle terre dell’ex Regno d’Italia, spinti dalla paura o dai cambiamenti avvenuti nei loro paesi di origine, i lavoratori monfalconesi attratti dal mito jugoslavo decisero invece di contribuire con la propria competenza ed esperienza professionale alla costruzione di una società socialista in cui avevano creduto con convinzione.
Nella nuova Jugoslavia parecchie persone vedevano la possibile realizzazione delle molte liberazioni cui aspiravano: una società che avrebbe dovuto fondarsi sull’uguaglianza, un’economia dove i gruppi di lavoratori potevano autogestire la propria attività, una forma politica federale che avrebbe dovuto tutelare le specificità locali e gli interessi dei cittadini[2].
Molti scelsero la nuova patria come effetto della propria militanza politica. Come scrive Galliano Fogar nell’introduzione alle Memorie di un monfalconese nella Jugoslavia del dopoguerra: [3]
Il comunismo monfalconese aveva svolto fra le due guerre un’azione cospirativa e mobilitante, lunga e tenace, dentro e fuori il Cantiere navale monfalconese, grande struttura della navalmeccanica nazionale, irradiandosi non solo nell’area isontina della provincia ma in quella finitima carsica e basso-friulana. Nella storia dell’attività clandestina del partito in Italia, quella dei militanti monfalconesi era stata una delle più significative anche con la partecipazione di operai e contadini sloveni e perché nel suo svolgersi, fra gravi persecuzioni e perdite, aveva coinvolto centinaia di famiglie di un vasto territorio che andava dal Friuli orientale da una parte e il Carso tra Monfalcone e Trieste dall’altra e nella stessa città di Trieste che forniva nuclei operai al Cantiere monfalconese.
La concentrazione industriale di Monfalcone
Tra le due guerre, il mandamento di Monfalcone, nel basso Isontino, era una zona di grande concentrazione industriale [doc.1]. Le principali fabbriche di Monfalcone erano, oltre ai Cantieri, un lanificio, una raffineria di olio, una fabbrica di soda Solvay, una di pece, una di scatole di latta, una fabbrica di prodotti chimici. Alla fine degli anni Trenta, le fabbriche nel complesso occupavano circa ventimila operai. L’industria navalmeccanica dei Cantieri del gruppo CRDA (Cantieri Riuniti dell’Adriatico) costituiva uno dei maggiori complessi italiani del settore. Il gruppo formalmente costituito nel 1930 era una delle grandi eredità dell’Impero austro-ungarico che nell’area di Trieste, Muggia, Monfalcone aveva il suo più importante centro di costruzioni navali e di motori marini.
I nuovi modi di produzione del grande complesso industriale monfalconese segnarono profondamente tutta la zona meridionale dell’Isontino e anche in parte il Basso Friuli che fornivano la manodopera ai Cantieri di Monfalcone. La crescita di una classe operaia modificava gli usi, le tradizioni e strutture di un mondo contadino composto in gran parte di piccoli proprietari, mezzadri e braccianti spesso costretti all’emigrazione a causa della miseria e di patti agrari iniqui. La fabbrica, inoltre, era il centro di un forte movimento operaio che nel partito socialista prima e in quello comunista dopo il 1921, trovava il suo sbocco ideologico e organizzativo. Uno dei dati più importanti fu la formazione di una coscienza internazionalista in una comunità italiana di confine che includeva una consistente minoranza slovena (Carso goriziano e triestino) vessata dallo sciovinismo fascista.
Il movimento comunista
Negli anni della dittatura fascista operarono in Cantiere clandestinamente cellule comuniste da cui dipendevano altre cellule sparse sul territorio [doc.1]. La loro attività principale era il Soccorso Rosso cioè la raccolta di fondi per gli arrestati e i condannati dal Tribunale speciale. Era un’esperienza di solidarietà militante. Il Soccorso Rosso, dopo l’annessione della provincia di Lubiana allo stato italiano (1941) e l’inizio della resistenza slovena, fu uno strumento logistico paramilitare in collegamento con i partigiani sloveni ai quali giungevano denaro, medicinali, viveri.
Il movimento poi diede un forte apporto di quadri e militanti al movimento partigiano dopo l’otto settembre. La saldatura tra antifascismo politico e Resistenza armata fu molto marcata perché già dal 1942 fu anticipata dai collegamenti tra comunisti locali e organi politici e militari sloveni operanti nel retroterra della provincia.
Lo scenario della lotta a fianco delle formazioni slovene con il partito comunista sloveno in posizione dominante e in una zona, fra l’Isonzo e il vecchio confine a netta prevalenza slovena, ebbe dunque un carattere plurinazionale e uno sviluppo non sempre facile per gli “steccati” eretti dalla fallimentare politica fascista. I nodi apparvero alla fine risolti con l’inquadramento militare, operativo e politico nell’esercito sloveno in contrasto con gli accordi presi con il PCI nazionale nel 1944, di una parte delle formazioni italiane. […] L’affinità ideologica fra partiti comunisti, il marcato internazionalismo d’impronta filosovietica dei comunisti italiani, alimentarono in parecchi dirigenti e militanti, la convinzione di una soluzione di “classe” della guerra partigiana, propiziata dalla presenza egemonica dei comunisti di Tito.[4]
Dopo l’otto settembre del 1943, gli operai di Monfalcone diedero o vita a un’insurrezione spontanea, la “Brigata Proletaria”, la cui struttura politica era formata da militanti comunisti, già attivi e perseguitati durante il ventennio fascista [doc.2]. In seguito, dopo la sconfitta nella Battaglia di Gorizia, molti lavoratori in fuga entrarono nelle formazioni partigiane sia collaborando con l’esercito popolare jugoslavo sia combattendo all’interno dello stesso come nel caso della formazione italiana “Fratelli Fontanot” che, nata nel dicembre del 1944, operò sempre alle dipendenze del VII Corpus sloveno nel territorio della Bela Krajina e della Suha Krajina in Slovenia.
L’Isontino, una regione contesa
Alla fine della guerra, nel 1945, a differenza di quanto accadeva nel resto d’Italia con il lento avvio dell’economia e la ricostruzione democratica, nell’Isontino il problema principale fu la questione dell’appartenenza statale: dai quaranta giorni dell’occupazione jugoslava con l’insediamento dei poteri popolari (1 maggio – 12 giugno 1945) ai due anni del Governo Militare Alleato (12 giugno 1945 – 15 settembre 1947) che controllava e gestiva direttamente la politica locale.
La questione del confine determinò una spaccatura netta e profonda tra chi chiedeva l’annessione alla Jugoslava socialista e chi si batteva per rimanere in Italia nel nuovo stato repubblicano. Così la vita civile fu lacerata da tensioni e conflitti.
E’ in questa situazione che si determina la partenza per la Jugoslavia di migliaia di lavoratori. Nell’autunno del 1946 si erano concluse le trattative internazionali sull’appartenenza statale della Venezia Giulia. Questo territorio, dopo quaranta giorni di occupazione jugoslava nel maggio del 1945 con l’insediamento dei poteri popolari, era stato diviso in via provvisoria in due zone. La Zona A, amministrata dal Governo Militare Alleato (GMA), anglo-americano, era costituita dalle province di Gorizia e di Trieste e dalla città di Pola, L’Istria e la città di Fiume, invece, formavano la Zona B, posta sotto amministrazione militare jugoslava.
Da quel momento la situazione del confine italo – jugoslavo fu argomento di discussione e mezzo di lotta politica a livello locale e internazionale. In seguito, gli accordi del luglio del 1946 sistemarono il passaggio definitivo di Gorizia e Monfalcone all’Italia e la creazione di un Territorio Libero comprendente la città di Trieste sotto amministrazione anglo-americana. L’Istria rimaneva sotto il governo militare jugoslavo, compresa la città di Pola [doc.3].
Il movimento comunista, fra Italia e Jugoslavia
Fino all’estate del 1946, il partito comunista della Regione Giulia (PCRG), che era nato il 12 agosto 1945 sulla base di un accordo tra il partito comunista italiano e sloveno, si era impegnato per l’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia Socialista. Era questa una scelta condivisa con sincera convinzione da una buona parte dai militanti del PCRG. Le prime manifestazioni organizzate del partito giuliano erano espressione di un internazionalismo che considerava l’appartenenza alla multinazionale e rivoluzionaria Repubblica Federativa di Jugoslavia una soluzione più vicina agli interessi di classe del movimento operaio locale[doc.4]. L’Unione antifascista italo – slovena (UAIS), l’organizzazione di massa legata ai due partiti comunisti italiano e sloveno, sosteneva la fratellanza tra le diverse nazionalità e rifiutava la divisione della Venezia Giulia in due zone. Ben presto le organizzazioni del partito della Regione Giulia dovettero affrontare le organizzazioni dei partiti e dei movimenti filo-italiani appoggiate dallo stesso Governo militare alleato.
La tensione più forte si ebbe alla fine di giugno del 1946, quando alcuni militanti del partito giuliano bloccarono poco oltre il ponte sull’Isonzo a Pieris i ciclisti del Giro d’Italia, diretti a Trieste nel quadro di un’operazione gestita dall’autorità italiane in funzione propagandistica. Il blocco scatenò una reazione delle squadre filo-italiane che diedero vita a episodi di violenza con incendi di sedi comuniste e slovene a Trieste e nell’Isontino. Ne seguì uno sciopero generale proclamato dai Sindacati Unici (SU) legati al partito comunista giuliano. Lo sciopero fu dichiarato illegale dal GMA: l’intero comitato per sfuggire all’arresto riparò nella zona B. Lo sciopero finì il 12 luglio del 1946 con la sconfitta delle organizzazioni comuniste. Tre furono i morti, 138 i feriti e oltre 400 gli arresti.
Alla vigilia della firma del trattato di Pace del febbraio del 1947 fu data, per la prima volta, in assemblee tenute a livello locale e sulla stampa, la direttiva da parte dei quadri sindacali e di partito per operai, tecnici, militanti, di trasferirsi definitivamente in Jugoslavia.
I due esodi
In questo stesso periodo dall’Istria, e soprattutto dalla città di Pola, si stava avviando l’uscita di migliaia e migliaia d’italiani. Ci fu il tentativo di contrapporre i due esodi in termini propagandistici, ma la direttiva del PCRG, dei Sindacati Unici e dell’UAIS di emigrare nella vicina Repubblica, incontrò l’entusiasmo tra i lavoratori che diedero vita a un’emigrazione imponente che superò le previsioni e sconvolse la strategia dello stesso partito, costringendolo a una parziale retromarcia [doc.7]. Peraltro, le partenze non venivano ostacolate dal Governo Militare Alleato.
I motivi che stavano alla base delle partenze erano diversi e intrecciati tra di loro: la volontà di contribuire in prima persona alla costruzione del socialismo in Jugoslavia; l’esito deludente delle trattative sulla questione dei confini; la previsione di un drastico ridimensionamento delle maestranze in Cantiere [doc.5]; l’obiettiva carenza di operai qualificati e di tecnici nei Cantieri di Pola e Fiume; le violenze delle squadre nazionalistiche e neo-fasciste contro gli attivisti politici e sindacali. Infine, pesò una certa tradizione austro-ungarica che aveva sempre visto nell’Italia una realtà sociale ed economica arretrata.
L’accoglienza in Jugoslavia
Inizialmente, l’accoglienza ricevuta dai lavoratori emigrati, in particolare a Fiume e a Pola, fu senz’altro positiva. I lavoratori singoli furono alloggiati nei grandi alberghi delle due cittadine costiere, mentre alle famiglie furono assegnate delle abitazioni dignitose, spesso case lasciate vuote da coloro che si dirigevano verso l’Italia. Trovarono subito lavoro ai Cantieri Tre Maggio e al silurificio Ranković di Fiume, e ai Cantieri Scoglio Olivi di Pola. In questi primi mesi riuscirono anche a inviare ogni mese a famiglie e parenti del denaro [6].
La “Risoluzione” del Cominform (il comitato internazionale comunista, controllato dall’Urss) che sanciva l’espulsione di Tiro dall’organizzazione internazionale dei partiti comunisti del 28 giugno 1948, giunse inaspettata. Cambiò radicalmente la situazione. Fu un vero terremoto politico: nel Territorio libero di Trieste il partito comunista, nato dopo lo scioglimento del PCRG, si divise. Il Cominform non solo lacerò il movimento comunista italiano e quello sloveno. I rappresentati dei lavoratori monfalconesi nei Cantieri di Fiume e di Pola presero subito posizione a favore della Russia sovietica. Su questa decisione così rapida influì sicuramente l’adesione alle posizioni dell’Urss, propria di molti militanti comunisti; ma furono decisive anche le critiche maturate verso il partito jugoslavo, sia durante la Resistenza sia nel corso dei mesi di permanenza nei Cantieri croati, critiche che fino allora erano passate sotto silenzio.
La situazione si fa pesante
Ai primi di agosto 1948, le autorità jugoslave operarono una prima, vasta retata tra gli emigrati italiani, arrestando gli esponenti più in vista del gruppo di Fiume[5]. Dopo un breve periodo di carcere, i prigionieri furono trasferiti sotto sorveglianza su un treno nel villaggio minerario di Zenica, nella Bosnia Erzegovina. Pare che, alla partenza del treno dalla stazione di Fiume, un gruppo di operai monfalconesi avesse cantato l’Internazionale per solidarizzare con gli internati. A Zenica gli arrestati furono completamente isolati. La vicenda si chiuse qualche mese dopo con una fuga ben organizzata, grazie al consolato italiano di Zagabria. Dopo i primi arresti a Fiume e a Pola, i monfalconesi decisero di creare un’organizzazione per la tutela delle famiglie degli arrestati. Furono predisposte sottoscrizioni, ma questa iniziativa causò una seconda ondata di arresti, a catena, nel corso del 1949. I prigionieri subirono una sorte peggiore di quella occorsa gli internati di Zenica [doc. 8, 9, 10].
All’inizio del 1949, la situazione per il gruppo dei monfalconesi si fece pesantissima, con l’inasprirsi della repressione e del sospetto verso buona parte degli emigrati italiani. Il gruppo operaio si divise a causa di sospetti e delazioni: molti compagni furono ritenute spie “titine” e i sospetti divisero gli stessi gruppi familiari[6].
La reazione dei comunisti italiani e la repressione jugoslava
Nello stesso tempo, in forma indipendente dalle vicende del gruppo di monfalconesi, si costituì una cellula clandestina di militanti italiani, con l’obiettivo di operare in favore del Cominform e per abbattere la Jugoslavia di Tito. A Fiume parteciparono al gruppo anche il lombardo Alfredo Bonelli, il sardo Andrea Scano e il friulano Giovanni Pellizzari. Reduci dalle prigioni fasciste o dal confino, o anche dalle Brigate internazionali che avevano combattuto in Spagna, intervennero pubblicamente nell’aprile del 1949 con un lancio di manifestini.
Dal 1949, gli attivisti della cellula “cominformista” di Fiume sopportarono il carcere e la deportazione nei campi di detenzione situati nelle isole, da Goli Otok (Isola Calva) all’isola di Svet Grgur (San Gregorio) [doc.9]. Secondo le indagini di Giacomo Scotti, furono circa una quarantina i monfalconesi che dovettero affrontare mesi ed anni di detenzione durissima e il calvario delle torture delle prigioni titoiste[7].
Sui prigionieri s’infieriva con lo stroj: pestaggi continui all’arrivo e sbarco nell’isola dove si era costretti a sfilare fra due lunghe ali di detenuti che dovevano colpire senza soste i nuovi arrivati; il bojkot: isolamento totale del boicottato costretto per settimane, anche mesi a lavori pesantissimi e nel silenzio più assoluto; la jazbina: caverna, spelonca con l’interruzione sistematica del sonno al punito, sepolto sotto un ammasso soffocante di coperte e bersagliato da pestaggi improvvisi. Ma vi erano varianti e “integrazioni” come la proibizione di dissetarsi durante le lunghe ore di un massacrante lavoro, lo stare immersi nell’acqua gelida del mare per tutta la giornata a scavar sabbia e via dicendo. Oltre alle torture fisiche c’erano i ricatti morali per indurre i prigionieri a trasformarsi in delatori dei loro compagni, a farsi confidenti dell’UDBA anche dopo il rilascio[8].
Andrea Scano ha lasciato una descrizione intensa della sua esperienza nell’isola di Goli Otok[9]:
Quando sbarcammo, gli internati ci attendevano schierati su due file. Noi dovevamo passare in mezzo … Man mano che si procedeva venivamo colpiti a pugni, calci, sputi, tra urla e insulti di ogni genere … Io non ce la facevo più, la strada era in salita, ero carico della mia roba e indebolito dal carcere e dal viaggio … Mi sembrava che la doppia fila non finisse mai … In particolare avevo il fratello di Juretich che mi si era attaccato davanti e continuava a percuotermi sulla faccia … Ero coperto di sangue, boccheggiavo, e invocavo basta, che la smettesse, che mi lasciasse andare avanti. Ma lui a insistere e a gridare: sei un cominformista, vero? Ebbene prendi, prendi, prendi ancora!.. Ogni volta che arrivava un carico dovevamo schierarci e picchiare. In pratica si riusciva molto a fingere, e a dare le spinte per aiutare i nuovi arrivati a percorrere più in fretta il loro calvario. Ma c’erano sempre gli zelanti, come il fratello di Juretich, e alla fine tutti ne uscivano massacrati (…) A differenza dei campi nazisti, a Goli Otok non si uccideva. Se vi furono dei morti, fu per disgrazia, involontariamente. L’obiettivo era di umiliarci, fino alla distruzione della nostra identità. Ma mentre nei campi nazisti la repressione era amministrata direttamente dalle SS, e le SS le vedevi dappertutto, a Goli Otok la repressione era amministrata dagli stessi internati cominformisti. I titini neanche li vedevi … La fama di Goli Otok era tale che la maggioranza di coloro che vi erano inviati capitolavano prima di arrivarci: cosicché la maggioranza dei nuovi arrivati, mentre subiva le percosse passando tra le due file, inneggiava a Tito e al Partito comunista jugoslavo.
Dopo la morte di Stalin, il riavvicinamento tra Jugoslavia e Unione Sovietica fu percepito come un inganno. Il partito comunista mantenne per molto tempo il silenzio sulla vicenda e molta documentazione prodotta dai cominformisti fu distrutta.
Il ritorno dei lavoratori
Se la sorte dei militanti più attivi fu la detenzione nei lager di Tito, per le migliaia di lavoratori che si erano spostati tra il 1946 e il 1948 nella vicina Repubblica con la convinzione di trovare una società libera e più giusta, ci fu l’immediato rientro per sfuggire alla carcerazione, alla disoccupazione conseguente ai licenziamenti, all’isolamento. Coloro che ritornarono non ritrovarono più il lavoro, in alcuni casi neanche la casa. Delusi, umiliati, e sfiduciati si chiusero nel silenzio e vollero dimenticare. Altri decisero di emigrare nuovamente, diretti in altri paesi d’Europa.
Il PCI manterrà per lungo tempo il silenzio sulla vicenda, giudicando che il ritornarvi sarebbe stato dannoso per le buone relazioni con il Partito jugoslavo e negli stessi rapporti tra Italia e Jugoslavia nel momento in cui questi, dopo la morte di Stalin, segnavano un positivo disgelo. Documenti, relazioni, lettere inviate a suo tempo dagli “agenti” cominformisti, tutto fu bruciato. Ma va detto anche che il PCI non abbandonò i protagonisti di queste vicende, e talora si impegnò per trovare una sistemazione dignitosa ai vari “reduci” dalla Jugoslavia, i quali non sempre dal canto loro accettarono, chiedendo piuttosto di riuscire a riflettere e rielaborare collettivamente l’esperienza drammatica che avevano vissuto[10].
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Il dossier
Si propongono documenti utili per ricostruire e interpretare la vicenda dei “monfalconesi” emigrati in Jugoslavia nei primi anni del secondo dopoguerra. Apre questo dossier una descrizione dei Cantieri navali durante il regime fascista (doc.1), mentre il documento 2 racconta la partecipazione della classe operaia monfalconese alla Resistenza in collaborazione con le formazioni dell’Esercito popolare jugoslavo: vi troviamo qualche spiegazione della posizione del favore che gli operai accordarono all’annessione della Venezia Giulia alla Repubblica federativa della Jugoslavia socialista alla fine della guerra [progetto della Settima federativa].
Altri documenti riguardano il contesto storico in cui maturò la scelta della partenza di migliaia di lavoratori italiani alla volta dei Cantieri di Pola e Fiume e di altre località della Repubblica socialista [documenti 3, 4, 5].
Le fonti orali rappresentano invece il gruppo più numeroso della documentazione [documenti 6, 8, 9, 10]. Privilegiando la soggettività dei protagonisti, le interviste raccolte in anni recenti da un gruppo di ricercatori di alcuni istituti storici della Venezia Giulia (anni Novanta, Duemila) ricostruiscono i motivi della scelta, l’esperienza vissuta nei luoghi di lavoro e successivamente, dopo la Risoluzione del Cominform del 28 giugno 1948, la prigionia nei campi di detenzione jugoslave e dunque il rientro in patria. Le testimonianze raccolte costituiscono un patrimonio importante che consente di elaborare interpretazioni verificabili con altre fonti (materiali d’archivio e bibliografia); tuttavia, la fonte orale va sottoposta a una valutazione attenta perché proprio su questa vicenda la memoria dei soggetti risente maggiormente delle ricostruzioni successive e dipende dal più o meno coinvolgimento politico dei protagonisti stessi.
Il documento n. 7 propone un brano tratto dal romanzo di Pier Paolo Pasolini Il sogno di una cosa che narra di Milio, Eligio e Nini, tre giovani friulani alla deriva in un secondo dopoguerra privo di prospettive, che emigrano in Jugoslavia, convinti che quel Paese fosse una terra promessa. Questa fonte invita a riconoscere nel fenomeno dell’emigrazione in Jugoslavia non solo una questione operaia, ma una vicenda che coinvolge altri gruppi sociali e nuove generazioni nel difficile contesto del dopoguerra.
Documento 1. Gli operai di Monfalcone negli anni del Fascismo.
Documento 2. Gli operai di Monfalcone nella Resistenza. La storia della “Brigata proletaria”.
Documento 3. Il confine orientale. I cambiamenti dal 1924 al 1954.
Documento 4. Le foto delle manifestazioni pro Jugoslavia a Monfalcone nel 1946.
Documento 5. I Cantieri Navali di Monfalcone nel secondo dopoguerra.
Documento 6. I “monfalconesi” in Jugoslavia.
Documento 7. “Il sogno di una cosa”.
Documento 8. Gli anni di galera di Milio Cristian comunista.
Documento 9. L’inferno di Goli Otok.
Documento 10. La prigionia di un monfalconese in Jugoslavia.
Testo per gli allievi
Tra la fine del 1946 e la metà del 1948, operai e tecnici dei Cantieri navali di Monfalcone minacciati di licenziamento a causa della crisi produttiva, decisero di emigrare a Fiume e a Pola, in Jugoslavia, dove l’industria di costruzioni navali era in crisi per mancanza di manodopera qualificata. Molti, fra i “duemila” monfalconesi, erano dirigenti sindacali e di partito, militanti comunisti che avevano combattuto da partigiani contro il nazismo e il fascismo nella Resistenza italiana a fianco delle formazioni jugoslave, ma anche alle dipendenze delle stesse come nel caso della Brigata Triestina e dei Fratelli Fontanot.
Altri lavoratori erano semplici operai attratti da un sogno: la speranza di migliorare le proprie condizioni di vita. La scelta di emigrare non coinvolse solo i lavoratori, ma anche interi gruppi familiari che spesso lasciarono definitivamente la casa, il lavoro, una vita sicura.
Per lo stesso motivo partirono per la Jugoslavia anche diverse famiglie contadine e coloniche del Gradiscano, del Cormonese, della Bassa Friulana, come dal Pordenonese e dalla Carnia, zone dell’attuale regione Friuli Venezia Giulia.
Nella tradizione popolare, questa emigrazione fu chiamata “controesodo”. Infatti, due vicende si svolgevano nello stesso tempo. Trecentocinquantamila italiani abbandonavano le proprie case in Istria e Dalmazia (1947-1954), terre passate sotto la sovranità jugoslava. Invece, migliaia di lavoratori dei Cantieri di Monfalcone raggiungevano le vicine località dell’Istria e altre più lontane della terra jugoslava.
La scelta di raggiungere la patria socialista si scontrò con le condizioni critiche della Jugoslavia nel dopoguerra. I “monfalconesi” comunisti erano fedeli al partito comunista sovietico. Il 28 giugno del 1948, la Risoluzione del Cominform, il comitato internazionale comunista guidato dall’Urss, decise l’espulsione di Tito e la condanna della Jugoslavia. Allora, i monfalconesi proclamarono la loro fedeltà all’Unione Sovietica, attaccando pubblicamente il gruppo dirigente di Belgrado.
Per questo motivo, I comunisti italiani furono accusati di sabotaggio, spionaggio, opportunismo e cospirazione ai danni della Jugoslavia. Per un gruppo iniziò un periodo durissimo: dalle espulsioni agli internamenti in Bosnia, dagli arresti alle torture e le deportazioni nei campi di concentramento jugoslavi. Furono internati nelle isole-lager di Goli Otok (Isola Calva), di Svet Grgur (San Gregorio), di Ulianik vicino a Zara e in alcuni fra i più duri carceri come Sremska Mitrovica in Serbia, Stara Gradiška in Croazia e Bileća in Bosnia.
Invece, per la maggior parte dei lavoratori, ci fu l’immediato rientro. Il clima era cambiato, gli italiani erano sospettati. Coloro che rientrarono non ritrovarono più il lavoro, in alcuni casi neanche la casa. Furono derisi da vecchi e nuovi avversari. Delusi, umiliati, e sfiduciati si chiusero nel silenzio e vollero dimenticare. Altri furono costretti a emigrare nuovamente diretti in altri paesi d’Europa come la Francia, la Svizzera, la Svezia.
Documenti
Documento n.1
Gli operai di Monfalcone negli anni del Fascismo.
[…] Contro il proletariato dell’industria navalmeccanica di Trieste, Muggia, Monfalcone, s’infittiscono la vigilanza, le persecuzioni, le provocazioni di ogni genere. La violenza di stato si “combina” con quella di classe, la persecuzione poliziesca a livello politico (contro il partito presente nelle fabbriche) si salda a livello sociale con la repressione “tecnologica” per distruggere ogni autonoma capacità di difesa e reazione della classe operaia (emarginazione dell’operaio di mestiere, allargamento dell’area di lavoro dequalificato, taglio costante dei cottimi con intensificazione dei ritmi restando stabili i guadagni, uso discrezionale degli “straordinari”, sfruttamento dell’apprendistato giovanile ecc.). Il capitale controlla in pieno sia il processo di produzione che la forza-lavoro e il mercato del lavoro. Ogni crisi produttiva è scaricata sulle masse lavoratrici e comporta licenziamenti a valanga.
Alla fine del 1923 il Cantiere di Monfalcone si è ridotto a circa 2.500 operai. Poi vi è una parziale ripresa (1924) per le commesse delle ferrovie dello stato. Nel ’25 e ’26 sono impostate “Saturnia” e “Vulcania” e nel 1927 l’organico sale a 6-7000 persone (entra in funzione anche il reparto Aereonautica). Con la crisi del 1932, effetto di quella devastatrice del 1930 su scala mondiale, il Cantiere scende a 2000 operai. Il licenziamento è sempre un dramma personale e familiare oltre che collettivo: è lotta per mangiare, è ricerca affannosa per una manovalanza qualsiasi. Talora l’esasperazione crea tensioni e lacerazioni all’interno della stessa classe operaia (operai di estrazione “cittadina” e operai-contadini, operai qualificati e generici, “pertinenti alla provincia e fuori-provincia ecc.). In quel periodo operai monfalconesi disoccupati reagiscono contro i compagni più fortunati: seminano chiodi davanti all’ingresso del cantiere per forare gli pneumatici delle biciclette di operai friulani della Bassa che si portano in fabbrica roba da mangiare.
[…] Le condizioni ambientali erano pessime. In Cantiere negli anni Venti non c’erano spogliatoi né bagni, c’erano solo dei rubinetti, non c’era mensa. Una piccola mensa funzionava all’albergo operai (“albergo dei lupi”) per gli operai friulani e del Carso triestino che andavano a casa solo la domenica. In Cantiere si mangiava dalla gavetta, minestra e polenta. I medici costringevano a lavorare anche quando si era “mezzi morti”[…] un altro metodo di sfruttamento feroce era quello degli “straordinari”. L’operaio comunista Leonardo Macorig ricorda che nel ’36 una volta è uscito da casa il giovedì e vi è rientrato la domenica alle 14. Nessuno rifiutava gli “straordinari”, racconta Gergolet, per paura di venir licenziato: “O così o là è il portone”. I “pendolari”, come Macorig, dato che il treno operaio di norma arrivava sempre in grave ritardo, venivano da Cervignano a Monfalcone in bicicletta anche con la pioggia e la neve.
[…] La classe dirigente e le direzioni aziendali che “programmavano” questi sistemi non rifuggivano neppure dalla collaborazione diretta con la repressione poliziesca degli antifascisti in fabbrica: un bel servizio senza sporcarsi le mani, da “uomini dabbene”. Oltre alla prassi consueta dei licenziamenti per motivi politici o delle mancate riassunzioni dei reduci dal carcere e dal confino, veniva praticata una forma particolarmente insidiosa e disonorante (si fa per dire, nella fattispecie un giudizio etico appare retorico) di “delazione concordata”: non solo tramite fascisti zelanti e squadristi in fabbrica, i quali ricevevano la “doppia busta” (quella del salario o stipendio “ufficiale” e un’altra per le informazioni riservate, una specie di premio di “fedeltà” al padrone e alla “patria”) ma con accordi diretti fra la direzione e alti funzionari dell’Ovra [polizia politica] e della Pubblica sicurezza.
[…] La repressione scava solchi profondi nel tessuto organizzativo del movimento, sia in Cantiere, dove in certi periodi il partito è disarticolato ed “espulso” dalla fabbrica (sopravvive solo il Soccorso Rosso nelle fasi di più acuta crisi), sia nel territorio.
Dal 1925 in poi c’è una serie crescente di persecuzioni che mirano a neutralizzare il movimento dentro e fuori il Cantiere. Per lo stretto rapporto che intercorre fra i gruppi operai comunisti del Cantiere e quelli operanti nei vari comuni e paesi del retroterra isontino e friulano, luoghi di origine e residenza di numerosi militanti che lavorano in fabbrica, accade spesso che la scoperta di sezioni o cellule nel territorio porti di riflesso contraccolpi immediati in cantiere.
Da G. Fogar, Gli anni della clandestinità: violenza di stato e di classe a Monfalcone,
in “Il Territorio”, a. 1, n. 2, 1979, pp. 59-68.
Documento n. 2
Gli operai nella Resistenza
Con la definizione di “battaglia di Gorizia” consideriamo quell’insieme di operazioni che vede impegnata la classe operaia del monfalconese – nella stragrande maggioranza maestranze dei Cantieri-. È nel monfalconese che, in seguito all’armistizio dell’otto settembre 1943, si determina un momento che può definirsi insurrezionale. Situazione che rappresenta un ulteriore processo di maturazione della “esplosione” precedentemente avvenuta il 25 luglio in seguito alla caduta del governo Mussolini, nel corso della quale un operaio verrà ucciso (e del quale, per il fatto di non essere della zona, non si è conservato neppure il nome) e che venne repressa dall’intervento dei “metropolitani” che installarono le mitragliatrici nelle officine dei cantieri.
Dunque, protagonisti furono i lavoratori di uno dei più consistenti e maturi nuclei operai della Regione, permeati da una radicata coscienza socialista e perciò stesso stimolati all’azione contro l’invasore da una possente carica antifascista.
[…] L’indomani [dell’otto settembre ndr] vi è fermento a Monfalcone, dove gli operai sono regolarmente confluiti, e in tutta la zona circostante.
A Monfalcone sorge un Comitato e s’intraprendono vari iniziative fra le quali l’intervento verso il “Comando Piazza”, dove ci si offre quali volontari, intervento che viene respinto con la giustificazione della mancata disponibilità di armi.
Le iniziative si articolano nei vari centri. Inizia nel frattempo lo spostamento di operai verso Cave di Selz, Doberdò e, da qui, verso Jamiano e Vallone in direzione di Voghersko (Villa Montevecchio) dove avviene il concentramento.
[…] Camion del Cantiere fanno la spola dalla piazza di Monfalcone a Voghersko, trasportando gente ed ogni sorta di materiale reperito. Si determina così uno schieramento, che va da Doberdò all’intera zona di Gorizia, con il massimo concentramento a Voghersko, dove con la massa affluita (1500-2000 unità) si costituisce la “Brigata Proletaria”.
[…] La partecipazione degli operai del Cantiere (fra i quali sono presenti non pochi di nazionalità slovena originari del Carso) è tuttavia prevalente nella zona. Presenza operaia poiché l’elemento maschile sloveno nella sua maggioranza era stato prelevato da parte dell’autorità italiane, attraverso l’arruolamento nei cosiddetti “battaglioni speciali”. Così accanto a temprate formazioni slovene sorgono formazioni italiane, vengono costituite formazioni miste con comandi, indifferentemente, compattamente italiani o misti, e con frange che rimangono allo stadio di semplice movimento di massa, quasi sommergendo con ciò gli sforzi di quanti operano nel senso di dare al tutto una consistenza organizzata. Non vi può indubbiamente essere ancora coscienza di quello che sarà il travaglio della resistenza fino alla Liberazione definitiva. Tanto è vero che, in conseguenza dello sfondamento operato dai tedeschi, la maggioranza dei partecipanti riprenderà il proprio posto in fabbrica, molti rifluiranno successivamente nelle formazioni partigiane regolari, altri, organizzati nella fabbrica, lavoreranno intensamente nelle organizzazioni militari e politiche della pianura in appoggio alle formazioni di montagna.
L’impegno tuttavia contro le ingenti forze tedesche intervenute sarà notevole […].
Dopo questa disfatta, singoli e gruppi vagheranno per qualche periodo dispersi nella zona, attanagliati dalla fame, morsi dal freddo notturno aggravato dalla pioggia, dalla Selva di Tarnova al Carso. Un certo numero, guadando l’Isonzo, affluirà al Collio nel primo Battaglione Garibaldi, altri, quando non saranno semplicemente catturati (e sono numerosi) e inviati nei campi di sterminio, finiranno abbattuti negli scontri con reparti e dalle pattuglie tedesche nelle quali incapperanno.
Da V. Marini, I caduti della “Battaglia di Gorizia” in “Rassegna di Storia Contemporanea”, a. II -1972 n.2/3, pp. 252- 257.
Documento n. 3
Il confine orientale. Le modifiche territoriali dal 1924 al 1954.
Da F. Cecotti, B. Pizzamei B., Storia del confine orientale italiano 1797 – 2007. Cartografia, documenti, immagini, demografia, CD-ROM, Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2007.
Documento n. 4
Manifestazioni pro Jugoslavia a Monfalcone nel 1946
Figura 1-2. Monfalcone, 11 agosto 1946 – Manifestazione filo jugoslava
Figure 3-4. Monfalcone, 1946. Onoranze funebri per i partigiani caduti in Jugoslavia.
Documento n. 5
I Cantieri Navali di Monfalcone nel secondo dopoguerra
Erano anche anni di profonda crisi economica. Il Cantiere navale contava nell’ultima parte della guerra più di 11.000 occupati, per poco meno della metà impiegati nelle costruzioni aereonautiche che, si sapeva, non sarebbero state riprese nel dopoguerra. Una precisa clausola dell’Armistizio impegnava l’Italia a smantellare tutte le industrie utilizzabili per fini bellici, e tra queste rientravano pienamente anche la costruzione di aerei (indifferentemente se militari o civili) e quella di sommergibili. Si trattava delle costruzioni di punta dello stabilimento monfalconese, che quindi alla fine del conflitto si trovava non solo semidistrutto dai bombardamenti, ma anche privo di prospettive certe per il proprio avvenire, al quale erano legati i redditi e le aspettative di vita di buona parte della popolazione monfalconese e del circondario. La difficile, ma fondamentale ricostruzione dei Cantieri faceva parte di un complesso gioco nel quale gli elementi locali (proprietà e Governo militare alleato) avevano poca voce in capitolo, mentre le vere decisioni venivano prese dal Governo italiano e dalla Commissione alleata di controllo, che aveva sede a Roma.
Mellinato, Monfalcone 15 settembre 1947. Una storia da ricordare, in “Nuova Iniziativa Isontina”, n. 2, agosto 2007, pp. 35- 38.
Documento n. 6
Parlano i “monfalconesi”
Intervista a Riccardo Bellobarbich, nato a Lussinpiccolo (oggi Croazia) nel 1919.
“Arrivati a Fiume, a seconda delle professioni, ci mandavano nelle industrie, dove potevamo essere più utili e così a me ed altri dell’aeronautica ci hanno mandato in treno a Zemum, dove fummo impiegati nelle officine aeronautiche “Icarus”.
Quando siamo arrivati a Zemum, abbiamo trovato la neve alta e noi eravamo con le scarpette basse e tutta la neve ci entrava dentro. Il freddo era insopportabile e l’impatto è stato duro. Alla stazione non c’era nessuno che ci aspettasse e non sapevamo nemmeno da che parte andare. Insomma l’organizzazione era inesistente. Siamo arrivati in città e qualcuno ci ha indicato la strada. Noi poi non conoscevamo la lingua a parte qualche bestemmia. Solo dopo sei o sette mesi riuscivo a farmi capire.
Ci hanno messo in una specie di caserma, un dormitorio con i letti a castello. Mangiavamo alla mensa della fabbrica. Comunque non si stava male. Certo non c’erano lussi ma insomma era il dopoguerra anche per loro. Noi non ci si lamentava, anche perché eravamo andati con uno spirito già preparato alle privazioni. Sapevamo che non avremmo trovato le galline gratis o cose così. Insomma all’inizio non era male, dopo invece è venuto il male, ma veramente male ….”.
Intervista a Mario Tonzar, nato a Turriaco (Gorizia) nel 1920.
“Sono partito il 3 marzo 1947 assieme ad altri tre giovani. Il punto d’arrivo era Fiume, siamo arrivati in treno.
A Fiume c’era l’ufficio del lavoro e ci hanno detto dove dovevamo andare. Io sono stato destinato a Zenica in Bosnia, dove più tardi saranno confluiti molti monfalconesi. Sono rimasto là un anno e posso dire di essermi trovato in mezzo a gente veramente con sentimenti fraterni. Ho avuto tutto l’aiuto possibile e immaginabile. Lavoravo in un’officina come falegname, avevo una paga discreta però era difficile per noi abituarsi, soprattutto per l’alimentazione. Sono stato più di due mesi malato per le conseguenze del cibo. Avevo tanti amici, ero trattato benissimo, però non riuscivo ad adattarmi alla nuova alimentazione. Ho fatto amicizia anche con il segretario d’officina del partito, un tipo politicamente preparato che sapeva il motivo per il quale noi abbiamo abbandonato le nostre case e siamo venuti a lavorare in Jugoslavia. Sapeva che non eravamo andati in cerca di lavoro per se stesso, ma che avevamo abbandonato l’Italia per motivi politici. Aveva una certa considerazione di noi. Dunque siamo stati accolti bene non solo dalla gente, ma anche dai quadri del partito. Sono rimasto in Bosnia fino all’aprile del ’48 e poi sono tornato a Fiume per ragioni di salute. Ho chiesto io di poter andare via perché non riuscivo neanche a lavorare. A Fiume per circa un mese ho fatto una cura per potermi rimettere. Poi mi sono ripreso e sono andato a lavorare in Cantiere a Fiume. Lì nel giugno ’48 è arrivata la risoluzione del Cominform”.
Intervista a Valerio Beltrame, nato a Manzano (Udine) nel 1913.
“Quando è venuta fuori la faccenda di partire per andare a costruire il socialismo – perché lì non c’era il socialismo e non lo hanno fatto neanche dopo- siamo andati, ma eravamo buttati allo sbaraglio. Il partito comunista, la sinistra italiana non è che ci ha detto “Ma Valerio, ma Calvo, cosa state facendo?”. Nessuno ci ha detto niente. Noi eravamo convinti che il nostro dovere di comunisti era di fare quello che abbiamo fatto. Il mio gruppo era composto da circa venti persone: italiani di Cormons e di altri paesi. Come insegnante alla scuola quadri avevamo anche Silvano Bacicchi e poi Aldo Fumis. Nei due mesi di corso intensivo che abbiamo fatto ci insegnavano la storia dei partiti comunisti, ma non hanno mai menzionato il partito comunista italiano. Ci hanno insegnato tutte le fasi del partito comunista dell’Unione Sovietica, del PC greco e di altri paesi europei, ma sul PCI niente”.
Da A. Di Gianantonio, T. Montanari, A. Morena, S. Perini, L’immaginario imprigionato. Dinamiche sociali, nuovi scenari politici e costruzione della memoria nel secondo dopoguerra monfalconese, Monfalcone, Consorzio culturale del monfalconese e Irsml- Fvg, 2005, pp. 169-175.
Documento n.7
Il sogno di una cosa
“ Anch’io forse andrò via”, disse il Nini guardandosi intorno.
“E dove?”, fece Pieri Susanna che si era avvicinato: si grattava stupito la testa sotto il berretto, perché era la prima volta che il Nini accennava a emigrare, e lo diceva con tanta spavalderia e leggerezza che era impossibile prenderlo sul serio.
“In Jugoslavia”, rispose il Nini con tutta semplicità, “là almeno c’è il comunismo!”.
“Tu da solo?”.
“No, a Ligugnana siamo in cinque o sei che abbiamo questa idea … E poi c’è qualcun altro qui”, e ammiccò verso Eligio. “Ma ancora tutto è indeciso…vedremo!”. E bevve quel po’ di vino che era rimasto sul fiasco.
[…] Il 14 luglio 1948 il Nini ed Eligio, con Antonio e Pietro Nonis, Basilio Nio e Germano Giacomuzzi, partirono da Ligugnana per andare in Jugoslavia.
Tutta la loro compagnia venne ad accompagnarli alla stazione di Casarsa a prendere il treno, e a bere l’ultimo bicchiere di bianco insieme: Milio aveva portato la fisarmonica, e si salutarono cantando e gridando.
E piangendo anche. Ma quelli erano i giorni della speranza: la guerra pareva ormai lontana e, per la gioventù, cominciava la vita.
Verso le quattro del pomeriggio arrivarono a Gorizia e per passare il tempo vollero salire sul castello. Da lassù, in cima ai bastioni che sorgevano sopra un colle, si poteva vedere lungo una distesa verde e azzurra di alture e montagne, il confine con la Jugoslavia e la Jugoslavia stessa, come addormentata nel sole.
Coi loro fagotti ai piedi, i ragazzi guardavano zitti verso quell’orizzonte limpido, turchino e imbevuto di una luce che toglieva il respiro, lungo le curve delle prealpi, tra boschi, borgate e radure. Proprio sotto il castello, sul costone di una colina, si vedeva a non più di due o trecento metri, una strada bianca, disegnata tra case e orticelli; degli uomini vi camminavano; una donna venne alla finestra a sbattere un panno. Là non c’era più l’Italia: pareva che non ci fosse più mondo, o che avesse inizio un mondo del tutto nuovo, libero, luminoso.
Da P. P. Pasolini, Il sogno di una cosa, Milano, Garzanti, 1962.
Edizione speciale per il Messaggero Veneto pubblicata nel 2003, pp. 30 – 33.
Documento 8.
Gli anni di galera di Milio Cristian comunista
Mi chiamo Cristian Emilio, sono nato a Villa Santina (Udine) il 6 gennaio 1915, e vi risiedo tuttora.
L’anno 1947, mio padre, mio fratello ed io, decidemmo di recarci in Jugoslavia perché delusi, in Italia, del mancato riconoscimento per noi, combattenti della libertà (partigiani garibaldini); qualificati, invece, dai dirigenti del regime capitalista, come Banditi. Rammaricati e umiliati, prendemmo la via della Jugoslavia, credendo di trovare il clima per il quale avevamo combattuto e sofferto, l’agognata meta del socialismo.
Era il mese di aprile 1947. Arrivammo a Titograd (Montenegro) il primo maggio. Dopo pochi giorni ci accorgemmo di non essere benvoluti e che il clima della fraternità socialista si era parecchio affievolito. Tanto è vero che, a causa del clima politico pesante, a Titograd restammo soltanto pochi mesi.
Decidemmo di trasferirci a Fiume; e qui ci sentiamo subito un poco meglio. Trovammo lavoro nei Cantieri navali 3 Maggio, di Fiume; io come elettricista.
Per un paio di mesi la vita trascorse normale; poi arrivò la Risoluzione del Cominform, che per noi italiani fu un fulmine a ciel sereno caduto sulle nostre teste.
Per qualche giorno restammo annichiliti, come colpiti da paralisi totale. Poi parlammo, come è giusto, a favore del Cominform.
Una spia, mandata da me sul lavoro, riportò in modo distorto la mia tesi in favore del Cominform. Due giorni dopo venni chiamato nell’ufficio del Udba di Cantiere, davanti a un ufficiale di nome Dušan. Subito venni trasferito nelle carceri di via Vittime Antifasciste (ex via Roma), a Fiume, e qui mi lasciarono per un mese, tagliato fiori da ogni soccorso morale e materiale dei familiari. Il vitto era inferiore al vitto dei campi di sterminio tedeschi (tipo Mauthausen). Tanto è vero che, tornato in libertà, per diversi giorni consecutivi non facevo altro che mangiare e rigettare, tanta era la fame arretrata.
[…] Dopo parecchi ore arrivammo a Stara Gradiška, e qui rimanemmo annichiliti per ciò che avveniva dentro le mura del carcere. Tanto per citare un fatto: un prigioniero ebbe il coraggio di dire Viva Stalin e venne ridotto in fin di vita a pugni e a calci da parte degli altri prigionieri, che finirono di soffocarlo nel buco del gabinetto.
Per quanto mi riguarda, dopo alcuni giorni mi misero in bojkot. Passare in bojkot voleva dire essere picchiato a sangue e seviziato da tutti i nostri simili. Per esempio, alla sera giù i pantaloni, e sulla nuda pelle cinghiate da farti morire. Qualcun altro si divertiva a bruciarmi i piedi con la sigaretta accesa: e qui purtroppo si trattava di un italiano, un certo Franti. Poi ci facevano prendere a pugni fra di noi in bojkot; e quasi ogni sera dovevamo fare il girotondo sotto a luce della camerata, mentre diversi nostri colleghi camminavano e ci pestavano con i piedi sulle nostre teste.
Una mattina ci accorgemmo che un mio vicino, che dormiva accanto a me, si era tagliato i polsi ed era svenuto.
Ciò avvenne perché l a sera prima era stato picchiato a sangue dai suoi simili. Fu salvato, ma perse per sempre la mano.
Da L. Marin, Vita, ideali, anni di galera di Milio Cristian comunista, Rodeano Alto (Ud), Coordinamento dei Circoli Culturali della Carnia, pp.73-74; 76-77.
Documento n. 9
L’inferno di Goli Otok
Il caso di Riccardo Bellobarbich è emblematico e perciò va raccontato. Anche lui era un comunista dello zoccolo duro, venuto dal cantiere navale di Monfalcone per scegliere il socialismo nella vicina repubblica, dove pagò duramente l’opzione staliniana. All’epoca Bellobarbich, montatore aeronautico, aveva trentatré anni. Licenziato dai cantieri nel 1946 perché ci lavorava già suo padre, si trovò in una situazione pietosa il giorno in cui il genitore si ammalò; decise, con un fratello, di portare la famiglia oltre confine, a Fiume, dove giunse nel gennaio del ’47. Da Fiume fu destinato a Zemum, alla periferia di Belgrado, nelle officine aeronautiche Icarus.
Eravamo in duecento monfalconesi nella zona. Organizzammo uno dei primi scioperi della Jugoslavia contro il cibo piccante: quelli del posto ci guardavano come se fossimo marziani. Tutto andò liscio fino a quando ci fu lo ‘scisma’ di Tito e noi sposammo tutti la causa filosovietica. Nel frattempo avevo chiesto il trasferimento a Fiume, al silurificio, ed a Fiume cominciarono le repressioni.
Credendo di poter lavorare alla luce del sole senza conseguenze, Riccardo Bellobarbich organizzò una colletta per le famiglie dei deportati in Bosnia, per cui fu trasferito al tribunale militare di Susak (ora parte integrante di Fiume) per un processo-farsa. La condanna fu: 28 mesi di “lavoro socialmente utile” nell’isola di Sveti Grgur.
Era un periodo di grande confusione e incertezza: dopo qualche mese furono internati anche il giudice che mi aveva condannato e il pubblico ministero. La detenzione serviva al ravvedimento: a comandare ogni baracca c’era un kapò, un ravveduto, e ogni giorno c’erano riunioni con interrogatori stringenti. Volevano sapere tutto sui nostri rapporti esterni con i compagni e se non parlavamo ci bastonavano. Alcuni sono arrivati al suicidio, altri al punto di denunciare parenti e familiari. Era inverno: subii dieci giorni di isolamento, con cibo razionato a metà e senza indumenti pesanti. Alla fine dei 28 mesi il tribunale interno decise che non ero ancora ravveduto e mi portarono sull’Isola Calva- Goli Otok per l’ultima fase di rieducazione. Dovevamo spaccare pietre servendoci di altre pietre. Chi non lo faceva era bastonato dai compagni e chi non picchiava era a sua volta picchiato. Passai così altri sei mesi a Goli Otok prima di essere liberato. Tornato a Fiume, volevo rientrare in Italia, ma ero privo di soldi, di lavoro, di passaporto. E qui cominciò il tentativo della polizia di farmi diventare delatore. Ero avvicinato di continuo da agenti e provocatori mandati apposta per verificare se ci si poteva fidare di me. Riuscii a farglielo credere, ripresi il vecchio lavoro in fabbrica fino a quando non chiesi un permesso temporaneo per rientrare in Italia. Me lo concessero e nel ’52 tornai a casa.
Per sempre. Gli accenni di Bellobarbich all’Isola Calva danno una sola idea di quell’inferno. Nelle parti seconda e terza di questo libro scenderemo in quei gironi e bolge.
Da G. Scotti, Goli Otok. Ritorno all’isola Calva. A quarant’anni di distanza le rivelazioni su un gulag dell’Adriatico voluto da Tito, Trieste, Lint, 1991, pp. 28-29.
Documento n. 10
La prigionia di un monfalconese in Jugoslavia
“Mia moglie ed io, rientrando dal lavoro, trovammo ad attenderci due poliziotti sula porta di casa. Perquisita l’abitazione, mi invitarono a seguirli alla polizia. Siccome ero un ex carcerato politico sotto il fascismo, chiesi alla polizia se potevo portare una coperta. Mi risposero che, se volevo, potevo portarla, ma che sarei subito rientrato a casa. In vece mi condussero direttamente nel carcere di Pola, in via Santi Martiri.
Nel carcere do Pola venni rinchiuso in una piccola cella, di metri 2 per tre. Era fredda e umida. L’arredamento consisteva in un tavolaccio in legno per dormire, col guanciale pure di legno (come nelle celle di sicurezza delle caserme dei carabinieri di anteguerra), una coperta da campo e una chibla per i bisogni. Nient’altro.
In quella cella rimasi isolato per circa tre mesi; poi, in compagnia, per altri cinque o sei, senza mai andare all’aria. Al mattino il custode apriva la porta affinché il detenuto passasse in una cella accanto, adibita a gabinetto, per lavarsi e vuotare la chibla. Il tempo disponibile era di circa 10 minuti per carcerato.
Il vitto era impressionante. Al mattino distribuivano una tazza di caffè d’orzo, pura acqua nera. A pranzo davano un mestolo di brodaglia di orzo e granoturco: il mestolo non conteneva mai più di due o tre chicchi di orzo o di mais. Per cena la stessa brodaglia. Davano, poi, due pallette di pane al giorno, esclusivamente confezionato con farina di mais (in tutto circa 250 grammi). Questo fu il mio menù durante i 280 giorni trascorsi in quel carcere, sempre così, uguale. Per fortuna il regolamento carcerario permetteva al detenuto di ricevere, una volta la settimana, un pacchetto di viveri dalla famiglia: altrimenti si doveva morire di fame o subire gravi conseguenze nel fisico.
Per tutto il periodo di detenzione non ebbi mai colloqui con familiari, non potei mai scrivere e mai ricevetti posta. Per tutto il periodo di isolamento non ebbi mai nemmeno giornali o libri da leggere. Isolato dal mondo esterno e interno, vedevo solo due guardie carcerarie, certi Rabar e Viskovič, due aguzzini freddi, viscidi e taciturni.
Al terzo giorno venni sottoposto al primo interrogatorio. Conobbi così le accuse che mi venivano mosse. Secondo queste accuse avevo fatto parte di bande cominformiste guidate dall’URSS e dal PCI in prima persona; avevo ideato piani di sabotaggio contro la produzione industriale e i mezzi di produzione; avevo tentato di creare gruppi eversivi di cominformisti con lo scopo di rovesciare il governo socialista della Repubblica federativa jugoslava. Erano accuse sufficienti per dare addio per sempre alla nostra Monfalcone. L’interrogante che sfornava queste accuse parlava serio e convinto della veridicità di ciò che diceva.
Da G. Fogar (a cura di), Memorie di un monfalconese nella Jugoslavia del dopoguerra,
in “Qualestoria” n.1- aprile 1993, pp. 51-102.
Glossario
Comintern: (forma italianizzata per Komintern o Internazionale comunista o Terza internazionale), Associazione costituitasi a Mosca nel 1919, cui aderirono numerosi gruppi e formazioni politiche di orientamento comunista. Aderirono all’Internazionale comunista 64 partiti di estrema sinistra, socialisti e operai e anche gruppi anarchici, presenti in più di cinquanta paesi. Nel secondo congresso (1920) furono stabilite le condizioni per l’adesione dei partiti e l’Internazionale assunse l’aspetto di un organismo centralizzato in cui i comunisti sovietici ebbero un ruolo egemone. A seguito della seconda guerra mondiale, il Comintern fu sciolto ufficialmente nel maggio 1943 in una riunione di dirigenti comunisti esuli in URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche), senza incontrare opposizione da parte di nessun partito.
Cominform: (forma italianizzata per Kominform) Ufficio d’informazione dei partiti comunisti creato in seguito a decisione della conferenza tenutasi a Szklarska Poreba in Polonia, nel settembre 1947, fra i rappresentanti dei partiti comunisti di URSS, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Iugoslavia, Italia e Francia (aderirono in seguito il partito olandese e quello albanese). Rispetto al disciolto Comintern, il Cominform rappresentava una forma di collegamento meno impegnativa, limitata peraltro ai partiti comunisti europei. Prima sede permanente fu designata Belgrado e al Comintern furono assegnate funzioni di coordinamento e reciproco scambio di informazioni. Il 28 giugno 1948, il Cominform condannò la politica del Partito comunista iugoslavo accusandolo di deviazionismo nazionalista; la sede del Comintern fu allora stabilita a Bucarest. Il Cominform fu sciolto il 17 aprile 1956.
Patto di Varsavia: Alleanza politico-militare e organizzazione di mutua assistenza fra l’Unione Sovietica e le democrazie popolari dell’Est europeo, operativa dal 1955 al 1991. Ispirata dal desiderio dell’URSS di rafforzare il proprio controllo sui Paesi satelliti, già operante attraverso una serie di accordi bilaterali di alleanza, e di riarmare la Repubblica democratica tedesca, rappresentò una risposta politica al riarmo della Repubblica federale di Germania, consentito dalla sua inclusione nella UEO (Unione europea occidentale) e nella NATO (Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord) – Accordi di Parigi e di Londra del 1954-.
Gulag: Sigla di Glavnoe upravlenie (ispravitel´no-trudovych) lagerej in italiano “Direzione generale dei campi [di lavoro correttivi]”. Nell’ordinamento sovietico, il Gulag era l’organismo preposto alla gestione dei campi di lavoro coatto.
Udba: Sigla di Uprava državne bezbjednosti, in italiano “Direzione per la sicurezza dello Stato”. È
il nome assunto dal servizio segreto interno della Jugoslavia nel 1951, in sostituzione del precedente OZNA, sigla di Odjel za zaštitu naroda, in italiano “Distaccamento per la difesa del popolo”.
Sequenza didattica
- Contestualizzazione.
Analizza le mappe contenute nella documentazione n.3; quindi elabora un testo breve dove descrivi i cambiamenti del confine “mobile”, inclusivo dei territori in cui si svolge la vicenda dei monfalconesi emigrati in Jugoslavia. Cerca, poi, sul manuale, le notizie essenziali relative alla Guerra Fredda.
- Lavoro sui documenti.
a) Leggi i documenti 1, 2, 3, 4, 5. Costruisci una mappa concettuale in cui evidenzi tutti i fattori entrati in gioco nel determinare la scelta da parte dei lavoratori di Monfalcone di emigrare in Jugoslavia.
b) Leggi le testimonianze e il brano tratto dal romanzo di Pasolini “Il sogno di una cosa” (documenti 6, 7, 8, 9, 10) e mettile a confronto.
- Costruisci una tabella in cui distingui le diverse motivazioni che hanno spinto i monfalconesi e altri abitanti della regione a lasciare per sempre il lavoro e la propria abitazione.
- Scrivi un breve testo in cui descrivi le nuove condizioni di vita e di lavoro vissute dai monfalconesi in Jugoslavia, utilizzando le notizie ricavate dai documenti elencati.
- Descrivi i caratteri della persecuzione e della prigionia dei “cominformisti” italiani fedeli alledirettive di Mosca.
c) Leggi le testimonianze (documenti 6, 8, 9, 10) e analizza le foto (documento 4): sottolinea i termini ed evidenzia azioni, immagini, simboli relativi a:
- l’appartenenza alla classe operaia;
- l’appartenenza al partito comunista;
- l’appartenenza alla comunità nazionale.
- Scrittura.
a) Utilizzando le informazioni tratte dai documenti, integra il testo dato con le notizie che riguardano dettagliatamente i monfalconesi emigrati in Jugoslavia.
b) Utilizzando le informazioni tratte dai documenti scrivi un nuovo testo in cui fai parlare un protagonista immaginario, che racconta la scelta di partire, l’incontro con la nuova patria, la delusione e il ritorno a casa.
Note:
[1] G. Mellinato, Monfalcone 15 settembre 1947. Una storia da ricordare, in “Nuova Iniziativa Isontina”, n. 2, agosto 2007, pp. 36 – 38.
[2] Ibidem, p.37.
[3] G. Fogar, (a cura di), Memorie di un monfalconese nella Jugoslavia del dopoguerra, “Qualestoria”, a. XXI, n.1, aprile 1993, pp.53-54.
[4] Ibidem, p.54.
[5] Vedi M. Puppini, Il ‘controesodo’ Monfalconese in Jugoslavia fra Trattato di Pace e Risoluzione del Cominform, in Puppini M. (a cura di), Il mosaico giuliano. Società e politica nella Venezia Giulia del secondo dopoguerra (1945-1954), Gorizia, Centro Isontino di ricerca e Documentazione Storica e Sociale “Leopoldo Gasparini”- Comune di Monfalcone, 2003, p.83.
[6] Ibidem, p. 85.
[7] G. Scotti, Goli Otok. Ritorno all’Isola Calva. A quarant’anni di distanza le rivelazioni su un gulag dell’Adriatico voluto da Tito, Trieste, Lint, 1991. Giacomo Scotti, giornalista e scrittore di origine napoletana, giunse giovanissimo a Fiume nell’immediato dopoguerra diventando subito collaboratore della “Voce del Popolo”, il giornale in lingua italiana della città.
[8] G. Fogar, (a cura di), Memorie di un monfalconese nella Jugoslavia del dopoguerra, “Qualestoria”, a. XXI, n.1, aprile 1993, pp. 60-61.
[9] A. Bonelli, Fra Stalin e Tito. Cominformisti a Fiume, 1948-1956, Trieste, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, 1994, pp. 108-109.
[10] M. Puppini, op.cit. p. 90.
sono un figlio di un genitore del controesodo a pola nel 1948 per lavorarte nel cantiere navale
sono un figlio di un genitore del controesodo a pola nel 1948 per lavorarte nel cantiere navale di pola
Sto cercando materiale per uno spettacolo teatrale. Sono Enrico Bergamasco, attore e regista monfalconese.
Potete scrivermi a: dimensionedeva@gmail.com
Gentilissimo,
credo che l’autrice del testo, Chiara Fragiacomo, potrebbe esserle d’aiuto.
Se ci autorizza, le inoltriamo questa sua richiesta.
Cordialmente