Introduzione al dossier “La storia nell’era digitale”
Abstract
La rivoluzione informatica ha raggiunto, se pur in maniera difforme e graduale, anche la scuola italiana. Il web e il digitale, come nuovi ambienti di apprendimento, accanto a quelli più tradizionali, come i libri di storia e manuali scolastici, costituiscono un passaggio di “paradigma”, tanto negli stili di apprendimento/insegnamento quanto nelle modalità della ricerca storica.
Se non supportati dalla riflessione didattica disciplinare e dalla formazione, gli insegnanti rischiano di reagire allo spaesamento, indotto dalla sovrabbondanza informativa della navigazione in rete, in modo conservativo oppure, al contrario, entusiasta e totalmente acritico, cullandosi nell’idea della neutralità degli strumenti tecnologici, dell’autoinsegnabilità dei contenuti di rete, cimentandosi nel patchwork del cosiddetto book in progress.
- Dal Corso di formazione sulla storia nell’era digitale a un “programma di ricerca” per gli Istituti della Rete INSMLI
- Il “nucleo”: centralità della formazione scolastica e rispetto per lo statuto epistemologico della disciplina
- L’ “euristica negativa”: insegnamenti e cautele critiche dalla storia della “rivoluzione digitale”
- L’ “euristica positiva”: insegnare storia al tempo della “rivoluzione digitale”
Dal Corso di formazione sulla storia nell’era digitale a un “programma di ricerca” per gli Istituti della Rete INSMLI
Il dossier che in questa sezione viene presentato offre una panoramica delle prospettive fondamentali legate alle tecnologie informatiche applicate alla storia e in particolare alla sua didattica, così come sono state affrontate nella tre giorni di Piacenza del Corso di formazione per insegnanti e comandati INSMLI (6-7-8 marzo 2013) “.stori@. La storia nell’era digitale”.
Gli interventi al convegno, sintetizzati, con inserti video, costituiscono un’ottima guida per cogliere gli aspetti salienti delle relazioni di cui, in questa introduzione, si tenta una tematizzazione progettuale.
Il Corso, ideato dalla Commissione formazione con cautela epistemologica e attenzione ai bisogni formativi dei docenti, consente di guardare alle radicali trasformazioni in atto e ai loro non scontati esiti pedagogici con maggiore chiarezza concettuale e una prospettiva programmatica.
Come ha auspicato nella sua introduzione Alberto De Bernardi, vice presidente dell’INSMLI, i nostri Istituti storici, dotati di consolidata esperienza teorico-pratica nella didattica della storia, struttura reticolare sul territorio nazionale ed esplicito mandato ministeriale per la formazione storica, hanno la titolarità per derivare da esso le indicazioni per la definizione di un “programma di ricerca” per l’insegnamento della storia nell’era digitale e per la sua traduzione in percorsi curricolari da offrire alla scuola.
L’utilizzo della fortunata formula di Imre Lakatos può risultare utile per più aspetti.
Che si tratti di una “rivoluzione” con un passaggio di “paradigma”, tanto negli stili di apprendimento quanto nelle modalità della ricerca storica, è stato messo in rilievo da molti relatori.
Così come da tutti, in base alle diverse specializzazioni scientifiche, è stato sottolineato il “nucleo” forte di un possibile “programma di ricerca” fondato almeno su due aspetti. Il primo riguarda la centralità della formazione, in particolare di quella scolastica, in un’ottica costruttivista e partecipativa, conforme agli stili cognitivi dell’era digitale. Il secondo concerne la necessità di rispettare lo statuto epistemologico della disciplina, della scientificità dei criteri di ricerca e di costruzione della narrazione storica in “ambiente” Internet (Brusa e Mattozzi soprattutto, ma anche Cigognetti, Ferri e Facci).
L’ “euristica negativa” del programma riguarda le cautele critiche derivabili dalla conoscenza degli effetti e dei meccanismi pervasivi della rivoluzione tecnologica (Formenti), mentre quella “positiva” può articolare le modalità sperimentali della nuova ricerca in rete, la web hystory, e la traduzione in moduli di apprendimento (ne hanno diffusamente parlato Serge Noiret e Luisa Cigognetti dal punto di vista teorico, mentre percorsi esemplificativi sono stati affrontati in modo approfondito da Di Tonto e dalle conduttrici degli workshop per i diversi gradi di scuola, dalla primaria alle superiori: Paola Limone, Cristina Cocilovo, Patrizia Vayola).
Il “nucleo”: centralità della formazione scolastica e rispetto per lo statuto epistemologico della disciplina
Tutte le relazioni hanno insistito sul ruolo fondamentale della scuola, in quanto istituzione culturale per l’acquisizione di competenze di controllo scientifico dei prodotti dell’immenso mondo del web, palestra magistrale per studiarne le incognite e le mappe, presidio dell’uso critico delle modalità conoscitive e comunicative delle tecnologie telematiche.
Lo statuto epistemologico disciplinare da rispettare rimane quello dell’orientamento geo-temporale degli eventi, del controllo delle fonti, della prospettiva della word history (Antonio Brusa, ma anche Ivo Mattozzi, con una sottolineatura per le “operazioni cognitive” del sapere storico).
Ferri, Facci, Noiret dal punto di vista della sociologia della comunicazione e delle scienze cognitive; Mattozzi, Di Tonto e le conduttrici dei workshop, dalla prospettiva dell’insegnamento della storia nel nuovo contesto, hanno sostenuto che la scuola deve rinnovarsi per intercettare l’interesse dei ragazzi e valorizzare le capacità indotte dagli attuali stili cognitivi – profondamente modificati dalla rivoluzione tecnologica (abitudine al learning by doing, al multitasking, alla condivisione dei social network: Facci) dei “nativi digitali” (Ferri) -, in modo da colmare il divario di 30-40 anni che si consuma nelle poche centinaia di metri tra casa e scuola.
Occorre investire risorse per la formazione degli insegnanti, attrezzarli dal punto di vista euristico e pedagogico, perché siano in grado di coadiuvare i processi di apprendimento di allievi che utilizzano prevalentemente codici digitali anziché alfabetici e ridefinire il set didattico degli edifici scolastici. Non serve puntare sui devices come computer, tablet e smartphone – strumenti ordinari che i ragazzi possono portare da casa – quanto fornire il cablaggio a banda larga degli edifici scolastici e dotare le aule di un’architettura polifunzionale.
In tal modo, alla scuola si assegna il compito fondamentale di rafforzare il proprio ruolo educativo di formazione di una cittadinanza consapevole (Brusa), integrando vecchi e nuovi linguaggi, la carta stampata e la rete, capacità di riflessione e pragmatismo operativo, analisi storico-critica e libera navigazione in un approccio equilibrato e integrativo (Facci).
Infatti, se non è o non sarà la scuola ad insegnare le regole di cittadinanza del web – un “ambiente” e non uno strumento (ancora Facci) del quale occorre conoscere struttura, caratteri e regole per “navigare” in sicurezza e raggiungere gli obiettivi di conoscenza che si perseguono – i giovani rimarranno facilmente incantati dalle “mitologie della rete” (Formenti) e impossibilitati a divenire protagonisti attivi e consapevoli del proprio destino personale e di quello collettivo.
L’ “euristica negativa”: insegnamenti e cautele critiche dalla storia della “rivoluzione digitale”
Una sorta di “euristica negativa” del “programma di ricerca”, sotto forma di consapevolezza critica dei rischi dell’era digitale, prende le mosse dall’intervento di Carlo Formenti che ha ripercorso la storia della rete.
La ricostruzione proposta disvela le istanze della genesi utopica e progressista della rivoluzione digitale e l’ossimoro storico in cui quelle si sono realizzate, vedendo trasformate le iniziali speranze libertarie nel massimo di controllo sociale da parte dei poteri economici e politici.
L’idea nascente che ispirò la rivoluzione digitale fu quella derivata dalle culture alternative sessantottesche, pragmaticamente tradotte nel nuovo contesto tecnologico degli anni ’80 e ’90 e a cui tanti – hacker e accademici statunitensi – lavorarono fiduciosamente, inseguendo l’antico sogno baconiano di emancipazione dell’umanità grazie all’applicazione tecnologica delle scoperte scientifiche. La telematica avrebbe realizzato la democrazia politica diretta e dal basso (la “democrazia degli individui”) e quella economica, grazie all’accesso di tutte le informazioni in modo da rendere reale ed espansiva la libertà del mercato. Soprattutto, la Nuova Atlantide digitale sarebbe stata la patria della democratizzazione del sapere, della condivisione partecipativa delle conoscenze, grazie alle open sources e al software free (Formenti cita ampiamente l’“utopia digitale” di Kevin Kelly, l’ “individualismo in rete” del networking di Manuel Castells; Richard Florida, il teorico della “classe creativa”). Il rovesciamento delle prospettive si realizza a partire dal ’95, quando i grandi monopoli high tech colonizzano l’economica neoliberista e si manifesta crudamente con il crollo della finanza e quindi dell’economia mondiale agli inizi della grande crisi. Il salto tecnologico del web 2.0 rivela ulteriormente la natura fagocitatrice del mercato sui “contenuti autoprodotti” – nient’altro che uno sfruttamento delle informazioni fornite gratuitamente dall’utenza – e l’utilizzo da parte dei governi dei dati privati a fini di controllo sociale (come nei casi Assange e Snowden).
Si tratta di una storia che va conosciuta, approfondita e insegnata a scuola, non già in chiave nichilista e rinunciataria rispetto ad un contesto da cui non è possibile astrarre, bensì per creare consapevolezza e fornire strumenti per una piena cittadinanza nel mondo digitale che tutti abitiamo.
L’ “euristica positiva”: insegnare storia al tempo della rivoluzione digitale
La rivoluzione digitale ha investito anche la ricerca storica e la sua divulgazione, al punto che oggi ci troviamo di fronte ad un digital turn, tanto profondo quanto quello di fine Ottocento, e non privo, ora come allora, di aspetti problematici, costituiti oggi dalla criticità dei contenuti di rete: ad esempio, la possibile perdita di autenticità e la volatilità dei documenti, la destrutturazione dell’autorialità nelle metafonti come Google o nelle informazioni costruite per condivisione come in Wikipedia.
La proposta avanzata da Noiret è quella della public history, già sperimentata da un trentennio negli USA e più di recente nei paesi anglosassoni. Si tratta di integrare il sapere storico tout court e la web history, al fine di dominare il cambiamento in atto. La public history si presenta come una transdisciplina che deriva il proprio statuto epistemologico dalla storia professionale, sottopone a controllo scientifico gli strumenti della ricerca in Internet, le fonti native digitali e quelle dei vastissimi repertori archivistici digitalizzati sotto il controllo dei professionisti della disciplina, oltre che la storiografica multimediale.
In una prospettiva autonoma rispetto all’“uso pubblico della storia”, la public history persegue l’obiettivo di fare i conti con la pervasività ma anche l’estrema equivocità dei rimandi alla storia presenti nella rete, di valorizzare e indirizzare la comunicazione degli studi storici presso pubblici scelti, come può essere il corpo docente.
Luisa Cigognetti è intervenuta sul tema esponendo i risultati del progetto europeo “Media e cultura comunitaria”, in corso dal 2006 e che coinvolge quattordici università di altrettanti Paesi dell’UE. Se, da una parte, la studiosa ha rilevato le arretratezze e i limiti degli archivi digitali italiani, dall’altra Serge Noiret ha ricordato ottime esperienze pilota come The Valley of the shadow – esempio di sito partecipativo dove la ricchezza di fonti, storiografia, mappe, documentazione multimediale e ipertestuale è continuamente implementata dai contributi degli utenti vagliati scientificamente – e come Ithaca, che si premura di documentare lo stato della scienza storica in digitale negli USA .
Ma come possono i docenti – oberati da un ingente carico di lavoro quotidiano – affrontare da soli compiti di autoformazione e di mediazione didattica tanto impegnativi come quelli evidenziati e colmare lo scarto generazionale con i loro allievi “nativi digitali”?
Non supportati da un sostegno per la propria formazione – come ha riconosciuto anche Giovanni Biondi del Miur – gli insegnanti rischiano di reagire allo spaesamento, indotto dalla sovrabbondanza informativa della navigazione in rete, in modo conservativo oppure, al contrario, entusiasta e totalmente acritico, cullandosi nell’idea della neutralità degli strumenti tecnologici, dell’autoinsegnabilità dei contenuti di rete, cimentandosi nel patchwork del cosiddetto book in progress (Brusa).
La proposta di un “programma di ricerca” degli Istituti storici della Rete INSMLI, che si caratterizzano per competenze ed esperienze didattico-disciplinari maturate da decenni su tutto il territorio nazionale, si colloca nell’ottica di dare una risposta a tali esigenze.
Il compito di attraversare la “nuova frontiera” della didattica della storia al tempo di Internet (Brusa e Mattozzi), che modifica profondamente tanto i materiali di studio quanto la storia da studiare, deve e può diventare uno degli obiettivi fondamentali del nostro lavoro per le scuole, lavoro da sempre strutturato sotto forma di quella “didattica laboratoriale” che deriva il proprio orientamento dalla stessa pedagogia costruttivista e partecipativa che dovrebbe ispirare l’uso del digitale per l’apprendimento storico (Ferri, Biondi).
In particolare, gli Istituti possono svolgere l’importante compito di traduzione dei contenuti storici presenti nel web in processi di insegnamento e apprendimento. Secondo Ferri, infatti, se il 50% dei “materiali” di studio scolastici sarà prodotto dagli storici di mestiere, attraverso l’editoria digitale e non, e il 25% sarà invece prodotto direttamente dagli insegnanti sulla base delle esigenze territoriali, il restante 25% verrà acquisito nella rete. Per intervenire con rigore ed efficacia in tal senso, occorre una formazione ad hoc e servono proposte scientificamente validate, evitando agli insegnanti il rischio di ritrarsi davanti all’enorme ricchezza di informazioni disponibili in rete, così come di mitizzare l’autosufficienza formativa della cloud. Servono professionisti che sappiano costruire progetti nel rispetto dello statuto specifico della storia come “regolazione dei saperi, insieme di norme e operazioni da compiere per la specificità della formazione storica” (Brusa) in un ambito educativo, come quello della scuola, che ha prevalenti caratteristiche sociali e nel quale ci si gioca, dentro e fuori dallo spazio metaforico del web, la costruzione dell’identità personale e collettiva e si costruisce il valore della verità (Facci e Brusa).
I ricchissimi interventi di Mattozzi e Di Tonto – esponenti dell’Associazione “Clio ’92”, che da anni affronta il tema e aggiorna con rigore e puntualità le pagine del proprio sito sulla storia digitale – e gli approfondimenti di Vayola, Cocilovo e Limone – che hanno condotto i workshops per i diversi gradi di scuola – hanno fornito esempi concreti delle prospettive, delle possibilità e delle dinamiche didattiche percorribili grazie a un’assunzione competente e culturalmente protagonista del digitale nell’insegnamento e nell’apprendimento del sapere storico, pur in un panorama quanto mai confuso e in un contesto di indicazioni ministeriali insieme perentorie e reticenti (Mattozzi).
In particolare, Giuseppe Di Tonto si è preoccupato di esemplificare l’approccio proposto attraverso un’ “agenda digitale per i docenti”, orientata a creare quelle information literary skills (competenze per la ricerca, selezione e certificazione delle informazioni reperite in rete) indispensabili per la lezione, la comunicazione didattica e la verifica degli apprendimenti con risorse aumentate digitalmente.
Prossimo impegno degli Istituti storici sarà ora quello di sostanziare il “programma di ricerca” con percorsi e progetti modulari da proporre agli insegnanti.
Un lavoro tanto impegnativo quanto necessario, del quale si è già avviata una sperimentazione a Piacenza, iniziando a creare o a consolidare le competenze di base per l’utilizzo didattico del digitale con i cinque laboratori pomeridiani tenuti da Elena Gabbiani, tra marzo e aprile di quest’anno, e che hanno affrontato i seguenti temi: a) Lim Smart Board, software di gestione; lezione informale e lezione strutturata. Comunicazione tra Lim diverse e tra Lim e pacchetti tipo Office; b) Internet e didattica; ottimizzare la ricerca in rete; importare informazioni dal web: copiare/salvare testi e immagini; slideshare e Wikipedia; c) utilizzo di materiali a scopo didattico e copyright; archivi digitali on line; Youtube per la didattica: download e gestione di audio e video per la realizzazione di una lezione multimediale; d) social network e didattica: un binomio possibile?