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Insegnare la Shoah in una dimensione storico-critica. Intervista a Laura Fontana

Insegnare la Shoah in una dimensione storico-critica. Intervista a Laura Fontana
A cura di Maurizio Guerri
Laura Fontana è Responsabile del Progetto Educazione alla Memoria del Comune di Rimini che dirige dagli anni Novanta e dal 2009 Responsabile per l’Italia del Mémorial de la Shoah.

Dopo esserti occupata per oltre vent’anni di insegnare la Shoah in Italia e, in particolare, dell’Attività di Educazione alla Memoria della città di Rimini, da alcuni anni ricopri un ruolo di rilievo nel panorama internazionale. Il Mémorial de la Shoah di Parigi, la più importante istituzione europea in materia di insegnamento della storia del genocidio degli ebrei, ti ha voluta nella sua équipe scientifica, nominandoti nel 2009 Corrispondente per l’Italia e pochi anni dopo anche Consulente e Coordinatrice scientifica di EHRI (European Holocaust Research Infrastructure). Attualmente sei la sola italiana al vertice di questo importante progetto europeo che raggruppa venti tra i più importanti musei, memoriali e centri di ricerca al mondo per la ricerca sulla Shoah.

Oggi, tra i tanti progetti di cui ti occupi, dirigi due seminari permanenti per insegnanti di lingua italiana a Parigi e a Berlino e hai diretto la prima Summer school europea per ricercatori sulla Shoah.

Puoi raccontarci come è avvenuto il tuo percorso professionale e come sei arrivata a lavorare per un’istituzione come il Mémorial de la Shoah?

Mi piace pensare alla vita come ad un percorso non lineare segnato, qualche volta, da incontri che ti cambiano profondamente, costringendoti a ripensare al tuo modo di vedere le cose. Per quanto riguarda il mio lavoro nell’ambito dell’insegnamento della Shoah, gli incontri più importanti sono stati almeno tre. Il primo incontro è avvenuto in un viaggio-studio in Polonia nel 1999, quando conobbi Shlomo Venezia, sopravvissuto italiano dei Sonderkommandos di Auschwitz-Birkenau. Da Shlomo ho imparato tantissimo, non solo sulla storia dello sterminio degli ebrei, ma anche sulla dignità con cui è possibile vivere una tragedia simile e sull’onestà intellettuale che permette all’orrore di incarnarsi in una testimonianza rigorosa, mai patetica o morbosa.

Il secondo incontro è datato luglio 2006, quando ottenni dalla Scuola Internazionale di Studi dell’Olocausto di Yad Vashem una borsa di studio per frequentare un lungo seminario aperto agli insegnanti di lingua francese. Quell’esperienza vissuta all’epoca dello scoppio della guerra tra Israele e Libano, in uno Yad Vashem quasi completamente deserto (per l’annullamento di molti seminari e convegni) e pattugliato a vista dai soldati che vegliavano anche sulla nostra sicurezza, mi ha segnato profondamente dal punto di vista emotivo, facendomi toccare con mano la fragilità dello Stato ebraico e lo stretto legame che intercorre tra identità ebraica, Israele e memoria della Shoah.

Il terzo incontro avvenne nell’estate 2007 quando fui ammessa, unica straniera, a partecipare all’Université d’été, un seminario permanente sul genocidio degli ebrei organizzato ogni anno dal Mémorial de la Shoah di Parigi per i docenti francesi. Pur avendo alle spalle quasi un ventennio di corsi di formazione sull’argomento, non avevo mai frequentato prima un seminario così rigorosamente strutturato su un approccio storico-scientifico che ai brevi interventi privilegiavano vere e proprie conferenze universitarie tenute da storici di fama internazionale. Ero arrivata a Parigi come una partecipante tra i tanti, animata dalla fastidiosa e demoralizzante sensazione di “avere già fatto tutto il possibile” e di trovarmi ad un punto morto del mio percorso. Dopo aver organizzato decine e decine di corsi per studenti e per insegnanti in tutta Italia e all’estero, dopo aver allestito mostre, elaborato dispense e laboratori didattici, promosso convegni, guidato viaggi-studio praticamente in ogni luogo della memoria, dopo aver collaborato con organismi internazionali per progetti europei sulla trasmissione della Shoah, quale altra esperienza mi rimaneva da fare che non fosse una replica di me stessa e non avesse quel sapore di déjà vu? Fu proprio l’incontro con la scuola del Mémorial de la Shoah, con storici come Henry Rousso, Rita Thalmann, Georges Bensoussan, Yves Ternon, Annette Wieviorka, per fare solo qualche nome, che mi permise di rimettere a fuoco la necessità di continuare a studiare per poter continuare ad occuparmi di Shoah non solo con competenza ma anche con rinnovato entusiasmo.

Dato il mio percorso, continuare a studiare significava poter entrare in contatto con un gruppo di esperti che, a differenza di quanto mi era sempre accaduto in Italia, accettavano con disponibilità il dialogo e non si sottraevano allo scambio intellettuale trincerandosi dietro gli steccati delle appartenenze accademiche. Avevo bisogno di riorganizzare le mie conoscenze storiche, di gerarchizzarle, di ricostruirmi una nuova storiografia più ampia e diversificata, acquisendo maggiore sicurezza all’interno di un argomento come la Shoah in perenne sviluppo. Il Mémorial de la Shoah mi ha offerto questa opportunità, certamente facilitata dal mio essere bilingue nonché da un’esperienza di lunga data nell’insegnamento del tema.

Quindi l’incontro col Mémorial de la Shoah ha segnato un punto di svolta nella tua vita professionale?

Indubbiamente. Anche se nessuno è ciò che è senza avere alle spalle un percorso già fatto e un bagaglio già acquisito di conoscenze, competenze, incontri e anche di errori.

D’altronde, quando avvenne il mio incontro col Mémorial de la Shoah, mi occupavo dal 1990 del progetto di Educazione alla Memoria promosso dall’Amministrazione comunale della mia città, Rimini. Si trattava allora di un progetto, avviato nel 1964 per volontà politica del Comune, che si strutturava essenzialmente sulla preparazione di un viaggio annuale e di tipo didattico ai campi di concentramento nazisti e rivolto alle scuole riminesi. Negli anni, grazie alla fiducia dei vari amministratori che si sono succeduti alla guida della città, alla libertà con cui ho potuto lavorare e soprattutto con molto studio e passione, sono riuscita a sviluppare il progetto in un’attività istituzionale permanente, trasformando il viaggio in un ampio programma di iniziative culturali, didattiche e scientifiche, non più rivolte solo alle scuole, ma alla comunità cittadina.

Dagli anni Duemila, anche per mezzo di preziose collaborazioni e sinergie, l’attività di Educazione alla Memoria ha permesso di valorizzare Rimini amplificandone la risonanza delle proprie iniziative a livello nazionale e internazionale. In realtà ero convinta, e lo sono tuttora, che se un’istituzione si poneva come obiettivo politico di trasmettere alla propria gioventù il dovere di memoria della deportazione e dello sterminio, fosse opportuno e prioritario assicurarsi che la comunità di riferimento fosse adeguatamente informata e sensibilizzata in merito alla storia di quei tragici eventi. Intuivo, insomma, che invece di concentrare sforzi e risorse per portare ogni anno più studenti a Mauthausen o ad Auschwitz, redigendo poi relazioni e statistiche virtuose all’insegna del numero dei visitatori coinvolti, la vera necessità andasse individuata nel bisogno di intensificare lo studio della storia da cui poteva scaturire una migliore comprensione dell’argomento e, nella migliore delle ipotesi, anche una sensibilizzazione al valore dei diritti democratici e umani. Ero ambiziosa, sognatrice, animata dall’entusiasmo degli idealisti che sognano di cambiare il mondo unito alla tenacia della studentessa modello che punta in alto. Per parlare di deportazione e di Shoah, volevo portare a Rimini i maggiori esperti, i testimoni e i politici più autorevoli, gli scrittori e gli artisti più interessanti, insomma coloro che avevano qualcosa di importante da dire ai nostri giovani e in grado di rilanciare il dibattito ai livelli più alti e profondi. Quante volte, i primi tempi, mi sentivo dire: “Ma come, un convegno scientifico sull’Olocausto a Rimini? Ma perché? Non ci serve. Non ne abbiamo bisogno. Mica siamo Roma o Milano, non verranno mai i tuoi relatori.”. Oppure, bussavo alle porte dei più importanti musei e centri di studio in Italia alla ricerca di collaborazione e molti mi guardavano perplessi, qualche volta anche sprezzanti, spesso sconcertati nella frustrazione di non riuscire a catalogare la mia affiliazione o identità: “Perché volete organizzare proprio a Rimini un seminario di formazione sulla Shoah per insegnanti? Ma ce l’avete una comunità ebraica? Un museo della deportazione? Un centro di ricerca?”. Oggi sorrido a rievocare questi ricordi, ma è vero che troppo spesso in Italia pare che se non sei né ebrea, né discendente di sopravvissuti e nemmeno titolare di cattedra universitaria non si abbia alcuna legittimità a occuparsi di questo tema. Quel velato snobismo che talvolta mi circonda ai convegni italiani ai quali sono invitata, non lo ritrovo mai in nessun altro paese del mondo dove oggi ho la fortuna di lavorare.

Ma non mi sono mai lasciata abbattere dai pregiudizi e dagli ostacoli, per la mia città volevo il meglio e credo di essere riuscita a trasmettere agli interlocutori fiducia ed entusiasmo, arrivando laddove era impensabile arrivare da soli e fuori dai percorsi già tracciati. D’altronde, si impara solo se si hanno le occasioni giuste e i migliori maestri e dal momento che a Rimini quelle occasioni non le avevamo, le ho cercate e costruite guardando più lontano.

Così, ben prima dell’istituzione del Giorno della Memoria, Rimini aveva dato impulso a collaborazioni qualificate capaci, nel giro di pochi anni, di porre la città al centro di una fitta rete di relazioni con le maggiori istituzioni italiane e straniere. E forse non è un caso che due tra le tre massime istituzioni al mondo che si occupano di Shoah, il Mémorial de la Shoah di Parigi e lo Yad Vashem di Gerusalemme abbiano scelto come propria rappresentante per l’Italia proprio una persona di Rimini.

Torniamo alla tua esperienza a Parigi e al tuo ruolo di Corrispondente per l’Italia. Come nasce questa figura e in che cosa consiste esattamente il suo ruolo?

In primo luogo mi preme precisare che il Corrispondente esterno del Mémorial non è né un suo dipendente né una persona incaricata di esportare una scuola di pensiero o un programma di attività a scatola chiusa, ma lavora come consulente esperto sia dell’argomento che di come quell’argomento viene trasmesso nel proprio paese, in piena libertà intellettuale e in autonomia rispetto alla scelta dei temi da esplorare e dei progetti da realizzare, fino alla scelta del partner locale. Non siamo “un’agenzia formativa volta a colonizzare il territorio altrui”, per riprendere la definizione ingenerosa di una collega della rete degli Istituti storici, anche perché al Mémorial c’è una pluralità di espressione e di interpretazione che rende il nostro lavoro ancora più stimolante grazie ad un continuo dialogo e talvolta ad un serrato confronto su temi cruciali della Shoah, come d’altronde dovrebbe avvenire in ogni ambito in cui si fa storia.

La premessa mi serve per sottolineare che l’incontro tra l’istituzione di riferimento e il suo rappresentante si iscrive innanzitutto in una logica di cooperazione bilaterale basata sulla consapevolezza della Shoah come fenomeno europeo, pertanto da studiare anche avvalendosi del metodo comparativo tra il contesto storico generale e le coordinate geografiche e politiche della persecuzione nei vari paesi e regioni, fino alle modalità di insegnamento di tale fenomeno.
All’avvio della sua attività internazionale, a fine del 2008, sviluppare in primo luogo un lavoro di cooperazione con il nostro paese appariva una scelta prioritaria per il Mémorial che dunque cercò subito un corrispondente italiano (attualmente lavorano per l’istituzione francese anche un corrispondente per la Polonia e uno per gli Stati Uniti). La scelta era dettata sia da evidenti ragioni di prossimità geografica e culturale, sia dalla comparabilità della storia della Shoah (ma più in generale dell’occupazione e del collaborazionismo, del fenomeno della deportazione e delle politiche della memoria) tra Francia e Italia.

Certo, va anche detto che per una buona riuscita di tale politica esterna, occorreva partire da un atteggiamento di reciproco rispetto e soprattutto da un reale interesse per conoscere la storia dell’altro, i suoi bisogni formativi o scientifici e le sue difficoltà nell’insegnare la Shoah.
Altrimenti il corrispondente diventerebbe solo uno strumento di facciata o la declinazione negativa del commesso viaggiatore col catalogo di proposte nella valigetta. Sono convinta che solo se esiste un terreno comune e una comune motivazione a lavorare insieme si può creare il giusto contesto in cui l’uno possa offrire all’altro quel valore aggiunto in termini di relazioni e proposte capaci di arricchire, ampliare e valorizzare la reciproca esperienza e attività.

Sebbene a qualcuno risulti forse difficile crederlo (e questo, ancora una volta, la dice lunga su quanto in Italia si fatichi a credere che il talento e l’onestà del singolo possano contare di più di appartenenze accademiche o comunitarie, o di sostegni politico-istituzionali), è stato il Mémorial a cercarmi e a chiedermi di collaborare, non il contrario e quando ci siamo incontrati questa istituzione risultava quasi del tutto sconosciuta nel nostro paese. Onestamente, non credo che fosse poi così scontato riuscire ad incontrare subito, nel momento del bisogno, una persona già da tempo attiva in ambito italiano e ritenuta competente in quanto conosciuta e stimata da diversi storici sia del Mémorial stesso che da esperti di altri paesi, per giunta perfettamente francofona e con una laurea in lingue straniere. Lo dico non certo per vantarmi, ma per evidenziare che il mio incontro col Mémorial de la Shoah è stato naturale e molto semplice da concretizzare in collaborazione.

Indubbiamente per me la nomina a corrispondente rappresentava il riconoscimento del lavoro svolto nel tempo, ma soprattutto un’occasione di crescita insperata, forse irraggiungibile in Italia, poiché mi offriva la possibilità di cogliere nuove sfide professionali, con la sicurezza di non essere più da sola nel mio percorso di studio e ricerca, ma di poter contare sul sostegno di un’équipe di colleghi qualificati e soprattutto di lavorare con docenti e relatori di tutto il mondo.

Come si svolge esattamente il tuo lavoro di Corrispondente del Mémorial de la Shoah?

Il mio lavoro persegue due obiettivi diversi e paralleli: il primo è quello di promuovere attività in lingua italiana sia in Italia che presso la sede del Mémorial de la Shoah, privilegiando il pubblico adulto dei formatori a partire dagli insegnanti, ma anche i responsabili dei musei e le guide, i dirigenti scolastici, i docenti comandati presso altri istituti. Di queste attività, la formazione storica resta imprescindibile e una priorità per me importante, considerata l’ignoranza di fondo che persiste tenacemente nella maggioranza delle persone che parlano di Auschwitz o che si occupano della trasmissione della Shoah alle giovani generazioni.

Il secondo obiettivo è quello di far conoscere il Mémorial de la Shoah e le sue molteplici attività al pubblico italiano, valorizzando i suoi programmi culturali, traducendo e adattando mostre, laboratori e materiali diversi, ma anche divulgando opportunità che l’istituzione offre a tutti coloro che hanno voglia di approfondire la conoscenza di questo argomento.

L’aspetto indubbiamente più gratificante – per certi versi anche sorprendente – del mio lavoro riguarda la fiducia e la libertà che mi vengono accordate nell’ideare e pianificare le attività in assoluta autonomia. In concreto, questo significa che mi occupo solo di progetti che mi piacciono e che mi interessano veramente, scegliendo temi, relatori, modalità di lavoro e collaborando con storici ed esperti sia francesi che stranieri di cui ho rispetto e stima, senza ricevere imposizioni o sollecitazioni di nessun tipo. Non accetto mai di portare in Italia un’iniziativa o un’attività del Mémorial senza prima averne attentamente valutato non solo utilità e originalità nel panorama nazionale, ma anche la sua compatibilità con la nostra sensibilità, la nostra storia e la nostra esperienza. Perché l’obiettivo non è certo lavorare da soli, importando progetti francesi meramente tradotti in lingua italiana e nemmeno quello di lavorare in senso verticistico dall’alto al basso, cioè schiacciando la capacità progettuale delle piccole istituzioni e realtà locali con la forza di un’istituzione che ha dalla sua il vantaggio di una lunga storia e di mezzi più importanti. Anche quando un ente importante come il Mémorial collabora con una piccola istituzione di provincia, l’atteggiamento è quello del rispetto e della parità, nell’intento di offrire all’altro qualcosa non solo di qualificato scientificamente, ma capace di sopperire ad un reale bisogno.

Del resto, il Mémorial non semina certo il deserto quando avvia collaborazioni con il nostro paese. L’Italia vanta numerosi progetti di qualità sul tema della Shoah e ha già promosso e continua a promuovere iniziative di spessore.
Proprio in virtù del rispetto del ruolo del docente e della sua autonomia didattica, il Mémorial de la Shoah, a differenza di altre istituzioni con vocazione simile, non offre né kit didattici né lezioni-tipo pre-confezionate in Francia ed esportabili ovunque. Non ambisce nemmeno a lavorare all’estero direttamente con gli studenti di quel paese, ma privilegia l’azione sui formatori delle giovani generazioni e della comunità. Una delle finalità dell’attività internazionale, dunque anche italiana, è invece quella di offrire la propria consulenza scientifica nel valorizzare musei, memoriali e luoghi della memoria, nel rafforzare le competenze storiche degli insegnanti e dei formatori e nel realizzare attività culturali e divulgative rivolte a tutti.

Nel maggio 2015 si realizzerà la quinta edizione del seminario Pensare e insegnare la Shoah, Università per insegnanti di lingua italiana, presso il Mémorial de la Shoah. Come è nata l’idea di questo seminario e quali sono le sue caratteristiche distintive?

La mia esperienza mi ha portato a constatare come la formazione storica degli insegnanti attraversi un netto declino e questo per ragioni diverse, ma soprattutto per il declino generale dell’insegnamento della storia come disciplina scolastica, su cui ci sarebbe tanto da dire. Sempre più alligna la convinzione che vi siano altre discipline, altri metodi, altri strumenti più efficaci per far capire ai giovani cosa è accaduto. Basti vedere quanti insegnanti, una volta deciso di affrontare in classe il tema della Shoah, prediligano approcci alternativi alla tradizionale lezione di storia, come il teatro, il cinema, la scrittura creativa, l’arte; tutti metodi certamente utili ed efficaci per coinvolgere gli studenti in un lavoro di rielaborazione, ma che dovrebbero costituire una tappa all’interno di un percorso di conoscenza più solido e strutturato sia cronologicamente che concettualmente.

Sebbene in diverse regioni italiane vengano periodicamente promossi appuntamenti di aggiornamento storico per gli insegnanti, spesso di qualità e realizzati grazie all’impegno profuso da anni dalla rete degli Istituti storici e, più di recente, anche da alcune istituzioni locali illuminate e particolarmente attive, il quadro generale è molto disomogeneo e non particolarmente incoraggiante. Le differenze da regione a regione sono enormi, tanto che a sud di Roma e nelle isole calano drasticamente le opportunità formative di questo tipo. Inoltre, fatta eccezione per il Master di Didattica della Shoah, non esiste in Italia un seminario permanente aperto a tutti i docenti italiani e a coloro che hanno tra i propri compiti l’insegnamento del genocidio degli ebrei.

Con un programma di alto livello scientifico e pensato proprio per far conoscere agli insegnanti anche qualcosa delle più recenti ricerche pubblicate in questi ultimi anni in Europa, cioè aiutandoli a orizzontarsi all’interno di una bibliografia sulla Shoah gigantesca. Se osserviamo bene il panorama dei seminari sulla Shoah in Italia, io vedo essenzialmente una pluralità di corsi, spesso brevi (una o massimo due giornate), centrati non sulla storia della Shoah come fenomeno storico e politico, ma sulla preparazione al viaggio collettivo ad Auschwitz, iniziativa che oggi gode di un consenso assoluto e che tende a sostituirsi come pars pro toto alla lezione di storia del genocidio. In altre parole, un capitolo (Auschwitz) di questa storia complessa che è stata la Shoah e una modalità di trasmissione sicuramente più coinvolgente di una lezione tradizionale in classe (il viaggio collettivo al luogo) si sono sostituiti in molti casi all’insegnamento classico che invece, come sappiamo, deve includere un contesto ben più ampio e coprire pagine di storia della persecuzione che non possono sintetizzarsi nel punto finale della catastrofe rappresentato dai crematori di Birkenau.

Ho intitolato il seminario “Pensare e insegnare la Shoah” perché credo che la sfida intellettuale sia innanzitutto riuscire a pensare l’inimmaginabile, la deriva più barbara del disumano attraverso la declinazione della politica in bioetica razziale con l’invenzione di un luogo come Treblinka o Birkenau che disintegra l’essere umano come un bacillo e lo fa letteralmente scomparire dalla faccia della terra come una metastasi da amputare per risanare il corpo. È un corso intensivo che sceglie alcuni argomenti chiave come il nazismo, l’antisemitismo, la politica di deportazione e di genocidio, le politiche della memoria della Shoah e li declina attraverso conferenze affidate ad alcuni fra i migliori specialisti francesi o europei, con un’attenzione doverosa per la pagina italiana della Shoah ma cercando di non replicare quanto già viene proposto in altri contesti di formazione.

Volutamente si è scelto di limitare lo spazio dedicato alla didattica e al cosiddetto “laboratorio in classe”, sia per evidenziare il punto di forza del Mémorial de la Shoah rappresentato proprio dalla qualità della formazione scientifica, sia per riequilibrare le esigenze e l’ordine di importanza delle cose. Per fare una buona lezione di storia, che sia su Auschwitz o su altro, occorre innanzitutto sapere e saper narrare, tracciare scenari, ricostruire e collegare gli eventi e fornire un senso ai nostri destinatari, possibilmente usando le fonti e introducendo gli allievi al metodo della ricerca e della formulazione delle ipotesi interpretative. Poi come tutto questo si tramandi, se frontalmente o in maniera interattiva, con il linguaggio tradizionale della disciplina umanistica o con l’ausilio delle arti sceniche e figurative, è a mio avviso del tutto secondario. Ho troppo rispetto per il ruolo dell’insegnante e per la sua capacità critica di costruirsi da sé una propria didattica di classe per sollecitarlo a venire a Parigi a imparare una metodologia preconfezionata.

Ovviamente al seminario si discute anche molto di come insegnare la Shoah e di tutte le questioni delicate che sono connesse a questo tema, rompendo tuttavia un assioma che pare condiviso dalla maggior parte. Non è vero che per insegnare bene la storia della Shoah servano al docente delle abilità particolari o diverse da quelle che normalmente servono per organizzare un buon insegnamento di storia e che si riassumono banalmente in: conoscenza dei fatti, rigore e precisione, uso delle fonti, capacità di sollevare interrogativi attraverso la narrazione e l’interpretazione.
Attualmente il seminario non è sostenuto purtroppo da nessuna istituzione italiana, ma gode del patrocinio del MIUR e col Ministero dell’Istruzione stiamo avviando un percorso di collaborazione che dovrebbe concretizzarsi in un’azione di partenariato più visibile. La difficoltà per noi non è tanto quella di reperire fondi per finanziare un corso di questo tipo, quanto quella di riuscire ad arrivare a informare di questa opportunità tutti i docenti potenzialmente interessati, soprattutto nelle regioni del centro-sud dove la rete degli Istituti storici è meno radicata e dove le attività di formazione storica sulla Shoah si fanno purtroppo molto rare e difficoltose.

Mi scrivono insegnanti da piccole città della Sicilia o della Campania che mi sembrano dei soldatini coraggiosi e idealisti ma costretti a lavorare in totale solitudine e con problemi di ogni tipo anche solo per riuscire a organizzare iniziative piccole. A loro dovrebbe prioritariamente essere offerta la possibilità di accedere a formazioni di livello, possibilmente anche con un sostegno economico che abbassi il costo di viaggio e di soggiorno all’estero, come avviene per la maggior parte degli altri paesi con cui il Mémorial ha avviato rapporti di collaborazione. Purtroppo in Italia un insegnante motivato è quasi sempre costretto ad auto-finanziarsi e ad assumersi responsabilità e sacrifici personale per iscriversi ai corsi di formazione, tralasciando le difficoltà oggettive delle autorizzazioni all’assenza a scuola.

Si parla in effetti molto di Shoah, sia in Italia che in tutto il mondo, ma nel nostro paese in particolare le attività di commemorazione e di trasmissione della memoria sono molto intense, talune anche di notevole impatto come quelle dei Treni della Memoria che coinvolgono ogni anno migliaia di studenti e centinaia di insegnanti. Secondo il tuo giudizio queste iniziative sono in grado di svolgere un’effettiva opera di formazione alla conoscenza della Shoah?

Sul fenomeno italiano dei Treni della Memoria ho già molto scritto e vorrei rinviare la questione ad un mio saggio che uscirà a marzo per l’editore Mimesis in un volume curato da Bruno Maida e Elena Bisacca.
Per il resto, che dire? Nonostante l’unanimità di un discorso pubblico che invoca il dovere di memoria affinché “Auschwitz non si ripeta mai più!” e il moltiplicarsi delle iniziative più diverse sulla Shoah attorno al 27 gennaio, la mia sensazione è che in realtà si stia chiudendo un’epoca e che forse non ce ne rendiamo bene conto. Credo, cioè, che la percezione dell’opinione pubblica nei confronti di quell’immane catastrofe che è stata la Shoah, definita come lo spartiacque della storia del Novecento e rottura antropologica della dimensione del vivente e dell’umano, stia mutando in maniera inversamente proporzionale alla sua onnipresenza nello spazio pubblico, con la conseguenza che l’interesse generale per approfondire la storia di questo evento sta nettamente diminuendo fino a rasentare l’indifferenza e il rigetto.

Oggi siamo immersi in una cacofonia e in un frastuono mediatico tali da aver svuotato la Shoah del suo contenuto storico e politico, trasformandola in fenomeno culturale e in rito sociale in cui la memoria della Shoah è addirittura assurta a moda e per rendersene conto basterebbe dare un’occhiata al mercato editoriale di ampia tiratura, dai titoli spesso imbarazzanti e osceni tanto il nome di Auschwitz appare banalizzato in abbinamento a narrazioni o a memorie virtuali in cui il vero non è facilmente distinguibile dal falso. In un’epoca contrassegnata dall’ossessione per il visibile e l’immediato, viviamo una mobilitazione generale volta a moltiplicare viaggi collettivi che portino più giovani possibili a visitare le rovine dei crematori di Birkenau, nella convinzione comune che vedere il luogo della messa a morte degli ebrei conti più che qualunque lezione di storia. Eppure, bisognerebbe interrogarsi davvero sulla presunta correlazione, da molti interpretata come dogma assoluto, tra guardare e vedere, ma soprattutto tra vedere e conoscere e ancora tra conoscere e comprendere. Perché abbiamo la sensazione che se non diamo qualcosa da vedere ai nostri studenti non sia possibile trasmettere un buon insegnamento storico e politico? Perché formiamo comitive per visitare Auschwitz motivati da un acceso idealismo per poi sentirci da un lato confortati di avere fatto il massimo per una buona lezione sulla Shoah, ma dall’altro delusi e anche imbarazzati per una visione di quel luogo che, in fondo, come scrivono anche gli stessi studenti quando ne hanno il coraggio, non è poi così terribile come si era immaginato? Culliamo una contraddizione rassicurante eppure paradossale: da un lato siamo convinti che sia nostro dovere “far vedere l’immagine dell’orrore commesso affinché ci apra la mente alla conoscenza e ci sia di monito, insegnandoci a saper reagire al male”, dall’altro non sappiamo che farcene delle immagini attuali dei tanti crimini di massa che in Siria e in diverse parti del mondo vengono perpetrati in un’indifferenza pressoché totale. La Shoah, contrariamente a quello che molti continuano a credere, non fu un genocidio perpetrato di nascosto e in luoghi remoti o spopolati. Anche nel gigantesco massacro degli ebrei compiuto da una delle Einsatzgruppen a fine settembre 1941 nei pressi del burrone di Babi Yar, nell’attuale Ucraina, le vittime furono catturate di casa in casa e condotte a morire sotto gli occhi dei loro vicini di casa non ebrei. In ogni luogo dove avvenne la Shoah ci furono testimoni delle uccisioni, spesso civili, i quali non intervennero per ragioni diverse e forse anche comprensibili, ma certamente nella maggioranza dei casi non perché non sapessero riconoscere che si stava compiendo una violenza ai danni di innocenti. Credere, dunque, che vedere in faccia il male serva per capire e soprattutto per reagire è indice di pura ingenuità.

Ma allora tutto l’impegno e il fervore nel promuovere iniziative attorno al Giorno della Memoria non servono a seminare conoscenza e a stimolare una maggiore coscienza critica?

Certo che servono in generale, ma solo nella misura in cui siamo davvero d’accordo e convinti che insegnare la storia sia imprescindibile per formare sia la conoscenza del nostro passato che la nostra coscienza politica. Per rimanere alla Shoah, insegnare la storia non mi pare possa essere sinonimo di preparazione, seppur accurata, di un viaggio ad Auschwitz o della commemorazione del Giorno della Memoria.

D’altro canto, è innegabile constatare che tutto il fervore e l’impegno comune, che pur indubbiamente hanno contributo a diffondere l’interesse per questi fatti, non hanno purtroppo corrisposto ad un aumento di conoscenza storica sul genocidio rispetto a quella di venti o a trent’anni fa e non hanno potuto evitare il rischio della ridondanza (che contrasta la comprensione) e la banalizzazione (che annega la specificità di Auschwitz nel mare magnum delle tragedie universali). Ci troviamo immersi, forse senza rendercene conto appieno, in una Shoah divenuta fenomeno culturale di massa1, insistente e ridondante, potentemente amplificato grazie a nuovi mezzi comunicativi, che producono una diffusione superficiale, eppure capillare, di forme di conoscenza sintetiche e semplificate. Immettendo continuamente in circolo sempre le stesse immagini e i medesimi schemi di pensiero, si rafforza nella coscienza comune non la consapevolezza di come si sia svolta e che cosa abbia significato la Shoah – se non per sommi capi e per macro-sintesi – ma l’idea astratta eppure potente di cosa simboleggi Auschwitz in termini morali sia in negativo (il punto più basso della barbarie e disumanizzazione) sia per contrasto in positivo (la capacità di stimolare in noi, per reazione alla rievocazione del male, la voglia di essere persone migliori, pronte a battersi per ideali e valori moralmente buoni). Insomma, una catena in cui ogni anello rinvia al successivo quasi come un automatismo: l’immagine dell’orrore e della sofferenza delle vittime, il peso morale della testimonianza e del dovere di memoria, il monito per il futuro, il predicozzo morale sulla tolleranza e sui diritti umani da rispettare. Così tutti hanno la convinzione di sapere già tutto – e personalmente lo constato nelle formazioni di cui mi occupo, siano esse rivolte agli studenti che, in maggiore misura, agli insegnanti – proprio in virtù di questi due elementi fondamentali della ridondanza, che sconfina nell’ossessione e della semplificazione che rasenta la banalizzazione (Shoah-Auschwitz-filo spinato- forni crematori – Primo Levi-Anne Frank-Schindler’s List e La vita è bella). La presunzione di sapere è dannosa, non solo perché annebbia lo spirito critico, ma perché è madre di derive inquietanti di cui la società civile e le istituzioni dovrebbero prendere maggiormente atto: l’assuefazione, la noia, il rigetto, l’indifferenza, tutti comportamenti tenuti spesso a freno da agenti inibitori come l’educazione, il rispetto della ritualità pubblica e della gerarchia parentale e scolastica – che vede l’intero Paese e metà del mondo commuoversi il 27 gennaio di ogni anno – il rispetto per il conformismo sociale e tutto ciò che potremmo mettere sotto il nome di “politically correct”.

Oltre a tutto questo può esserci e già c’è – anche se in minore misura almeno in Italia – una forma di rigetto e di ribellione sorda soprattutto nella fascia dei più giovani e in alcuni studenti di origine extraeuropea, nei confronti di una memoria della Shoah sentita come invasiva, obbligatoria, imposta per legge e dall’alto come dovere indiscutibile, soffocante rispetto ad altre memorie ugualmente importanti. Ha ragione la storica Régine Robin a parlare di una memoria che si sta drasticamente saturando in forme sostitutive della storia e della religione.2

Quindi secondo te, a distanza di Settant’anni dall’apertura dei cancelli di Auschwitz e dalla fine della guerra, la memoria della Shoah non è diventata realmente patrimonio collettivo e condiviso dalla società e, in particolare, dal mondo della scuola e dai docenti?

A me sembra che paradossalmente la centralità della memoria della Shoah e l’ossessione commemorativa che contrassegna la nostra epoca non siano che un duplice tentativo di evacuare il senso di colpa per non aver saputo contrastare il male all’epoca dei fatti e di bilanciare proprio l’ignoranza di fondo della storia di questo fenomeno, su cui permangono visioni distorte, letture banalizzanti e ricostruzioni scorrette che si riflettono, per forza di cose, anche sulla percezione che i nostri giovani ne traggono attraverso i modelli con cui pretendiamo di trasmettere loro il dovere di memoria di cui tanto si parla. A un insegnamento storico-politico che rievochi puntualmente il contesto e i fatti, passaggio imprescindibile per qualunque riflessione che sfoci anche sull’interrogazione del presente, molti insegnanti preferiscono presentare l’argomento Auschwitz come un esempio di negazione di diritti dell’uomo per sensibilizzare gli studenti ai valori di democrazia, pace, libertà e tolleranza.

Si tratta di una trasformazione che merita una riflessione approfondita, soprattutto perché la lezione di Auschwitz rischia di declinarsi da lezione di storia e insegnamento politico a educazione morale e religione civile, anche in ragione di un discorso pubblico sempre più universale e universalizzante che rischia di farci perdere di vista di che cosa stiamo parlando esattamente quando nominiamo la Shoah. Questo prevalere della dimensione etica (il dovere di memoria) rispetto a quella conoscitiva e storico-critica lo si avverte in modo esplicito dai programmi istituzionali degli organismi europei (Unesco, Onu, Consiglio d’Europa, Commissione europea) ma anche da quelli degli enti regionali e nazionali coinvolti nella promozione e nel sostegno di attività a favore della memoria. Anche qui, basta scorrere i titoli di molti seminari o convegni e interrogarsi sulla diffusione nella letteratura anglosassone di un’espressione quanto meno singolare come Holocaust education (potremmo tradurla come “educare attraverso l’Olocausto”) che abbinando due termini dal significato opposto enfatizza la connotazione simbolica e la lettura morale del crimine.

Per il ruolo che ricopri, e per il luogo in cui lavori, hai la possibilità di comparare le diverse impostazioni alla questione della Shoah tra i docenti provenienti da diverse nazioni, italiani e francesi soprattutto. Noti delle grandi differenze di approccio alla stessa questione?

Innanzitutto va detto che mentre la centralità assoluta della memoria della Shoah, così come la sua onnipresenza nel discorso pubblico, è considerato un fatto assodato in Occidente, la percezione è molto diversa in Europa orientale (pur con sensibili differenze da paese a paese), dove la memoria pubblica è uno spazio mobile e conflittuale, abitato dai ricordi dolorosi di una doppia occupazione nazista e sovietica che rende necessario e inevitabile comparare e, talvolta, ridimensionare, il genocidio degli ebrei sia con i crimini perpetrati dall’altro totalitarismo che con le violenze subite dalle popolazioni locali per opera dell’esercito tedesco. Così, schematizzando, possiamo dire che se l’Occidente continua in buona parte ad ignorare o a disinteressarsi della storia locale dei paesi orientali, spesso imponendo come dogma l’idea della centralità della Shoah e la necessità di una memoria collettiva che si vorrebbe condivisa e univoca, a Oriente – a eccezione della Polonia dove nell’ultimo ventennio si assiste ad uno straordinario rinnovamento storiografico – persiste un’ignoranza di fondo sulla storia del genocidio ebraico unita all’occultamento, seppur in tono minore rispetto a qualche anno fa, della specificità della Shoah. Se fino agli anni Novanta tale occultamento andava letto nell’ottica della visione sovietica della guerra contro il nazismo, in cui non aveva senso distinguere le vittime, oggi appare alimentato piuttosto da quella concorrenza delle vittime teorizzata da Jean-Michel Chaumont3 che esige da parte della comunità internazionale uguale attenzione per le sofferenze delle popolazioni locali che furono vittime di prevaricazioni e violenze. Questo implica tutta una revisione anche del vocabolario di base con cui si lavora ai seminari coi docenti dell’est, pena l’incomprensione e l’insuccesso delle formazioni. Il termine “collaborazionismo” suscita non polemica ma netto rifiuto da parte, per esempio, dei docenti bielorussi o lituani, poiché suona come una condanna senza appello che impedisce la comprensione anche dell’altra storia del loro paese.

Fino a quando l’Europa occidentale non accetterà di prendere in conto anche la storia della brutale politica coloniale tedesca e dell’occupazione sovietica nei paesi orientali del continente, coi suoi crimini e le sue vittime, il dialogo est-ovest sulla centralità della memoria della Shoah nel racconto storico del Novecento resterà difficile e parlare di memoria collettiva e condivisa suonerà come incomprensibile. Anche i seminari realizzati con insegnanti ed educatori provenienti da paesi nordici come la Finlandia, o baltici come la Lituania, hanno dimostrato che si è ancora ben lontani da una condivisione piena del significato storico-politico che si attribuisce alla Shoah, proprio perché tale evento — pur considerato da tutti come una tragedia senza precedenti – viene inserito in una lettura della storia diversa. Una lettura in cui, talvolta, l’accento è posto più sul nazismo come fenomeno totalitario e sulla sua politica di oppressione e persecuzione nei confronti di diverse categorie di persone, che sulle modalità e sulla cronologia delle deportazioni e sulla specificità del genocidio degli ebrei.

Quali sono a tuo avviso i punti di forza e di debolezza dei docenti italiani e quali invece quelli dei colleghi stranieri?
Per tentare di tracciare un profilo, almeno sommario, degli insegnanti italiani che frequentano i seminari di aggiornamento sulla Shoah, bisogna innanzitutto distinguere quelli che frequentano un corso organizzato nella propria città o regione, promosso da istituzioni locali, da quelli che invece si spostano e frequentano, quasi sempre a proprie spese, corsi organizzati altrove, in Italia o all’estero, su iniziativa di istituzioni straniere. Questo secondo gruppo è sicuramente quello che conosco meglio e che mi pare interessante in una comparazione con gli insegnanti provenienti da altri paesi europei per almeno due aspetti. Il primo tratto distintivo, è che sono sempre anagraficamente ultra quarantenni o cinquantenni (non di rado anche insegnanti in pensione che continuano a formarsi e ad essere attivi nelle scuole o presso associazioni), mentre i docenti francesi, bulgari, tedeschi, finlandesi o polacchi con cui ho lavorato hanno meno di trent’anni. Questo comporta il fatto che mentre il pubblico italiano è in maggioranza composto da docenti che si auto-definiscono come esperti di didattica, paiono sicuri di sé, vantano una carriera scolastica mediamente lunga, professano un sano idealismo e una costante militanza nella scuola e possiedono in media buone conoscenze storiche di base, il pubblico europeo è molto più eterogeneo, include anche giovani docenti alle prime armi, spesso con scarsa o quasi nulla conoscenza della storia della Shoah, ma animati da una manifesta curiosità e voglia di sapere.

La differenza appare evidente a tutti i nostri relatori al momento dei dibattiti. Se il collega italiano, di norma in possesso di una formazione filosofico-letteraria (e non storico-geografica come quella dei colleghi ad esempio francesi) che lo sollecita a infarcire la domanda di riferimenti e collegamenti anche colti (ma talvolta fuori tema), cerca forse più conferma a quello che già ritiene di sapere o di aver capito della Shoah, che una vera e propria richiesta di spiegazione o informazione, il giovane collega europeo cerca innanzitutto di capire di che cosa gli stai parlando e non si vergogna, per esempio, a chiedere anche solo di ripetere un concetto o di scrivere alla lavagna il nome di una persona o di un luogo citato nella lezione.

Il secondo aspetto, è che sono quasi sempre gli stessi docenti a frequentare i seminari di un certo tipo (intensivi e di preferenza all’estero), alimentando così un circuito chiuso di formatori che continuano, in maniera encomiabile, ad aggiornare le proprie conoscenze storiche e metodologiche, ma talvolta rasentando la bulimia e la sindrome da eterno partecipante di un corso (alcuni curricula di candidati ai nostri seminari mostrano un’impressionante tenacia nel seguire in maniera quasi onnivora tutti i seminari sulla Shoah da Gerusalemme a Parigi).

Il fatto che la formazione degli insegnanti non sia sufficientemente incentivata e sostenuta finanziariamente produce un duplice sbilanciamento tra coloro che possono permettersi di frequentare un corso fuori casa e coloro che non ne hanno le possibilità economiche, nonché tra regioni del Nord e quelle del Sud dove fatica anche ad arrivare l’informazione sulle opportunità di corsi. La priorità sarebbe quindi riuscire a coinvolgere maggiormente tutti quei docenti italiani che insegnano in zone meno centrali, talvolta disagiate e in condizioni scolastiche molto difficili. Da ultimo, andrebbero inseriti con maggiore efficacia nei programmi formativi anche i docenti italiani che insegnano all’estero e che spesso lamentano una situazione di isolamento che li penalizza.

Quello che mi pare, tuttavia, preoccupante e meritevole di dibattito è che si sta aprendo un divario sempre più ampio tra una storiografia internazionale della Shoah in perenne sviluppo, in cui interpretazioni diverse arricchiscono e complicano al contempo il quadro d’insieme (e di cui in Italia arriva purtroppo pochissimo per scarsità di traduzioni; basterebbe citare tutta la più recente ricerca in lingua tedesca) e un insegnamento scolastico ancora ancorato, in buona parte, ad una narrazione semplificata e di impianto logico-consequenziale che pare ignorare – almeno a scorrere le pagine dei principali libri di testo – contraddizioni e complessità della politica nazista, zone grigie, nonché uso critico delle fonti primarie.

Mi sembra che un esempio della difficoltà (o della impossibilità?) di arrivare a una memoria condivisa della Shoah sia quello della chiusura del padiglione italiano ad Auschwitz. L’allestimento realizzato nel 1975 in collaborazione da Primo Levi, dallo Studio BBPR, Luigi Nono, Pupino Samonà verrà definitivamente smantellato per essere ricostruito – forse – al Museo Pecci di Prato. Tra storici, ex-deportati, storici dell’arte, comunità ebraiche, Istituti storici della Resistenza, l’Anpi, l’Aned si è aperto un dibattito all’interno del quale ci sono difensori dell’opera e sostenitori dell’inadeguatezza di quell’allestimento. Di che cosa è espressione, a tuo avviso, questa contrapposizione così accesa?

Sulla questione del memoriale italiano al Museo di Auschwitz molti hanno già scritto, dall’Accademia di Brera all’Aned agli Istituti storici; penso in particolare anche agli scritti di Elisabetta Ruffini4, Sergio Luzzatto5, Giovanni De Luna6 o Elena Pirazzoli7, per limitarmi a qualche esempio. Quello che mi indigna non è tanto l’ignoranza e l’indecenza con cui ne ha parlato buona parte della stampa nazionale8 ed alcuni esponenti della comunità accademica, quanto la mancanza di rispetto e di riconoscenza per un’opera che appartiene alla nostra memoria nazionale e che fu elaborata dai testimoni, Primo Levi in testa, nel tentativo di trasmettere ai posteri qualcosa dell’indicibile avvalendosi del linguaggio dell’arte, forse più efficace nel comunicare l’orrore di Auschwitz. Quando la mostra venne inaugurata nel 1980, l’allestimento aveva a mio avviso qualcosa di potentemente innovativo così come lo avrebbe tuttora se venissero posti in essere alcuni interventi ristrutturativi e di valorizzazione. Perché Levi, Belgiojoso, Samonà e gli altri scelsero di trovare un orizzonte di senso all’inenarrabile dello sterminio privilegiando la pluralità delle voci narrative e dei linguaggi espressivi come canale per instaurare un dialogo con le generazioni e lo fecero proprio partendo dalla dolorosa consapevolezza dell’impossibilità di una narrazione lineare ed esaustiva della Shoah. Impossibilità di cui i sopravvissuti sono l’incarnazione estrema, essendo tornati dal mondo dei morti nella comunità dei vivi e lacerati tra il bisogno di raccontare e denunciare il male patito e la vergogna, il pudore, il senso di inadeguatezza che inibiscono il racconto a darsi nella sua interezza e trasparenza.

Non mi piace che di una cosa così importante, frutto della collaborazione tra alcuni protagonisti della cultura del Novecento, se ne parli spesso con un linguaggio da bar del tutto inappropriato, evocando un allestimento che si ritiene obsoleto e inutile, poiché la sua forma impedirebbe ai visitatori di comprendere ciò che in quel luogo è accaduto. Anzi peggio, di un memoriale indesiderato e di cui disfarsene senza rimpianto, di cui quasi ci si vergogna rispetto alle mostre multimediali e di taglio più narrativo-didattico degli altri paesi. Sbarazzarsi del memoriale di Belgioioso, Levi e degli altri sopravvissuti del dopoguerra raccolti attorno all’ANED, a cui peraltro appartiene l’opera, assume però il significato di zittire i testimoni e di relegarli negli archivi, per far spazio a sistemi e linguaggi ritenuti più moderni, leggibili e, perché no?, accattivanti per il visitatore di Auschwitz. Un luogo indecifrabile oggi senza un accurato studio preliminare e che è meta di un “turismo concentrazionario mondiale ” in cui l’Italia figura al 4^ posto.9

La categoria politica del rispetto che dobbiamo ai testimoni, ma che spesso manca nel nostro approccio sempre più disinvolto e sicuro di sé alla storia di questa tragedia immane che è stata la Shoah, viene interpellata proprio da questa questione del memoriale italiano del blocco 21, abbandonato a se stesso e chiuso oramai da anni, fonte di imbarazzo per il nostro paese che si dimostra incapace di gestire la propria memoria pubblica.

D’altro canto, non riesco a rigettare completamente le ragioni della direzione del Museo e del comitato internazionale di Auschwitz che hanno chiesto ai paesi titolari di un padiglione espositivo di adeguarsi all’esigenza di una narrazione più fruibile dalle giovani generazioni e da visitatori spesso con scarsa conoscenza sulla Shoah. Lo dico da storica e da insegnante formatrice che in quel luogo ci va da molti anni, da sola, con gli studenti e con gli insegnanti. Auschwitz-Birkenau è un luogo che richiede al visitatore uno sforzo immane di comprensione e di decostruzione ed è vero che nuovi allestimenti consentono una più immediata lettura cronologica e fattuale. Quell’immediatezza che il memoriale italiano sostituisce con la dimensione simbolica che fa appello alla nostra capacità di immaginazione e in questo senso ha ragione il filosofo Georges Didi-Huberman quando argomenta che la sfida che la Shoah ci pone può essere colta mediante la nostra capacità di provare a immaginare l’inferno di Auschwitz.10

Ma non mi piace che si tratti di una coercizione pena l’espulsione dal padiglione, né che si imponga un’unica rappresentabilità possibile in un luogo che si scelse di aprire alle diverse rielaborazioni delle memorie nazionali dei paesi coinvolti nella tragedia. Quello che manca è la volontà di dialogare su temi cruciali e urgenti come per esempio: la capacità o incapacità della narrazione storica tradizionale di instaurare un canale comunicativo e di coinvolgere anche emotivamente il destinatario, cioè scuotendolo, mettendolo in crisi e non solo informandolo puntualmente, o ancora il ruolo sempre più importante svolto dai media nella rielaborazione e nella trasmissione della storia tanto che oggi la massa sa solo se vede qualcosa, e infine (ma non solo) la necessità di integrare i punti di vista e i linguaggi, letteratura e storia, storia e arte, ecc. per tentare di arrivare ad un compromesso accettabile tra una mimesi che ci risucchierebbe nell’abisso dell’orrore (come rappresentare la morte nelle camere a gas, gli ultimi pensieri e le disperate reazioni delle vittime nell’intuire la fine?) e una mediazione in cui vero e verosimile non siano negati.

In sostanza, dobbiamo chiederci perché Auschwitz – e non solo il memoriale italiano – sia oggi diventato un simbolo così potentemente evocativo al contempo della Shoah e del male assoluto, della barbarie delle camere a gas e della necessità di redimerci col suo monito del “mai più!”.

Così, centralizzando ossessivamente i modelli di trasmissione della memoria della Shoah e diventando destinazione irrinunciabile per la massa che interpreta la visione del luogo della messa a morte degli ebrei come fortemente evocativo e istruttivo sotto il profilo storico ma soprattutto morale, ecco che Auschwitz si trova a dover conciliare il paradosso di mantenere un’organizzazione di visita in grado di assorbire l’impatto di 1,5 milioni di visitatori all’anno – di cui il 90% resta sul sito solo poche ore – trasmettendo loro qualcosa del tutto e di rinviare mediante l’esposizione di ciò che resta e la “scenografia” attuale del luogo (anche attraverso i padiglioni nazionali) ad una storia complessa, difficile, che necessiterebbe di un tempo di studio e di riflessione incompatibile con gli attuali modelli di trasmissione.

La colpa però è nostra e non illudiamoci che non sia possibile scegliere. Forse il silenzio di letture e riflessioni individuali e l’umiltà dello studio sarebbero armi più efficaci per provare a costruire una conoscenza e una comprensione della Shoah più solida, sottraendo il nome di Auschwitz a quella cacofonia e a quel moralismo che non fanno che annebbiarci la mente, cullandoci nell’illusione di aver riscattato l’indifferenza altrui con l’attivismo e militanza dei nostri tanti, troppi, viaggi della memoria.

Note:

1 Si veda per un interessante approfondimento riferito all’Italia il recente studio di Robert Gordon, Scolpitelo nei cuori. L’Olocausto nella cultura italiana. 1944-2010, Bollati Boringhieri, Torino, 2013

2 Régine Robin, La mémoire saturée, Paris, Editions Stock, 2003 (I fantasmi della storia. Il passato europeo e le trappole della memoria, traduzione di C. Saletti e L. Di Genio, Verona, Ombre Corte, 2005. La traduzione italiana è un estratto della versione originale molto più ampia).

3 Jean-Michel Chaumont, La concurrence des victimes. Génocide, identité, reconnaissance. Paris, Editions La Découverte, 1997

4 E. Ruffini, Ancora sul memoriale italiano ad Auschwitz, articolo disponibile online all’indirizzo: http://www.isrecbg.it/web/wp-content/uploads/2014/04/79_Memoriale.pdf, Il memoriale italiano di Auschwitz, articolo disponibile online all’indirizzo: http://rivista.ibc.regione.emilia-romagna.it/xw-201002/xw-201002-d0001/xw-201002-a0017

5 S. Luzzatto, Auschwitz, memoria di tutti, Il Corriere della Sera, 26 agosto 2008

6 G. De Luna, Se questo è un memorial. Auschwitz, il padiglione italiano è da rifare, La Stampa, 21 gennaio 2008, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Milano, Feltrinelli, 2011

7 E. Pirazzoli, Le memorie dei luoghi, in Il memoriale italiano di Auschwitz e il cantiere Blocco 21. Un patrimonio materiale da salvare, “Quaderni di ‘Ananke, n. 1, 2009, pp. 82-85, La vicenda del Memoriale italiano di Auschwitz (a cura di E. Ruffini) in “Studi e ricerche di storia contemporanea”, n. 74, 2010.

8 Penso all’articolo a firma di Alessandro Ferrucci per Il Fatto Quotidiano del 22 aprile 2013 che titolava “Ad Auschwitz l’Italia non è degna di memoria”.

9 L’espressione “turismo concentrazionario” è del filosofo francese Alain Finkielkraut. La statistica del numero di visitatori di Auschwitz con la classifica dei paesi è pubblicata sul sito del Museo di Auschwitz, www.auschwitz.org

10 G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Milano, Raffaello Cortina, 2005