Select Page

Le transizioni demografiche nel mondo e nel Mediterraneo

transizioni demografiche

[url=https://flic.kr/p/f84vaB][img]https://farm6.staticflickr.com/5469/9268893673_e1bd8057ee_s.jpg[/img][/url][url=https://flic.kr/p/f84vaB]Lampedusa[/url] by [url=https://www.flickr.com/people/99824467@N00/]antonello_mangano[/url], on Flickr

Testo esperto per docenti, con bibliografia

Nozioni base di demografia storica

Nel corso del Novecento la popolazione mondiale è passata da 1,6 a 6 miliardi, e a 7 nel 2011. Dunque la specie umana, che aveva impiegato tutti i 200.000 anni della sua storia per arrivare a un miliardo di individui all’inizio dell’Ottocento (attorno al 1820), nel Novecento è quadruplicata. Questo cambiamento è collegato ad altri, non meno enormi: la percentuale di popolazione urbana è passata dal 10% al 50%; sia pure in diverse entità nelle differenti parti del mondo, sono diminuite la fecondità [=numero di figli per donna], la natalità [=nati per 1000 abitanti] e la mortalità [=morti per 1000 abitanti], soprattutto quella infantile; di conseguenza, è raddoppiata la durata media della vita ed è iniziato un sempre più accentuato invecchiamento della popolazione; è profondamente cambiata, e ancora di più cambierà, la distribuzione della popolazione tra le diverse parti del pianeta (ad esempio, la percentuale della popolazione europea su quella mondiale si è dimezzata – dal 25% al 12% – e continua a diminuire: si prevede sarà il 7,5% nel 2050).

I mutamenti demografici incidono dunque sia sulla “grande storia” dei rapporti tra le diverse aree del mondo (ivi compreso, come vedremo, il Mediterraneo), sia sulle strutture e sulle relazioni familiari, fino alle dimensioni più private e intime, come quelle della procreazione e dei rapporti tra genitori e figli.

La prima transizione demografica

Il concetto-chiave usato dai demografi per spiegare queste enormi e rapidissime trasformazioni è la “transizione demografica”, cioè il passaggio dal regime demografico tradizionale, basato su alti livelli sia di natalità sia di mortalità, soprattutto infantile, al regime demografico moderno, che è viceversa caratterizzato dai bassi livelli sia delle nascite sia dei decessi. La transizione demografica passa attraverso due fasi: nella prima si verifica una forte crescita della popolazione, perché la mortalità inizia a calare prima della natalità; nella seconda fase della transizione demografica la crescita rallenta, fino ad azzerarsi. Va sottolineato che è la crescita a diminuire, non la popolazione in termini assoluti: questa continua a crescere, sia pure più lentamente, perché il calo della mortalità consente a molte più persone di vivere molto più a lungo.

L’esito della transizione demografica può essere riassunto in due “vittorie”: la prima, contro la morte precoce; la seconda, contro le nascite indesiderate.

La transizione demografica dipende da fattori diversi (i progressi agricoli, il modello di vita urbano e industriale, la scolarizzazione, e altri processi a questi connessi, primo tra tutti l’emancipazione femminile) che nel loro insieme vengono chiamati modernizzazione. Come noto, essa ha riguardato per primi i paesi economicamente avanzati del cosiddetto “Nord del mondo” (Europa, Nord America, Giappone, Australia); solo in seguito, e con tempi e ritmi molto diversi, essa ha coinvolto i paesi poveri del cosiddetto “Sud del mondo” (Asia, Africa, America Latina).

Nel “regime demografico tradizionale”, cioè dalla rivoluzione neolitica fino alla metà del Settecento in Europa (ma fino al Novecento, nel resto del mondo), la crescita della popolazione era lenta e discontinua: mediamente, ogni donna generava 5-6 figli, ma oltre la metà di essi moriva in età infantile o prima di arrivare all’età adulta. A un’alta natalità corrispondeva perciò un’alta mortalità, soprattutto infantile, per cui la popolazione era composta in gran parte da giovani: tra i molti che nascevano, pochi diventavano vecchi. Inoltre, la popolazione aumentava lentamente perché le fasi di crescita demografica (legate a un aumento di risorse alimentari disponibili) erano seguite da drammatiche fasi di calo, dovute a carestie alimentari e a epidemie di malattie infettive.

La transizione nel Nord del mondo

La prima fase della transizione demografica, cioè un intenso e prolungato aumento della popolazione, iniziò in Europa occidentale nella seconda metà del Settecento e si estese all’Europa orientale e meridionale nel secondo Ottocento. Tale aumento fu dovuto al fatto che la natalità rimase alta ma la mortalità diminuì, a causa della scomparsa della peste, dell’aumento delle risorse alimentari, poi delle migliorate condizioni igieniche delle città: queste cause erano in gran parte legate alle rivoluzioni agricola, industriale e dei trasporti, e ciò spiega la precocità della transizione in Inghilterra e nell’Europa nord-occidentale, rispetto al resto del continente. Con un’alta natalità e una mortalità in calo, la popolazione europea aumentò molto e rapidamente tra l’Ottocento e il 1914, tanto che in quel periodo 50 milioni di europei emigrarono verso le Americhe e l’Australia. Fu un esodo di dimensioni senza precedenti nella storia, reso possibile da condizioni particolarissime: quei continenti erano semi-spopolati, anche per il tracollo demografico dei nativi, provocato dal contatto con gli europei a seguito delle conquiste coloniali dei secoli precedenti.

Poi, dall’inizio del Novecento (anche prima, in Europa nord-occidentale; ma solo dopo la Prima guerra mondiale nell’Europa orientale e meridionale), iniziò la seconda fase della transizione demografica, cioè il progressivo rallentamento della crescita. Ciò fu dovuto al fatto che, mentre proseguiva il calo della mortalità (ora dovuto soprattutto ai progressi medico-sanitari), iniziò a rallentare anche la natalità, per cause legate all’industrializzazione e all’urbanizzazione: mentre per i contadini i figli costituivano, già dall’infanzia, utili braccia da lavoro nei campi, in città essi diventavano bocche da sfamare, tanto più costose quanto più si diffondeva la scolarizzazione obbligatoria e venivano posti limiti al lavoro minorile in fabbrica. Il calo della natalità fu anche un effetto del calo della mortalità: nelle società agrarie tradizionali, che non avevano sistemi pensionistici, i figli erano “il bastone della vecchiaia”, e proprio l’alta mortalità spingeva all’alta procreazione. Man mano che aumentarono i figli che sopravvivevano, i genitori iniziarono a generarne un numero minore. Ciò fu al contempo causa ed effetto di una grande trasformazione della mentalità e dei comportamenti, in cui ebbe un ruolo fondamentale la progressiva emancipazione femminile, nella seconda metà del Novecento: si passò da un sistema di procreazione naturale a forme sempre più efficaci di controllo e di programmazione delle nascite (la “pillola” contraccettiva iniziò a diffondersi negli anni ’60). In tutta Europa il calo della natalità iniziò negli anni ’20 e fu molto forte durante la Seconda guerra mondiale. Dopo una temporanea inversione di tendenza dal dopoguerra agli anni ’60 (il cosiddetto “baby-boom”), la natalità tornò a calare fino a toccare negli anni settanta la cosiddetta “crescita 0”, cioè un equilibrio al ribasso tra nati e morti, in tutto il Nord del mondo: così si concluse la transizione, che instaurò il regime demografico moderno.

La transizione – incompleta – nel Sud del mondo

Nel Sud del mondo, la grande crescita legata alla prima fase della transizione demografica iniziò nella prima metà del Novecento – proprio quando nel Nord stava rallentando – e si manifestò soprattutto tra gli anni ‘50 e i ‘70, cioè in un arco di tempo molto più breve e in modo molto più intenso di quanto era accaduto nel Nord. Ciò accadde per effetto di due fenomeni combinati:

1. la mortalità diminuì rapidamente, a causa della diffusione dal Nord al Sud degli antibiotici e delle vaccinazioni contro le malattie infettive (anche se la mortalità è rimasta molto più alta che nel Nord);

2. la natalità continuò a essere alta, per il permanere di modelli culturali tradizionali, in società agrarie, basate su una forte subalternità delle donne, che iniziavano prestissimo (14-15 anni) a generare figli.

Si innescò così in quei paesi la cosiddetta “bomba demografica”, cioè un enorme aumento della popolazione.

Poi, dagli anni ‘80-‘90, anche in gran parte del Sud del mondo la natalità e la crescita della popolazione hanno cominciato a rallentare, cioè anche nel Sud è iniziata la seconda fase della transizione demografica. Ciò si è realizzato però in tempi e con ritmi diversi: prima in Asia orientale e in America Latina; solo all’inizio del Duemila, e molto più lentamente, in Africa e nel Medio Oriente, dove la crescita demografica è tuttora alta.

Vedi DOC.1 sulla popolazione mondiale per grandi aree dal 1850 al 2050 (dati e proiezioni)

Nel duemila, una seconda transizione demografica?

Dagli anni ’90 del Novecento è iniziata nel Nord del mondo quella che alcuni demografi definiscono “seconda transizione demografica” (da non confondersi con la seconda fase della prima), che caratterizzerà il XXI secolo. Essa consiste in un ulteriore declino sia della mortalità sia, soprattutto, della natalità, che dovrebbe avere come conseguenze, dalla metà del XXI secolo: a) un calo della popolazione, più o meno intenso e rapido nei diversi paesi; b) un intenso e “devastante” mutamento della sua struttura per età, con un forte invecchiamento della popolazione. Ciò accade perché nel Nord del mondo, che aveva completato negli anni ’70 la prima transizione demografica, il tasso di fertilità (e di conseguenza la natalità) ha proseguito a calare, ben al di sotto della media di due figli per donna che assicura il ricambio generazionale (cioè appunto la “crescita 0”, la stabilità della popolazione). Questo fenomeno, che non ha precedenti nella storia, iniziò in alcuni paesi come l’Italia e il Giappone, che sono infatti i paesi più “vecchi” del mondo, con un numero medio di figli per donna di 1,2-1,3; ma si è poi esteso a molti altri paesi sviluppati, in particolare in Europa.

Nel Sud del mondo, sempre dagli anni ‘90, si osserva una differenza rilevante tra due situazioni: i cosiddetti “paesi emergenti” hanno visto abbassarsi sempre più il tasso di fecondità, verso o al di sotto dei due figli per donna (in particolare in Cina e nel resto dell’Asia orientale, e più lentamente in America latina); in un altro gruppo di paesi (chiamati “a sviluppo minimo”, e localizzati nel resto dell’Asia e, soprattutto, nell’Africa subsahariana), i tassi di fecondità, e di conseguenza la crescita della popolazione, rimangono molto alti, e si prevede calino molto più lentamente che nei “paesi emergenti”.

E’ dunque in atto una certa “convergenza” (cioè la chiusura della “forbice”) nei dati sulla fecondità tra paesi economicamente sviluppati e una parte dei paesi in via di sviluppo: solo una parte, però (quella dei cosiddetti “paesi emergenti”), tanto che, da punto di vista demografico, al posto della tradizionale distinzione Nord-Sud si preferisce sostituire una tripartizione fra:

A. paesi economicamente progrediti, che si trovano ormai nella “seconda transizione demografica”;

B. “paesi emergenti”, che sono nella seconda fase della prima transizione demografica;

C. paesi “a sviluppo minimo” (quasi tutti nell’Africa sub-sahariana), che si trovano ancora nella prima fase della prima transizione demografica, cioè con alti tassi di fecondità e una forte crescita della popolazione.

Vedi DOC.2: tabella sui tassi di fecondità nelle diverse aree del mondo

In conseguenza di queste diverse situazioni, i tre gruppi di paesi hanno e avranno nella prima metà del Duemila problemi demografici molto diversi, per la grande differenza nella composizione della popolazione per fasce di età, tra: giovani (sotto i 15 anni); adulti in età lavorativa (15-65 anni); anziani (oltre i 65 anni):

Vedi DOC.3: tabella sull’aumento delle diverse fasce anagrafiche della popolazione

Per effetto di questi mutamenti, si prevede che nella prima parte del XXI secolo:

a) la popolazione giovane (sotto i 15 anni) calerà nel mondo di circa 15 milioni, come esito combinato di: un leggero calo nei paesi progrediti (nei quali è già calata moltissimo); un forte calo (176 milioni= –13%) nei paesi emergenti; un forte aumento (173 milioni= +54%) nei paesi a sviluppo minimo.

b) la popolazione in età lavorativa (15-65 anni) aumenterà di quasi 1,7 miliardi, con fortissime differenze nelle tre aree: –92 milioni nei paesi progrediti; +1.067 milioni nei paesi emergenti; +708 milioni nei paesi a sviluppo minimo (per impiegare il 70% di questi 1,7 miliardi servirebbero 1.250 milioni di nuovi posti di lavoro!)

c) la popolazione anziana (oltre i 65 anni) crescerà nel mondo di 1 miliardo: 140 milioni nei paesi avanzati, nei quali rappresenteranno ben il 26% del totale della popolazione; 877 milioni nei paesi degli altri due gruppi presi insieme, ove costituiranno “solo” il 15%, ma con un incremento del 300%. Per motivi diversi, perciò, saranno messi a dura prova i sistemi pensionistici e sanitari (è da ricordare che la spesa sanitaria, ad es. in Italia, riguarda per l’80% la popolazione di questa fascia di età): nel Nord per l’altissimo numero di anziani; nel Sud per la debolezza (o quasi assenza) dei sistemi assistenziali-sanitari.

La situazione e le tendenze demografiche sulle due sponde del mediterraneo

Se consideriamo la situazione e le tendenze demografiche del Mediterraneo notiamo, a un primo sguardo, che sulle sue sponde si fronteggiano paesi del Nord del mondo (Spagna, Francia, Italia, Grecia), che hanno completato la prima transizione demografica e sono entrati nella seconda; e paesi africani (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto), cioè di quella parte del Sud del mondo che è ancora in fasi diverse della prima transizione demografica, con alti tassi di incremento demografico.

Vedi DOC.4A e 4B: tabella sulla demografia dei paesi mediterranei dell’Europa e dell’Africa

A uno sguardo più approfondito, però, si può osservare che:

a) tra i paesi dell’Europa mediterranea ci sono aspetti comuni ma anche differenze significative: Spagna, Italia e Grecia hanno un tasso di fecondità inferiore sia alla media dei paesi sviluppati (che è 1,6, vedi tab.2) sia a quella europea (1,4, ibidem), al contrario della Francia, che, non a caso, è l’unico paese dell’Europa mediterranea in cui è previsto un aumento della popolazione dal presente al 2050 *.

b) i paesi dell’Africa mediterranea mostrano anche sul piano demografico specificità e differenze storiche rispetto al resto dell’Africa, che li collocano nella macro-area comprendente anche il Vicino Oriente, ben distinta dall’Africa sub-sahariana (detta anche Africa nera)*. I paesi dell’Africa mediterranea, che complessivamente cresceranno da 170 a 270 milioni di abitanti dal 2005 al 2050, hanno tutti un tasso di fecondità che li colloca in una situazione intermedia tra i “paesi emergenti” dell’Asia orientale (ove essa è al di sotto di 1,9, vedi tab.2), e quelli dell’Asia meridionale e, soprattutto, del resto dell’Africa, nella quale il numero di figli per donna è di 5 (ibidem); ci sono inoltre differenze rilevanti tra Tunisia, Libia e Marocco, da una parte, e Algeria ed Egitto dall’altra.

NB: Nel confronto tra Libia ed Egitto (doc.4B), l’apparente contraddizione tra i livelli di fecondità e gli indici di natalità (la prima più alta in Egitto, la seconda più alta in Libia) si può spiegare nei seguenti termini: in Libia la “frenata” nel numero di nascite è più recente, e l’indice di natalità permane più alto che in Egitto a causa di una maggiore percentuale di giovani in età riproduttiva; in altri termini, in media le donne libiche generano meno figli di quelle egiziane, ma esse sono più numerose sul totale della popolazione: è questo uno dei più tipici fattori di “inerzia” presenti nei fenomeni demografici, ovviamente non solo nei due casi qui citati.

* Sulle differenze nell’evoluzione demografica tra la Francia e gli altri paesi mediterranei, in particolare l’Italia, e tra Egitto ed Etiopia (come esempi rappresentativi, rispettivamente, dell’Africa mediterranea e l’Africa subsahariana), vedi il 2^ studio di caso.

Bibliografia e sitografia essenziale

Livi Bacci, Massimo, Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino 2002

Golini, Antonio, La popolazione del pianeta, Il Mulino 2003

Società italiana di statistica, Rapporto sulla popolazione. L’Italia all’inizio del XXI secolo, Il Mulino 2007

Golini, Antonio (a cura di), Il futuro della popolazione del mondo, Il Mulino 2009

United Nations, Department of Economic and Social Affairs. Population Division, Population Estimates and Projections Section, World Population Prospects: The 2012 Revision, in: http://esa.un.org

Piramide della popolazione mondiale dal 1950 al 2100 (di ogni singolo paese, su dati ONU), in: http://populationpyramid.net/it

Stati per tasso di natalità, in: wikipedia.org

Testo per allievi (comune ai due studi di caso seguenti)

Numeri che fanno la storia. La popolazione, nel Mondo e nel Mediterraneo

La specie umana, che aveva impiegato tutta la sua storia per arrivare a un miliardo di persone a inizio Ottocento, nel corso del Novecento è quadruplicata, passando da circa 1,5 a 6 miliardi nel Duemila, poi a 7 nel 2011; si prevede che arriverà a circa 9,5 miliardi attorno al 2050. Per spiegare questo aumento enorme, i demografi usano il concetto di “transizione demografica”, che è il passaggio dal regime demografico “tradizionale” (cioè delle società agrarie preindustriali), caratterizzato da alta natalità e alta mortalità, a quello “moderno”, viceversa caratterizzato da bassa natalità e bassa mortalità. In altri termini, si è ridotto il numero di figli che vengono messi al mondo, ma molti di più sopravvivono, diventano adulti e poi anziani, per cui si vive molto più a lungo, cosicché aumentano gli anziani rispetto ai giovani. Detto così, il processo sembrerebbe semplice, da una parte; dall’altra, non si capisce perché abbia provocato un enorme aumento della popolazione mondiale. In realtà, la transizione demografica è complessa, per due motivi:

1) poiché il calo della mortalità (soprattutto infantile, ma non solo) precede il calo della natalità, in una Prima fase della transizione c’è un forte aumento della popolazione; solo nella Seconda fase, quando calano anche le nascite, l’aumento della popolazione rallenta, fino ad azzerarsi, cioè si arriva alla cosiddetta “crescita 0”.

2) poiché la transizione demografica è collegata alla “modernizzazione”, essa si è attuata prima nel cosiddetto “Nord del mondo”, cioè nei paesi economicamente avanzati, dove la Prima fase era già in atto nell’Ottocento, e la Seconda fase si è conclusa negli anni ’70 del Novecento. I paesi del Sud del mondo sono entrati più tardi nella transizione, verso la metà del Novecento, ma in modo molto più rapido e intenso per due cause intrecciate:

a) la mortalità è stata abbattuta per l’importazione dal Nord di tecniche sanitarie: vaccinazioni, antibiotici);

b) in paesi ancora in prevalenza tradizionali (economie agrarie, società con forte subordinazione della donna), la natalità è rimasta alta, e solo dagli anni ’80-’90 del Novecento ha iniziato a calare, ma non ovunque: prima nell’Asia orientale e in America latina; molto meno in Africa e in alcune parti dell’Asia.

Sempre dagli anni ’90, inoltre, è iniziata nel Nord del mondo quella che alcuni demografi definiscono una “seconda transizione demografica”: un ulteriore calo della fecondità ben al di sotto dei due figli per donna, e quindi un calo della popolazione, compensato solo grazie all’immigrazione dal Sud del mondo.

Proprio sulle due sponde del Mediterraneo si affacciano, da una parte, alcuni dei paesi del Nord (l’Europa mediterranea) dove è più accentuato il calo della fecondità con le sue conseguenze: invecchiamento e, tendenzialmente, calo della popolazione (al netto dell’immigrazione); dall’altra, i paesi dell’Africa, che è il continente più “in ritardo” nella transizione, e perciò in forte aumento demografico anche se, come vedremo, con differenze significative tra l’Africa mediterranea e quella subsahariana.

Lavoro sul testo

[attività comune ai due studi di caso seguenti]

  • che cosa significa secondo voi il termine “modernizzazione”?
  • in una società “tradizionale”, quali fattori provocavano (provocano) un’alta natalità, e un’alta mortalità? (nel rispondere, distinguete i fattori: tecnologici, economici, socio-culturali)
  • perché, secondo voi, l’abbassarsi della mortalità spinge a sua volta all’abbassamento della natalità?
  • In una società “moderna”, quali fattori favoriscono una bassa natalità, e quali una bassa mortalità?
Studio di caso n. 1 (Leggere il testo b e svolgere l’annessa parte didattica)

La demografia storica e il mondo

doc.1

Stime e proiezioni della popolazione mondiale per grandi aree, dal 1850 al 2050

[da A.Golini 2003 e 2009, su dati Onu 2008]

tabella 01

(*) i numeri riportati per il 2050 qui sotto in corsivo (9550, 5164, ecc.) sono quelli dell’ultima revisione del World Population Prospect dell’Onu relativi al 2012 (pubblicati nel giugno 2013), sempre secondo la cosiddetta “ipotesi media di fertilità”, una delle tre calcolate (secondo la più bassa, il totale della popolazione previsto per il 2050 è di 8.341 milioni; secondo la più alta è di 10.868). Si può notare che il totale mondiale previsto nel 2012 è quasi lo stesso che fu previsto nel 2008, ma con più forti differenze tra le aree sviluppate e le aree meno sviluppate, in particolare tra l’Europa e l’Africa

Attività:

1) Transcodificazione:

1.1) trasformate la tabella in grafici “a torta” e poi in grafici a istogrammi (un grafico a torta e un istogramma per ciascuno dei 5 anni indicati, dal 1850 al 2050); poi discutete su quale delle tre modalità (tabella, grafico a torta, grafico a istogramma) vi appare più efficace nel rappresentare i contenuti.

1.2) spiegate verbalmente, per iscritto, i dati della tabella (e dei grafici da voi prodotti), facendo attenzione sia alla dimensione diacronica sia a quella sincronica. Assumete come esempio già svolto la seguente spiegazione, riferita all’Europa, e costruite quelle per le altre aree indicate nella tabella (Oceania esclusa):

« La popolazione europea aumentò molto nel mezzo secolo tra il 1850 e il 1900, cioè di quasi il 50% [per l’esattezza, il 47,8%, ricavabile così: sottraggo la popolazione del 1850 (276 milioni) a quella del 1900 (408) e ottengo l’aumento di 132 milioni; da questo ottengo la percentuale di aumento del cinquantennio in esame (con la proporzione 276 : 100 = 132 : X): 47,8%], tanto che arrivò a costituire quasi ¼ (24,7%) della popolazione mondiale. Da allora, però, rallentò la sua crescita nella prima metà del Novecento, e ancora di più nella seconda metà del secolo, quando la sua percentuale sulla popolazione mondiale quasi dimezzò, anche – e soprattutto – per effetto del contemporaneo, forte aumento demografico nel resto del mondo. Nella prima metà del Duemila, secondo le previsioni, la popolazione europea calerà ancora, non solo in percentuale sul totale mondiale (dal 12,4 al 7,5%), ma anche, per la prima volta nella storia recente, in termini assoluti (da 729 a 691 milioni di abitanti), unica in questo tra le grandi aree del mondo.»

2) interpretate i dati, per l’Europa, l’Asia e l’Africa, sulla base del concetto di “transizione demografica”

doc.2 I tassi di fecondità, presenti e futuri, nelle diverse aree del mondo [da A.Golini, 2011, p. 52]

Numero medio di figli per donna nel quinquennio 2000-05


1,6 nei paesi sviluppati, percentuale media tra:

1,3 in Giappone; 1,4 in Europa centro-occidentale; 1,6 in Russia, Europa balcanica, Canada e Oceania; 2 negli Usa;

2,9 nei paesi in via di sviluppo, media tra:

1,7 in Cina; 1,9 nel resto dell’Asia orientale, 2,5 in America Latina; 3,2 nell’Asia meridionale; 3,5 nell’Asia occidentale; 5,0 in Africa

Numero medio di figli per donna previsti nel 2045-50


1,8 in tutti i paesi sviluppati, con oscillazioni minime (0,1) tra di essi;

2,1 nei paesi in via di sviluppo, percentuale media tra: 1,9 in America latina, Asia orientale e meridionale;

2,0 in Asia occidentale;

2,5 in Africa.


doc.3 Popolazione mondiale nel 2005 e nel 2050 (in milioni e in %) per fasce d’età e per aree
[da A.Golini 2011 su dati Onu 2007]

tabella 03

*NB: questa cifra totale (9.191) differisce da quelle (9.545 e 9.550) della 1^tabella perché è desunta dalle previsioni Onu del 2007, anziché dalle previsioni del 2008 (e del 2012) di quella.

Attività:

1) Confrontando le due tabelle, emerge che al posto della tradizionale distinzione Nord-Sud del mondo, si profila una tripartizione fra le aree del mondo, che sembra dipendere soprattutto dai diversi tassi di fecondità (presente e prevista per il prossimo futuro) tra paesi progrediti, paesi emergenti e paesi a sviluppo minimo.

1.1) classificate le aree del mondo in questi tre gruppi

1.2) dopo avere osservato attentamente la situazione per fasce d’età delle tre aree indicata nel doc. 3, discutete nel gruppo e poi mettere per iscritto le conclusioni della discussione, sulla seguente domanda:
l’evoluzione delle tre fasce d’età (giovanile, di età lavorativa, anziana) quali diversi problemi (sociali, economici, culturali) porrà ai paesi dell’area A, dell’area B e dell’area C, nel prossimo futuro?

Studio di caso n. 2 (Leggere il testo b e svolgere l’annessa parte didattica)

La demografia dei paesi mediterranei dell’Europa e dell’Africa

doc.4. A dati demografici e socio-economici del presente e proiezioni demografiche sui paesi dell’Europa mediterranea [da: ONU]

tabella 04a

* i dati sulla popolazione (del 2013, e le previsioni per il 2020 e per il 2050 della World Population Review, dell’Onu) sono espressi in milioni
** il tasso di fecondità, cioè il numero medio di figli per donna, è riferito al quinquennio 2005-10
*** a fianco del tasso di natalità, cioè il numero di nati per 1000 abitanti, viene indicato tra ( ) la posizione nella classifica mondiale (tra 194 paesi censiti) del paese
**** il Pil/ab cioè il Prodotto Interno lordo pro capite è relativo al 2012, espresso in dollari, ed è affiancato dalla posizione nella classifica mondiale del paese [fonte FMI]
***** ISU=Indice di sviluppo Umano, che tiene conto di variabili sociali, oltre che economiche; tra ( ) la posizione nella classifica mondiale del Paese

doc.4.B Dati demografici e socio-economici del presente e proiezioni demografiche sui paesi dell’Africa mediterranea [da: Onu e Fmi]

tabella 04b

* i dati sulla popolazione (del 2013, e le previsioni per il 2020 e per il 2050 della World Population Review, dell’Onu) sono espressi in milioni
** il tasso di fecondità, cioè il numero medio di figli per donna, è riferito al quinquennio 2005-10
*** a fianco del tasso di natalità, cioè il numero di nati per 1000 abitanti, viene indicato tra ( ) la posizione nella classifica mondiale (tra 194 paesi censiti) del paese
**** il Pil/ab cioè il Prodotto Interno lordo pro capite è relativo al 2012, espresso in dollari, ed è affiancato dalla posizione nella classifica mondiale del paese [fonte FMI]
***** ISU=Indice di sviluppo Umano, che tiene conto di variabili sociali, oltre che economiche; tra ( ) la posizione nella classifica mondiale del Paese

Attività

1) Confrontate in primo luogo i paesi dell’Europa mediterranea (doc.4A) tra loro e i paesi dell’Africa mediterranea (4B) tra loro, individuando gli aspetti comuni e le eventuali differenze significative.

2) Confrontando il doc.4 (A e B) con il doc.2 (e 3):

2.1) come collocate i paesi dell’Europa mediterranea rispetto agli altri paesi economicamente progrediti?
2.2) come collochereste i paesi dell’Africa mediterranea: nel gruppo B o C, o in una situazione intermedia?

Studio di caso n. 3 (documenti e attività, dopo lettura del testo per studenti e i relativi esercizi)
Le differenze tra paesi dell’Europa mediterranea: Francia-Italia, e tra paesi dell’Africa: Egitto-Etiopia

doc.1 Popolazioni a confronto: Francia e Italia, Egitto ed Etiopia [dal 1950 al 2012 da Onu, World Population Prospects]

tabella_dopo_doc_4b

(avvertenza per il docente): Se confrontiamo l’andamento demografico dei due paesi africani con quello dei due europei, appare vistosa la diversa velocità di crescita dei primi rispetto ai secondi.
Se restringiamo il confronto ai paesi africani, il caso dell’Etiopia è rappresentativo della situazione dell’Africa subsahariana e ci consente di cogliere le differenze rispetto ai paesi dell’Africa mediterranea, come l’Egitto. La differenza nella velocità di crescita tra Egitto ed Etiopia si spiega col fatto che, alla fine del Novecento:
– l’Egitto aveva una media di 3,4 figli per donna; una durata media della vita di 66 anni; un tasso di crescita annuo della popolazione di 1,9%; un Pil pro-capite di 3.800 $;
– l’Etiopia aveva una media di 7 figli per donna; una durata media della vita di 49,9 anni; un tasso di crescita annuo della popolazione di 3,2%; un Pil pro-capite di 450 $.

doc.2 Il caso francese

Per molti secoli, fino all’inizio dell’Ottocento, la Francia fu il paese di gran lunga più popoloso d’Europa (dall’XI al XVI secolo, ad esempio, aveva il quadruplo della popolazione inglese, mentre oggi le due popolazioni sono quasi pari: 64 e 63 milioni). Nel corso dell’Ottocento, però, la Francia fu il primo paese a conoscere un forte calo della fecondità, che rallentò molto la sua crescita demografica, fino alla metà del Novecento. Soprattutto per questo motivo la Francia, dopo avere popolato con i suoi emigranti il Quebec canadese nel Seicento, fu l’unico paese europeo a non contribuire al gigantesco flusso migratorio del lungo Ottocento verso le Americhe e l’Australia. Anzi, dagli anni ’20 del Novecento fu il primo paese europeo a diventare meta di immigrazione, dall’Europa mediterranea e poi, dagli anni ’50, anche dalle sue colonie del Maghreb (soprattutto da Algeria, Tunisia e Marocco). Le preoccupazioni generate dal calo demografo indussero i governi francesi, fin dall’immediato secondo dopoguerra, a muoversi su due piani:

  1. incoraggiare l’immigrazione, cosa che proseguì fino alla metà degli anni ’70, da quando furono introdotti vincoli sempre maggiori, che non hanno peraltro impedito la crescita dei flussi di immigrati: oggi ¼ della popolazione francese ha origini (genitori o nonni) stranieri, ed è la società europea più multietnica;

  2. attuare una politica sociale molto generosa verso la famiglia e la natalità, attraverso un sistema di Welfare State che destina a questo settore molte più risorse di altri paesi europei, in particolare con misure fiscali come assegni familiari e detrazioni secondo il cosiddetto “quoziente familiare”, sovvenzioni per gli alloggi alle famiglie, ricca dotazione di servizi come gli asili nido e le scuole materne.

Come esito combinato dell’immigrazione e delle politiche sociali favorevoli alla natalità, negli ultimi decenni in Francia la popolazione ha ripreso a crescere (vedi doc.1), passando dalla più bassa alla più alta natalità in Europa (vedi doc. 4A), ed è (e sarà nei prossimi decenni) mediamente la più giovane d’Europa.

[ rielaborazione e adattamento basati su: Società italiana di statistica, Rapporto sulla popolazione, 2007]

doc.3 Il caso italiano

All’opposto della Francia, l’Italia fu uno degli ultimi paesi europei a iniziare la transizione demografica, a fine Ottocento, e la forte crescita collegata alla prima fase della transizione la portò a contribuire, più di qualunque altro paese europeo, all’emigrazione verso le Americhe e l’Europa continentale del periodo tra fine Ottocento e la Prima guerra mondiale, e poi ancora negli anni ’50 e ’60 del Novecento. Negli anni ’70 del Novecento, però, si ebbe una svolta molto rapida: la natalità, ancora molto sostenuta negli anni ’50, soprattutto al Sud, calò fino alla “crescita 0”; in quel decennio, inoltre, l’Italia cessò di essere un paese di emigrazione e divenne anch’essa, come gli altri paesi dell’Europa occidentale, meta di immigrazione, che da allora è progressivamente cresciuta, nonostante le politiche restrittive applicate dagli anni ’90. Mentre secondo il censimento del 1991 la popolazione straniera costituiva una quota quasi trascurabile dei residenti (0,6%), la percentuale è salita a 7,4% nel 2013, in grandissima parte (86%) concentrata nel Nord e nel Centro.

Dagli anni ’80, l’Italia fu il primo paese al mondo, assieme al Giappone, a proseguire nel calo della fecondità, fino ai livelli bassissimi degli anni ’90 di 1,2 figli per donna. All’inizio del XXI secolo si è avuto un leggero recupero che ha portato la media a 1,3 figli per donna (la stessa di diversi altri paesi dell’Europa meridionale e orientale). Tale recupero nella fecondità è dovuto all’apporto dell’immigrazione, e non a caso si è registrato nell’Italia centro-settentrionale, nella quale l’immigrazione è molto maggiore che nel Sud.

Come effetto congiunto di questa bassissima fecondità e di una longevità tra le più alte al mondo, la popolazione è progressivamente invecchiata, tanto che nel 2020 l’Italia avrà la più alta percentuale in Europa (e la seconda nel mondo, dopo il Giappone) sia di anziani (65-79 anni), che saranno il 16,6%; sia di “grandi vecchi” (80 anni e oltre), che saranno il 7,8%; perciò, il 24,4% della popolazione avrà più di 65 anni.

Mentre i progressi nella longevità sono facilmente spiegabili con i miglioramenti delle condizioni generali di vita e del sistema sanitario, c’è un vasto dibattito sulle cause della bassissima fecondità delle famiglie italiane. I dati certi sono:

a) il progressivo spostamento in avanti dell’età media in cui le donne generano il primo figlio, dal decennio fra i 20 e i 30 a quello fra i 30 e i 40 anni: un posticipo che induce spesso a non averne altri;

b) il forte ritardo (tipico soprattutto dell’Italia, e in parte degli altri paesi latini in Europa) con cui sia i maschi sia le femmine escono dalla famiglia di origine e vanno a costituirne una propria.

Di questi due fenomeni, in parte intrecciati tra loro, si danno spiegazioni diverse, tutte certamente influenti, che qui ci limitiamo a riassumere, senza pretendere di valutarne il peso relativo:

– I legami tra genitori e figli, molto più stretti e pervasivi in Italia (e in altri paesi mediterranei) che nel resto d’Europa, trattengono più a lungo i “giovani adulti” italiani nella famiglia d’origine, così come li inducono, una volta usciti, a stabilirsi in prossimità di quella, mantenendo un flusso continuo di rapporti e mutuo sostegno;

– A trattenere i giovani dall’uscire di casa e dal fare figli sono le difficoltà economiche, sia nel mercato degli alloggi sia nel mercato del lavoro, come dimostra l’altissima percentuale di disoccupazione giovanile in Italia;

– Il Welfare State italiano è molto “avaro” sia verso i giovani (che anche quando frequentano l’università tendono a vivere in famiglia, anziché nei campus universitari come negli altri paesi occidentali), sia verso la famiglia, per la quale in Europa si spende mediamente l’8% della spesa sociale, ma solo il 4,5% in Italia (“ultima in classifica” per questa voce, assieme alla Polonia);

– La bassa fecondità dipende da un “sistema di genere asimmetrico”, tipico dei paesi dell’Europa del Sud, tra i quali l’Italia, ove si è realizzata una “modernizzazione incompiuta”, così riassumibile: nonostante gli straordinari progressi femminili nei livelli di istruzione e nella conquista di autonomia economica e di identità sociale, all’interno della famiglia il lavoro domestico e la cura dei figli continuano a gravare solo o soprattutto sulla donna, secondo modelli di comportamento tradizionali. In questo contesto, per non compromettere la propria qualità della vita e/o le opportunità lavorative, molte donne sono indotte a ridurre il numero di figli o anche a rinunciare alla maternità. Varie ricerche italiane ed europee hanno riscontrato, in coppie in cui entrambi i partners lavorano, una correlazione positiva tra numero di figli e partecipazione maschile alle attività domestiche e di cura dei figli: ma in Italia questa sembra essere ancora l’eccezione, non la regola.

[rielaborazione e adattamento basati su: Società italiana di statistica, Rapporto sulla popolazione, 2007]

Attività:

1) Sulla base delle prime due righe della tabella del doc.1, costruite su un foglio (a quadretti, meglio se di carta millimetrata) un grafico ad assi cartesiani che visualizzi le due curve della popolazione francese e italiana (ovviamente per i 150 anni indicati nella tabella, e con l’avvertenza di disegnare con tratteggio le parti relative alle previsioni per il futuro)

2) Utilizzate prima il doc.2, poi il doc.3 per spiegare rispettivamente l’andamento delle due curve che avete disegnato prima, cioè quella sul caso francese e quella sul caso italiano

3) Ora preparatevi, all’interno dei (quattro) gruppi, a svolgere in plenaria (tutta la classe) un dibattito sulle dinamiche demografiche in Francia e in Italia. Ciascun gruppo avrà un ruolo diverso, ovvero dovrà sostenere il ruolo preminente che in tali dinamiche è giocato da:

– gruppo A: i fattori economici

– gruppo B: i fattori socio-culturali (mentalità e stili di comportamento collettivi)

– gruppo C: le scelte di politica sociale dei governi, l’intervento dello Stato

– gruppo D: l’influenza dei fattori migratori, cioè di emigrazioni ed immigrazioni.

Leave a reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

* Questa casella GDPR è richiesta

*

Accetto

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Le transizioni demografiche nel mondo e nel Mediterraneo
DOI: 10.12977/nov70
Parole chiave: , ,
Numero della rivista: n. 4, giugno 2015
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Le transizioni demografiche nel mondo e nel Mediterraneo, Novecento.org, n. 4, giugno 2015. DOI: 10.12977/nov70

Didattica digitale integrata