L’invenzione dell’Africa. La formazione dell’immaginario coloniale italiano
Testo per docenti
L’invenzione dell’Africa
Dieci anni dopo il fondamentale testo di Edward Said sull’Orientalismo (si veda anche il caso di studio di Enrico Manera in questa stessa raccolta) usciva il saggio del filosofo ed epistemologo Valentin-Yves Mudimbe dal significativo titolo L’invenzione dell’Africa, tradotto in italiano solo nel 2007. Focalizzando l’attenzione sul rapporto fra Occidente ed Africa, Mudimbe evidenziava lo scollamento tra la realtà del continente africano e il processo di costruzione della sua immagine in Occidente, al punto da parlare, appunto, di Africa “inventata”. Un’invenzione che, paradossalmente, si è andata costruendo in modo sempre più articolato a mano e mano che la colonizzazione del continente andava progredendo.
Lo scollamento fra dati storici, culturali, etnografici e immaginario occidentale sembra caratterizzare lo sguardo occidentale sull’alterità africanas fin dal Medioevo. E’ sorprendente apprendere che in nessuna rappresentazione cartografica è mai apparsa la dicitura Hic sunt leones a segnalare i territori appena oltre la costa settentrionale africana. La popolarità di questa frase, apparentemente descrittiva, è cresciuta in modo direttamente proporzionale al controllo coloniale del territorio, quando, cioè, la conoscenza diretta stava aumentando, e non viceversa. La domanda che è lecito porsi è dunque per quale motivo in epoca coloniale, ovvero quando l’Africa era stata ormai quasi completamente esplorata, si sentiva il bisogno di continuare a descriverla come “selvaggia”.
Sono ben noti, in storiografia, gli interessi economici e strategici che,in misura crescente, a partire dall’epoca della grandi scoperte geografiche fino ai primi decenni del ‘900, portarono i maggiori Stati europei, quasi sempre in conflitto tra loro, alla conquista di gran parte del resto del mondo. Un movimento di tale durata, ampiezza e partecipazione di uomini, non avrebbe tuttavia potuto prodursi senza una sua diffusa e articolata strumentazione culturale, senza, cioè, che nella elaborazione ideologica di gran parte delle elites intellettuali e nella coscienza di milioni di Europei l’avventura coloniale trovasse una qualche forma di legittimazione, o quanto meno una qualche giustificazione morale.
Nella sua prima fase, la politica colonialista si impernia su una legittimazione di tipo religioso. Nella bolle papali di Niccolò V Dum Diversas (1452) e Romanus Pontifex (1454) i Cristiani venivano autorizzati ad invadere, conquistare, espellere e combattere Saraceni, pagani e altri nemici di Cristo in base al principio che le terre nelle mani infedeli non appartenessero a nessuno (terra nullius) e che gli infedeli stessi potessero essere ridotti in schiavitù. La conquista per diritto divino poteva, facendo uso della superiore potenza militareeuropea, spazzar via intere popolazioni.
Nell’Ottocento, quando prende il via la spartizione coloniale dell’Africa, la natura del colonialismo è già profondamente cambiata. L’espansione si basa ora sulla potenza economica e commerciale e non è più disposta a pagare alti prezzi in termini umani e materiali. I popoli colonizzati sono preziosa manodopera e al contempo “mercato” – inizialmente potenziale, poi via via più importante – per le industrie europee. L’avventura coloniale continua ad essere giustificata con la superiorità dell’Occidente, ma non ci si appella più solo alla superiorità religiosa, che pure resta in posizione di rilievo:è la nuova scienza positivista a sancire l’“inferiorità” di gran parte delle popolazioni – o delle “razze”, come si diceva allora – tradizionalmente insediate al di fuori del continente europeo, rimaste ad uno stadio arretrato della scala evolutiva biologica (e sociale).La colonizzazione viene dunque giustificata con una presunta “missione civilizzatrice” verso i popoli africani.
Le narrazioni di esploratori, missionari, archeologi, antropologi, o anche semplici viaggiatori restituiscono, anche se con diverse sfumature, il quadro di immensi territori, abitati da persone “primitive”, incapaci di sfruttare la terra, in attesa di essere liberate dalla schiavitù: non solo la schiavitù vera e propria, ma quella, “ben più grave”, dell’ignoranza e delle false credenze. Assieme ai racconti di viaggio, spesso illustrati da disegni e rappresentazioni di territori e avvenimenti narrati, giungono in Europa anche oggetti e, dalla seconda metà dell’Ottocento, fotografie, a testimonianze e rafforzamento dei racconti stessi. Mentre la letteratura scientifica è destinata ad un pubblico colto, altre forme di comunicazione (libri di viaggio, guide turistiche, letteratura di evasione, riviste illustrate, propaganda missionaria, cartoline, figurine…)ampliano enormemente i possibili destinatari. Tutto ciò concorre alla progressiva definizione di un immaginario collettivo (un’invenzione) dell’Africa, che giustifica e supporta la sua colonizzazione.
Se la costruzione di questo immaginario collettivo è stata importante per tutti i paesi colonizzatori, ancor più lo è stata nel caso dell’Italia – buona ultima nello scramble for Africa – giunta al colonialismo più per ragioni di aggregazione sul piano interno, che per interessi economici veri e propri. Per smuovere forze e masse verso la prospettiva coloniale, c’era bisogno di immagini trainanti, di miti, di ideologie condivise, sia nell’Italia liberale, che, più tardi e in modo più deciso, col fascismo.
Mentre l’aspetto della mobilitazione della società interna da parte del colonialismo è da tempo oggetto di studio in altri paesi, in Italia si stenta ancora a fare i conti con il proprio passato coloniale. Il colonialismo è stato a lungo identificato col fascismo e dichiarato morto con esso. Solo in tempi recenti si sono moltiplicati gli studi sul colonialismo italiano, tanto nei suoi aspetti reali – non meno cruenti di quelli degli altri paesi europei (si pensi al filone di ricerche aperte da Del Boca negli anni ’70) – quanto nella sua “rappresentazione”. Per la ricostruzione dell’immaginario coloniale italiano gli studiosi si sono avvalsi di fonti molto diverse, dalle rappresentazioni letterarie a quelle geografiche, dagli studi etnoantropologici alle iconografie. Alcune indagini si sono concentrate sulle “esposizioni”, sia temporanee – legate a mostre o fiere nazionali – sia permanenti, conservate in collezioni private o musei aperti al pubblico, particolarmente interessanti perché rivolte ad un pubblico eterogeneo e, per alcune fasce di popolazione, unica fonte di “conoscenza” dell’Africa.
I “musei coloniali” da una parte, quelli “missionari” da un’altra, appaiono particolarmente utili a leggere in filigrana quale “idea dell’Africa” si volesse trasmettere in epoca coloniale. Ecco allora sfilare i topoi più classici: l’Africa appare “misteriosa” e “pericolosa”, abitata da popoli (“razze”) “primitivi” (“infantili”) e “selvaggi” (“aggressivi”), piena di risorse ma “bisognosa” dell’intervento eroico dei colonizzatori per “civilizzarsi”, apprendendo dai colonizzatori i rudimenti delle arti, dell’agricoltura e della vera religione.
Pur con qualche tratto non secondario di differenziazione, l’allestimento di queste due tipologie espositive appare ugualmente condizionatoe caratterizzato dal punto di vista dell’osservatore.
Una riflessione su queste tipizzazioni può aprire la strada a una necessaria riflessione sul presente. Molte di queste rappresentazioni si sono infatti cristallizzate nel nostro immaginario collettivo, complice anche la quasi totale assenza di copertura mediatica – se non quella legata ad emergenze naturali o umanitarie (l’Africa ancora e sempre “bisognosa”?) – su un intero continente, che si continua a ridurre ad un tutt’uno indistinto. Esigenza tanto più pressante ora che l’incontro con l’altro avviene quotidianamente nelle nostre classi.
Bibliografia
V. Y. Mudimbe, L’invenzione dell’Africa, Roma, Meltemi, 2007 (ed. or., 1988).
M. Caravaglios (a cura di), L’Africa ai tempi di Daniele Comboni: atti del Congresso Internazionale di Studi Africani: Roma, 19-21 novembre 1981, Roma, Istituto italo africano e Missionari Comboniani, 198-?
N. Labanca, L’Africa in vetrina. Storie di musei e di esposizioni coloniali in Italia, Paese (Treviso), Pagus edizioni, 1992
C. Pennacini (a cura di), L’Africa in Piemonte tra ‘800 e ‘900, Centro Piemontese di studi africani, 1999
E. Castelli, D. Laurenzi (a cura di), Permanenze e metamorfosi dell’immaginario coloniale in Italia, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2000
G. Albanese, Il mondo capovolto. I missionari e l’altra informazione, Torino, Einaudi, 2003
G. Romagnati (a cura di), Giovanni Miani e il contributo veneto alla conoscenza dell’Africa: atti del 27. Convegno di studi storici, Rovigo, 14-15-16 novembre 2003, Rovigo, Miscellanea, 2006
L. Ceci, Il vessillo e la croce. Colonialismo, missioni cattoliche e islam in Somalia (1903-1924), Roma, Carocci, 2006
Musei missionari, Bologna, EMI, 2007
Materiali per lo studio di caso.
Il documento 1 raccoglie diverse esemplificazioni del “racconto” sull’Africa di fine Ottocento. La rappresentazione del territorio e dei suoi abitanti appare già mitizzato (l’Africa è immensa e misteriosa, il clima inospitale, le sue popolazioni primitive e feroci). Gli accenti sono tuttavia diversi. Nel primo vi è la consapevolezza di muoversi dal proprio punto di vista verso l’ignoto (l’accenno alle leggende, il ricorso all’impersonale “si sussurra”). Nel secondo il racconto è perentorio e sottolinea l’immobilismo e la condanna all’astoricità di un intero continente, rimasto ad uno stadio primitivo. Il terzo, dovuto alla penna di un missionario, sottolinea invece la necessità in un impegno di civilizzazione e di conversione al cristianesimo da parte degli Europei.
Il documento 2 riguarda le esposizioni a tema africano in epoca fascista. Il primo è un brano di tipo storiografico, il secondo la descrizione del museo “coloniale” della Società Africana d’Italia, erede del “Club Africano” fondato a Napoli nel 1880 e fusa, nel 1929, con l’Istituto coloniale fascista di Roma.
Il documento 3 è il resoconto, apparso sulla stampa cittadina, della “Mostra missionaria” esposta a Verona nell’ambito della Fiera Agricola del 1937.
Il documento 4 è fotografico e riporta le immagini della Mostra raccontata nel documento precedente.
Il documento 5 è un articolo scritto dal giornalista italiano Jean-Léonard Touadi, secondo politico di colore ad essere stato eletto nel nostro Parlamento, che invita a superare gli stereotipi e a guardare all’Africa (o, meglio, alle Afriche) nella sua realtà storica attuale.
Testo per gli allievi
L’invenzione dell’Africa
Le zone costiere dell’Africa sono ben note alle popolazioni che si affacciano sul Mediterraneo sin dall’antichità. A più riprese popolazioni non originarie di quel continente vi hanno fondato colonie e stabilito dominazioni. La penetrazione verso l’interno viene tuttavia a lungo arrestata dalla presenza del deserto. Anche dopo l’apertura della navigazione atlantica, l’interesse degli Europei verso il continente africano si concentra sui porti e sugli insediamenti costieri. èsolo nel corso del XIX secolo che in Europa si accende l’interesse verso l’Africa. Per le nazioni già industrializzate, la ricerca di materie prime è fondamentale per lo sviluppo del proprio apparato economico. La corsa ad una vera e propria spartizione dell’Africa accelera nella seconda metà dell’Ottocento. La colonizzazione viene giustificata con una presunta “missione civilizzatrice” dell’Europa verso i popoli africani. La conquista armata viene anticipata dalle spedizioni di esploratori, missionari, archeologi, antropologi, che raccontano di immensi e misteriosi territori, abitati da persone “primitive”, incapaci di sfruttare la terra, in attesa di essere liberate dalla schiavitù (la tratta di esseri umani era ancora in uso), dall’ignoranza e dalle false credenze religiose. I racconti di viaggio sono accompagnati da illustrazioni, carte geografiche, ma anche dagli oggetti più svariati e, più tardi, da fotografie.
L’esplorazione e la conquista del continente avrebbero dovuto portare alla diffusione della sua conoscenza. Gli studiosi hanno invece scoperto che, a mano a mano che la colonizzazione procede, l’Africa viene raccontata in modo sempre meno preciso, che deve continuare ad essere pensata come una terra immobile, selvaggia, bisognosa di aiuto proprio per giustificare la sua occupazione.
L’Italia si inserisce nella conquista coloniale più tardi degli altri paesi europei, ma anche qui c’è bisogno di giustificare l’intervento in Africa. Succede così chefra fine Ottocento e primi decenni del Novecento, le immagini, i reperti, gli oggetti che giungono dal continente africano vengano organizzati in esposizioni e in musei che non hanno tanto lo scopo di documentare la realtà africana, quanto di dare legittimazione scientifica alla superiorità della razza europea (come nei nascenti musei antropologici), o di fornire uno sfondo alle gesta eroiche dei soldati o dei missionari italiani (come nei musei coloniali o nei musei missionari). L’Africa mostrata in queste esposizioni è un’Africa “inventata” da noi, che conviene conoscere per prendere coscienza di quante e quali di queste invenzioni si sono nel tempo solidificate in stereotipi, ancora presenti nel nostro immaginario collettivo.
Dossier
Documento 1
“Dove andiamo? Nessuno di noi lo saprebbe dire. Al Congo! Ma chi lo conosce? Qualcosa di nebuloso e lontano lontano, studiato sulle carte a scuola; un territorio immenso, bianco di nomi, solcato da fiumi misteriosi senza sorgente, su cui corrono le leggende più fantasiose e tenebrose. Si sussurra di foreste impenetrabili e micidiali, di malattie che portano all’altro mondo in ventiquattro ore, di belve e mandrie intere, di indigeni ferocissimi che si divorano tra loro quando non riserbano questa sorte al bianco”
C. Cavalli, Più neri di prima. Colonizzazione e schiavitù in Congo nel diario di viaggio di un italiano agli inizi del Novecento, a cura di F. Surdich, Reggio Emilia, 1995, pp. 47-48
“ Ora si sa che fra le sue montagne si trovano territori incantevoli, regioni prodigiose di bellezza e di feracità, nelle quali vive ancora la più feroce razza che il sole abbia mai annerito. Una feudalità primitiva vi sminuzza l’impero in minime tirannie di tribù, una sanguinosa incoscienza vi fa della guerra l’unica industria e della strage il supremo divertimento; vi si incontrano ancora monumenti di teschi, e vie segnate da ossa […] Per quest’Africa tutto quanto avvenne nella storia del mondo è come non sia mai avvenuto: la sua vita è ancora nel sole che brucia il sangue e dissecca nell’anima ogni sentimento; il popolo, che vi cresce nudo come i deserti e con una coscienza ugualmente arida, vi è la fiera più crudele della sua fauna. Quanti milardi di vittime in quante migliaia di anni ha consumato questa preistoria africana, che immobile nelle proprie idee sedimentarie si ripete colla disperata monotonia di un vagito e di un rantolo, di un bambino che nasce e di un uomo che muore?”
A. Oriani, La lotta politica in Italia. Origini della lotta attuale, 1476-1887, Firenze, 1013, III, pp. 339-340. Entrambe le citazioni sono ricavate da F. Surdich, La scoperta dell’Africa e i suoi riflessi nell’immaginario collettivo europeo del XIX secolo, in G. Romagnati (a cura di), Giovanni Miani e il contributo veneto alla conoscenza dell’Africa: atti del 27. Convegno di studi storici, Rovigo, 14-15-16 novembre 2003, Rovigo, Miscellanea, 2006, pp. 17 e 23).
“Un buio misterioso ricopre anche oggidì quelle remote contrade, che l’Africa nella sua vasta estensione racchiude. È bensì vero, che a squarciare un istante il denso velo, trasportando colà una scintilla di quell’incivilimento onde tanto si gloria la moderna società europea, furono diretti gli sforzi di governi civili e di private istituzioni: ma davanti all’insuperabile barriera, con cui par che natura sia concorsa a separare quell’inospite suolo dalla coltura del rimanente globo, tornarono vani tutti gli sforzi di tanti generosi, e senza alcun risultato, i più grandi loro sacrifizi. Provocate dall’idea di costringere anche in quelle sterminate regioni la natura a schiudere i vergini tesori delle immense sue produzioni al beneficio dell’umana famiglia, varie furono ad epoche diverse le spedizioni che si intrapresero, affine di raggiungere il sospirato effetto: ma i rischi d’ogni maniera e gli scogli insormontabili, a cui dovettero rompere gl’innumerevoli conati di quei magnanimi eroi, ne sgominarono le forze, e gettarono lo scoraggiamento, che li arrestò nel loro cammino.
Sennonché il cattolico, avvezzo a giudicare delle cose col lume che gli piove dall’alto, guardò l’Africa non attraverso il miserabile prisma degli umani interessi, ma al puro raggio della sua Fede; e scorse colà una miriade infinita di fratelli appartenenti alla sua stessa famiglia, aventi un comun Padre su in cielo, incurvati e gementi sotto il giogo di Satana in sull’orlo del più orrendo precipizio”.
Daniele Comboni, Piano per la rigenerazione dell’Africa proposto da Don Daniele Comboni Missionario Apostolico dell’Africa Centrale Superiore degli Istituti dei Negri In Egitto, Verona, Tipografia Vescovile di A. Merlo, 1871.
Documento 2
“[…] l’importanza dei musei e soprattutto delle esposizioni coloniali non deve essere sottovalutata: […] per molti italiani essi rappresentarono l’unica occasione di “avvicinare” l’Africa, un’occasione assai più coinvolgente di ogni conoscenze libresca o pubblicistica.Da un lato, nelle esposizioni coloniali, a metà strada fra atlante e circo, il complesso mondo africano si risolveva in un’emozione. L’Africa, la colonia, era ridotta a villaggio: a quel villaggio artificialmente ricostruito e “inventato”, spostando e “deportando” nelle piazze d’Italia immagini, oggetti, prodotti, uomini e donne, faune e flore. La conoscenza, mediata, si univa al senso di dominio: erano le mostre delle colonie italiane. Dall’altro lato, nei musei del tempo delle colonie, il visitatore imparava. In quelli più propriamente coloniali, imparava date e obiettivi delle conquiste. In quelli istituzionali, tra cui i musei militari, le celebrava. In quelli scientifici o universitari apprendeva la “storia naturale dell’Uomo”, che inchiodava i “selvaggi” ai gradini più bassi dell’evoluzione.Intellettuali e politici, funzionari e pubblicisti, militari e civili lavorarono quindi perché l’italiano fosse convinto della propria superiorità coloniale”
Nicola Labanca, L’Africa in vetrina. Storie di musei e di esposizioni coloniali in Italia, Paese (Treviso), Pagus edizioni, 1992, p. 3
“Ma percorriamo con attenzione le varie sale: ecco il piccolo museo coloniale, piccolo eppur quanto prezioso! Qui barbare zagaglie, acuminati pugnali, vecchie armi da fuoco ed esemplari tipici della fauna africana, si fondono in un armonico senso esotico. […] Armi rozze e barbare, cimeli venerandi, vecchie fotografie ingiallite dal tempo. […] morbide pelli di felini ravvivano le bianche pareti solcate dai trofei selvaggi di lance, pugnali ecc. […] Passiamo al museo merceologico, non senza aver contemplato la piroga indigena donate da Georg Zenker dopo i suoi viaggi nel Gabon e nella Guinea. Tutti i prodotti africani sono catalogati ed esposti con la massima cura. Osserviamo anche tipici esemplari dell’arte e dell’industria indigena”
G. Fenin, La Società Africana d’Italia, in “Africa Italiana”, 6, aprile 1941,pp. 25-29
(citazione tratta da E. Castelli, Dal collezionismo etnografico al museo di propaganda. La parabola del museo coloniale in Italia, in Nicola Labanca, L’Africa in vetrina. Storie di musei e di esposizioni coloniali in Italia, Paese (Treviso), Pagus edizioni, 1992, pp. 113-114, n. 17).
Documento 3
“La Mostra Missionaria della Fiera, ben curata nel padiglione “Cruce et aratro” ha avuto e continua ad avere il più lusinghiero successo. […] Le giornate di domenica e di lunedì hanno segnato un plebiscito di ammirazione da parte di qualsiasi genere di visitatori e di alte autorità cittadine ed hanno fatto registrate un concorso sorprendente di popolo. Ciò prova quanta seduzione eserciti ancora su tutti l’Africa misteriosa e quanto sia seguita l’opera svolta dai nostri Missionari tra le tribù barbare del centro africano.Certo, per molti la constatazione di quanto è stato operato dall’Istituto Missionario cittadino a beneficio delle popolazioni nere riesce una vera rivelazione: non si pensava a tanto in così breve tempo. Il cammino compiuto e le opere sviluppate sono infatti ingenti. Molto più però resta da dare. Per questo la Mostra Missionaria servirà a risvegliare nuove e più efficaci energie, e darà maggior impulso alle opere che l’Istituto Missioni Africane desidera ancora sviluppare per la gloria di Dio e per il bene della civiltà.
A proposito di Mostre Missionarie e Missioni, ieri Padre Gaetano Semini delle Missioni Africane di Verona ha illustrato all’Istituto Stimate l’opera missionaria.
Padre Semini tracciò innanzi tutto, a larghe linee, un quadro […] delle condizioni religiose, morali e sociali del popolo nero fino alla seconda metà del secolo scorso. L’oratore ebbe pure larghi accenni all’Etiopia, dove la S. Sede affidava, lo scorso anno, alle Missioni Africane di Verona una vasta zona della provincia dell’Amhara con centro irradiatore a Gordan. Mise in luce l’opera eroica di illustri missionari italiani […] che hanno maturato i gloriosi destini dell’Italia cristiana e imperiale in un vasto lembo del Continente nero [e] illustrò particolarmente la figura e l’opera di mons. Comboni […]. Oggi le Missioni Cattoliche italiane in queste regioni fioriscono con un attivo lusinghiero di cristianità e molteplici opere di assistenza civile: chiese, case, scuole, officine meccaniche, colonie agricole, orfanotrofi, dispensari medici ecc. hanno trasformato queste zone fino a ieri selvagge, in vere oasi d’operosità cristiana e italiana.
Dopo questa esposizione storica, l’oratore fece seguire proiezioni che mostrarono il missionario nelle sue funzioni di padre, maestro, civilizzatore e pastore tra i popoli neri, degno figlio della Chiesa e dell’Italia, di cui accresce la gloria con opere belle e con una dedizione spinta fino all’olocausto […]”
L’interesse del pubblico alle Mostre, in “L’Arena”, 10 marzo 1937, p. 3.
Documento 4
Verona, Mostra delle Missioni Africane alla 41° Fiera di Verona (7-15 marzo 1937), tratte da “Nigrizia”, a. 18, n. 9 (settembre 2000), p. 29 e “Strenna 1938 delle missioni africane. Supplemento a “La Nigrizia””, novembre 1937)
Documento 5
“In apertura della sua recente raccolta di reportage Ebano (Feltrinelli), Ryszard Kapuscinski si chiede se l’Africa esista davvero. Da attento osservatore qual egli è […] avrà notato il crescente desiderio degli stessi africani di sottolineare la propria appartenenza non a un’entità indistinta, uniforme e statica denominate Africa, ma ad un contesto specifico, geograficamente delimitato e fortemente connotato dal punto di vista della cultura. Eppure c’è in questo interrogativo legittimo del giornalista polacco qualche cosa di sospetto agli occhi di un africano. Chi oserebbe porre lo stesso interrogativo a proposito dell’Europa che sappiamo tutti assolutamente diversa, sotto ogni profilo, dall’Atlanticoagli Urali?
La domanda “se l’Africa esista davvero” e la risposta perentoria – “l’Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere. è un oceano, un pianeta a sè stante, un cosmo vario e ricchissimo. è solo per semplificare e per purà comodità che lo chiamiamo Africa. A parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste” – partecipa di un sentire e di un pensare comune sull’Africa che la pone come entità a sè, fuori della storia dei popoli, terra rimasta “di tenebra”.
Il campo rimane così aperto a tutte le elaborazioni soggettive, alle elucubrazioni fantasiose mirate a soddisfare il “nostro” (europeo) insaziabile gusto dell’esotico grazie al quale abbiamo a disposizione un Altro, radicalmente Altro, che ci rimanda attraverso la sua Alterità – già identificata nel passato come superiorità – l’immagine della “nostra” superiorità […].
Dietro la domanda “se l’Africa esista davvero”, si cela l’angoscia di una risposta negativa. Poiché l’Africa è un’esigenza espistemologica ed esistenziale insostituibile per l’inconscio collettivo dell’Europa. Se davvero non esiste nulla di simile, occorrerebbe inventarlo.
La sedimentazione nel corso dei secoli di questo approccio atipico ha creato un sapere distorto, una conoscenza statica, dogmatica, che ha collocato a lungo le culture e i popoli africani nel campo dell’insignificanza storica e dell’inconsistenza culturale.
è tempo di ricollocare l’Africa nel concerto della storia del mondo. Perché l’Africa non esiste in quanto entità astratta. Né, tanto meno, come forzatura storica. […]
Scegliere di abbandonare l’Africa misteriosa per conoscere le Afriche nel loro desiderio di unità significa compiere una rivoluzione mentale che è solo all’inizio.
J.L. Touadi, Non abita qui, in “Nigrizia”, a. 118, n. 9, settembre 2000, p. 28.
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laboratorio
Rapporto tra tema e contesto
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Cerca in un Atlante storico le cartografie (ricorda che sono anch’esse “rappresentazioni”) relative all’Africa. Individua i momenti in cui appare e fissane i riferimenti cronologici.
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Individua le aree di colonizzazione dei diversi paesi europei nel corso del XIX e XX secolo. Individua i momenti più significativi .
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Costruisci una linea del tempo su cui fissare i riferimenti cronologici che hai trovato.
Rapporto tra testo espositivo e documenti
Leggi con attenzione le citazioni del documento 1. Ciascuna di esse sostiene qualche affermazione del testo introduttivo. Trova i collegamenti. Fai lo stesso per gli altri documenti scritti.
Lavoro sui documenti
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Nei documenti 1 e 3 trova le parole che si riferiscono al territorio africano e ai suoi abitanti. Fai un elenco dei termini e degli aggettivi che vengono utilizzati.
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Trova dei titoletti per le citazioni riportate nei vari documenti.
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Il documento 3 è la descrizione dell’esposizione di cui puoi vedere qualche immagine nel documento 4. Collega le parti del testo con le immagini che, secondo te, più lo rappresentano. Scrivi delledidascalieperuna o più immagini a tua scelta.
Integrazione del testo
Individua nei documenti le informazioni aggiuntive rispetto al testo espositivo:
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integra il testo con qualche notizia in più, oppure
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scrivi delle note che riportino le informazioni aggiuntive