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Auschwitz e i limiti della rappresentazione. Un percorso tra storia e arte

Abstract

Due cicli di Gerhard Richter sfidano le possibilità della fotografia di rappresentare l’orrore di Auschwitz.

Rappresentare l’orrore

Partendo da alcune considerazioni sull’origine del concetto di rappresentazione, ci s’interroga sui motivi che, fin dagli anni ‘50 del secolo scorso, hanno condotto a un acceso dibattito sulla possibilità di rappresentare in ambito estetico lo sterminio degli ebrei d’Europa. In tale contesto vengono analizzate soprattutto le due posizioni che hanno maggiormente insistito, anche se in maniera diametralmente opposta, sulle aporie e i limiti di una tale rappresentazione: la prima si può ricondurre alla famosa affermazione di Adorno “Dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia”, e la seconda all’osservazione di J.-L. Godard che ha sottolineato come nel Novecento, primo secolo integralmente riprodotto in immagini, ciò che manca sono proprio le immagini di quanto è accaduto all’interno delle camere a gas. L’affermazione di Adorno assume una nuova luce se viene confrontata con la teoria della mimesis esposta nel capitolo 4 della Poetica di Aristotele che, per primo, ha individuato la capacità dell’immagine di riconciliare il soggetto con un contenuto per così dire “perturbante”. L’osservazione di Godard viene messa, invece, a confronto con una delle contraddizioni del progetto di sterminio. Da un lato, infatti, lo sterminio avrebbe dovuto essere un crimine perfetto e quindi privo di tracce, dall’altro era dettagliatamente documentato dalle SS negli archivi fotografici dei Lager che nell’inverno 1944/45 furono distrutti quasi integralmente insieme alle camere a gas e ai crematori.

Il ciclo della Rote Armee Fraktion

All’interno di questo quadro generale che cerca in qualche modo di tracciare le condizioni e le forme possibili di quella che è stata definita la “rappresentazione dell’irrappresentabile”, la seconda parte della relazione è dedicata a un esempio particolare. Si tratta dell’analisi di due cicli di quadri del pittore tedesco Gerhard Richter (*Dresda 1932), che si è a lungo interrogato sul rapporto fra immagine fotografica e pittura.

Il primo ciclo, 18. Oktober 1977 (1988) nasce da una serie di fotografie anonime che ritraggono i cadaveri dei membri della Rote Armee Fraktion (RAF), suicidatisi nella prigione di Stuttgart-Stammheim. Con una tecnica particolare i corpi, gli oggetti e gli spazi vengono sfocati a tal punto da diventare quasi irriconoscibili (ill. 5-6-7).

Il ciclo di Birkenau

Il secondo ciclo di quadri, dal titolo Birkenau (2014), prende invece le mosse da quattro fotografie scattate da un membro del Sonderkommando del crematorio V del campo Auschwitz-Birkenau nell’agosto 1944. Due fotografie – riprese da un edificio, probabilmente il crematorio V – mostrano la cremazione di corpi gasati in una fossa ai margini di una foresta (ill. 1-2).

Le altre due foto – scattate all’aperto, mentre il fotografo corre probabilmente per sfuggire allo sguardo delle guardie – mostrano un gruppo di donne nude che vengono spinte verso la camera a gas (ill. 3- 4).

In queste opere la tecnica scelta da Richter tocca non soltanto la forma ma anche lo statuto di realtà, lo statuto per così dire ‘ontologico’ della fotografia. Sull’immagine fotografica trasferita su una tela (260 x 200 cm) viene spalmato uno strato di colore che è poi parzialmente raschiato con una spatola. Il procedimento, ripetuto varie volte con pigmenti di diversi colori, finisce per nascondere del tutto l’immagine fotografica. I quadri si presentano come una sovrapposizione di tracce di colore microscopiche e irregolari che non rappresentano più niente e nei quali soltanto il titolo fa riferimento all’immagine iniziale (ill. 8-9-10-11).

In tal modo il nome Birkenau viene reso sensibile, “visualizzato” in un palinsesto cromatico che è forse uno degli ultimi tentativi di fare ancora pittura nell’epoca della riproducibilità tecnica compiuta. Il quadro è la presentazione di un tessuto infinito di singolarità, di tracce e macchie di colore che evocano qualcosa come un’immanenza assoluta, e con un termine di Gilles Deleuze, si potrebbe parlare qui di un’immagine-affetto puro. Nella misura in cui l’opera porta come titolo il toponimo di un campo nazista, del più grande campo di sterminio nazista, essa espone l’osservatore alla compresenza di quel nome e di quell’affetto puro, inqualificabile, non interpretabile.

Elenco delle illustrazioni

1 e 2 Anonimo (membro del Sonderkommando), Cremazione di corpi gasati all’aria aperta davanti alla camera a gas del crematorio V di Auschwitz-Birkenau.

3 e 4 Anonimo (membro del Sonderkommando), Donne spinte verso la camera a gas del crematorio V di Auschwitz-Birkenau.

5 Gerhard Richter, Uomo ucciso a colpi di pistola (669-1), olio su tela, 100 x 140 cm.

6 Gerhard Richter, Impiccata (668), olio su tela, 200 x 140 cm.

7 Gerhard Richter, Arresto (674-1), olio su tela, 92 x 126 cm.

8 Gerhard Richter, Birkenau (937-1), olio su tela, 200 x 260 cm.

9 Gerhard Richter, Birkenau (937-2), olio su tela, 200 x 260 cm.

10 Gerhard Richter, Birkenau (937-3), olio su tela, 200 x 260 cm.

11 Gerhard Richter, Birkenau (937-4), olio su tela, 200 x 260 cm.

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Dati articolo

Autore:
Titolo: Auschwitz e i limiti della rappresentazione. Un percorso tra storia e arte
DOI: 10.12977/nov151
Parole chiave: , ,
Numero della rivista: n. 7, febbraio 2017
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Auschwitz e i limiti della rappresentazione. Un percorso tra storia e arte, in Novecento.org, n. 7, febbraio 2017. DOI: 10.12977/nov151

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