Quando la mafia aiutò gli alleati. Storia di una diceria fortunata.
Di recente il film In guerra per amore del regista Pif, al secolo Pierfrancesco Diliberto (qui la trama in dettaglio e le informazioni relative alla produzione, ndr) ha riproposto un tema importante nel dibattito sulla divulgazione di contenuti storici, o culturali in generale: quanto della loro scientificità va sacrificata, se è poi giusto e necessario sacrificarla, per renderli accattivanti e maggiormente fruibili al grande pubblico? La questione si pone in modo particolare nella scuola, direi con una complicazione. Oggi la scuola si deve confrontare con la trasmissione di informazioni che provengono da più fonti e per lo più incontrollate, come incontrollati sono i social networks che vedono i giovani non solo nella veste dei fruitori, ma anche nella veste di comunicatori. Questo è un passaggio importante, anche nella relazione con il cinema (e la televisione), che oggi sempre più assomiglia ai social nel linguaggio e nei contenuti. Vorrei dire subito che non si tratta di emettere sentenze di condanna o esprimere nostalgie per il buon tempo andato, piuttosto di provare a capire come ci si può attrezzare per affrontare un simile problema.
Invenzioni narrative e luoghi comuni
Ma torniamo al film in questione. È la storia di un siculo americano che si innamora, riamato, di una giovane già promessa al figlio di un boss mafioso newyorkese. Per riuscire a sposare l’amata deve ottenere il consenso del padre di lei, che vive in Sicilia. Siamo nel 1943, in guerra, e l’unico modo per raggiungere la Sicilia è arruolarsi nell’esercito americano che sta approntando l’operazione Husky, come venne chiamato il poderoso sbarco in Sicilia. Così il nostro eroe si trova coinvolto nella grande storia e ancora una volta è un viaggio nel disincanto alla scoperta della mafia e del suo ruolo inquinante nella nostra società.
Un film che vorrebbe essere di impegno, ma che nel suo dispositivo narrativo si avvale della vecchia narrazione, più volte messa in crisi dalla ricerca storica che parla dell’aiuto offerto dalla mafia alle truppe americane per conquistare e ancor più per governare la Sicilia occupata. Non si tratta, dunque del ricorso a una invenzione che serva a vivificare il racconto, ma del ricorso a quello che possiamo chiamare un luogo comune abbondantemente superato dalla ricerca storica. E invece offerto come una verità consolidata e incontrovertibile anche attraverso l’esibizione di documenti a sostegno di quanto affermato.
Lucky Luciano
La parte «storica» del film prende le mosse dal ruolo giocato dal notissimo capo mafia siculo americano Lucky Luciano, che avrebbe offerto aiuto all’esercito statunitense per effettuare con maggior facilità e opportunità di riuscita l’occupazione della Sicilia. Come spesso accade, le narrazioni false hanno qualche spunto di verità.
Seguiamo i documenti: nel 1953 un’inchiesta del Congresso USA, l’inchiesta Kefauver, rese noto un preciso episodio della guerra: nel 1941 la Marina statunitense si era rivolta a Lucky Luciano per chiedergli di mobilitare i sindacati dei portuali italo – americani controllati dalla mafia, in una azione di vigilanza contro atti di sabotaggio che si verificavano nel porto di New York. Luciano, già condannato a scontare una dura pena, avrebbe offerto la collaborazione richiesta e in cambio ottenuto (come avvenne) la libertà e l’espulsione dagli Stati Uniti nel 1946.
Nella realtà le motivazioni della liberazione di Luciano appaiono meno «nobili»; e infatti, come la ricerca storica ha potuto appurare in anni recenti, la motivazione patriottica era servita a mascherare un volgare scambio elettorale. Le stesse attività di sabotaggio nel porto erano state con molta probabilità provocate dalla mafia (secondo uno schema di comportamento tipico di chi compie il danno e poi offre protezione) per ottenere il contatto con le autorità militari e giudiziarie e procedere nella trattativa[1]. Ancora meno fondate, ed escluse dalla stessa inchiesta, le ipotesi secondo cui da quel primo contatto avrebbe preso corpo il progetto di collaborazione tra mafia e autorità militari statunitensi per agevolare lo sbarco in Sicilia e per poi governarla.
Lo sbarco degli (italo) americani
Secondo la narrazione che per comodità chiamiamo «tradizionale», a cui si rifà il film, sbarcando in Sicilia gli Americani avrebbero nominato sindaci dei vari comuni moltissimi mafiosi, e ciò in base a un preciso progetto ispirato appunto da Luciano, il quale avrebbe provveduto anche a fornire le liste dei mafiosi da nominare.
Anche qui è necessario fare un riferimento al coinvolgimento degli italo americani nella vicenda. Per volontà di Roosevelt la prima ondata di attacco alle coste siciliane comprendeva molti figli di immigrati. Il motivo era molto più serio del coinvolgimento mafioso: si trattava di presentarsi con la faccia amica del paese che aveva accolto e dato speranza e avvenire ai molti disperati che nei decenni precedenti erano partiti per la Merica in cerca di fortuna. Era questa un’arma straordinaria, che si fondava su uno dei miti più importanti della modernità. L’averlo banalizzato e stravolto è davvero un peccato per uno che pensa di fare un film impegnato, con dedica a Ettore Scola. Tuttavia lo sbarco non fu cosa facile e a Gela la divisione Livorno tenne testa duramente agli americani.
“The problem of mafia in Sicily”
Pif vuole convincerci che lui ha fatto una ricerca originale e seria ed esibisce un documento alla fine del film. Si tratta del rapporto del capitano statunitense W.E. Scotten, The problem of mafia in Sicily, prodotto nell’ottobre del 1943 (quindi poche settimane dopo l’avvenuta occupazione). È un documento noto, come dirò più avanti[2].
Il documento è significativo perché mostra come per gli americani la mafia rappresentasse un problema e non una risorsa, comprese le nomine dei sindaci mafiosi. Queste non erano avvenute per volontà dei comandi americani attrezzati con fantomatiche liste fornite da Luciano, ma erano state ispirate da interlocutori locali. Il caso più noto è quello del capo mafia Calogero Vizzini di Villaba indicato dalla curia di Caltanissetta, come antico garante delle cooperative cattoliche dell’area. Molto spesso infatti sia gli Americani che gli Inglesi si rivolsero alla Chiesa e le prime autorità italiane che incontrarono furono proprio il vescovo di Caltanissetta (gli Americani) e il vescovo di Noto (gli Inglesi), rimasti al loro posto mentre tutte le autorità civili erano fuggite e in particolare chi si sentiva maggiormente compromesso con il fascismo. Quanto sostengo non equivale a formulare una qualche accusa di mafiosità alla Chiesa, piuttosto equivale a sottolineare il suo ruolo di «supplenza» (come nell’Italia medievale, per intenderci), davanti al completo disastro in cui la società regionale era precipitata con la guerra e l’occupazione. Nomine come quelle cui ho accennato costituivano un problema per il capitano Scotten e per il governo militare che l’aveva incaricato di fare l’inchiesta, poiché la presenza della mafia nelle amministrazioni favoriva l’espandersi del mercato nero, delle speculazioni illecite ai danni della popolazione e con ciò metteva in crisi l’efficienza dello stesso governo militare, che avrebbe rischiato l’insuccesso. Il che equivaleva a una battaglia perduta poiché la Sicilia era il primo lembo dell’Europa ad essere occupato e pertanto la riuscita o meno avrebbe potuto avere un peso nella propaganda.
Gli studi successivi, miei, di Lupo e infine di Manoela Patti (pubblicati da note case editrici (Einaudi, Donzelli) hanno approfondito via via la questione, dimostrando tra l’altro che gli stessi americani tentarono un contrasto significativo alla mafia. Il che non fu sufficiente a debellarla, ma si potrebbe dire che anche operazioni recenti e molto più decise, come il maxi processo voluto da Falcone e Borsellino, per quanto abbiano sconfitto ed eliminato numerosi clan mafiosi, non hanno definitivamente sconfitto la mafia
Paradigma posteroico
Se la storiografia ha sempre espresso dubbi sulla plausibilità della collaborazione mafia – servizi statunitensi nella fase precedente lo sbarco alleato, la letteratura d’inchiesta l’ha invece accolta e su di essa ha costruito un teorema che appare difficilmente scalfibile, anche davanti alle più recenti e meglio documentate ricostruzioni storiche che si avvalgono di fondi archivistici prima riservati. Il motivo di tale persistenza va cercato oggi nel ruolo preponderante che il mercato culturale svolge, con sue regole autonome, dettate dal successo di certe formule o di certe narrazioni, per la loro riconoscibilità e remuneratività. La «verità» dell’aiuto prestato dalla mafia allo sbarco americano in Sicilia è una delle narrazioni maggiormente condivise da tutti i settori politici del nostro paese, la si trova persino sulle pagine della relazione Violante sull’attività della Commissione antimafia, oltre che negli scritti di «mafiologi» di ogni tipo e nelle rivisitazioni televisive[3]. Varrebbe l’adagio degli economisti sulla moneta cattiva che scaccia quella buona.
Mafia e politica: il libro di Michele Pantaleone
Il libro che più di tutti ha contribuito a diffondere questa versione dell’aiuto mafioso allo sbarco Alleato è quello di Michele Pantaleone, Mafia e politica, noto per avere avuto il merito di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica italiana sull’incidenza del fenomeno mafioso. Si tratta davvero di un singolare caso editoriale: una storia collocata in un paesino dell’interno della Sicilia, Villalba, riguardante un notabile mafioso, Calogero Vizzini, avrebbe ottenuto notorietà e sarebbe diventata emblematica grazie alla prefazione di un grande scrittore come Carlo Levi e alla pubblicazione da Einaudi[4]. L’opinione pubblica accolse l’idea che operazioni politico militari di vasta portata come Husky e la progettazione del governo alleato d’occupazione potesse trovare uno snodo cruciale in un piccolo centro della Sicilia, ma ciò forse era inscritto in quell’aura di mistero che spesso circonda la mafia. Ma la narrazione non era nuova, piuttosto Pantaleone la riprendeva da una voce che era circolata al momento stesso dello sbarco in Sicilia, che tentava di spiegare la sconfitta con il tradimento di numerosi settori della società, delle istituzioni, delle stesse Forze Armate.
Anche questo passaggio va spiegato. Lo sbarco Alleato in Sicilia fu una operazione colossale che riunì la più grande flotta fin ora approntata per simili operazioni tanto che al suo apparire terrorizzò i difensori, i quali erano molto male in arnese in quanto ad armamenti. Tuttavia l’opinione pubblica italiana apprese con una certa sorpresa la notizia della sconfitta, che fu definitiva per l’Italia (pose fine al fascismo il 25 luglio e portò alla resa dell’8 settembre successivo). La propaganda fascista aveva descritto un paese militarmente fortissimo in grado di reggere una guerra contro le più grandi potenze del mondo di allora: l’Impero britannico, l’Unione sovietica e gli Stati uniti d’America. Contemporaneamente contro questi tre paesi: oggi, con il senno del poi, ci sembrerebbe impossibile che qualcuno abbia tentato (o anche solo potuto pensare) una simile azzardata avventura. Al momento della resa dei conti però la realtà dei rapporti di forza era prevalsa sulle fantasie, ma restava in molti quella convinzione di essere stati forti e pertanto l’unica spiegazione poteva essere il tradimento. Si accusarono ammiragli, generali, funzionari, e si evocò la mafia, male oscuro della Sicilia contro cui il fascismo aveva combattuto al tempo dell’operazione Mori.
Una diceria ricontestualizzata negli anni ‘50
Pantaleone probabilmente riprese una simile diceria e la adattò a un nuovo contesto politico della fine degli anni cinquanta. Era tra i giovani politici che avevano accompagnato la nascita dell’autonomia siciliana, deputato socialista all’Assemblea regionale aveva ricoperto ruoli importanti nella vicenda milazziana della fine degli anni cinquanta; era di Villalba, come il mafioso don Calogero Vizzini e nel settembre del 1944 si trovava accanto a Girolamo Li Causi quando su ordine di Vizzini si era scatenata la sparatoria per contrastare il comizio social – comunista. La sua era dunque l’autorevolezza del testimone, e di questo parlava Levi nella prefazione al libro. La narrazione di Pantaleone prendeva le mosse della trattativa tra Lucky Luciano e la Marina statunitense e dava una sua ricostruzione del tutto fantasiosa di quello che sarebbe stato lo sbocco: affermava Pantaleone che in segno di intesa il boss siculo -americano aveva fatto recapitare a don Calogero un foulard recante una grossa “L” ricamata al centro, lanciato da un aereo statunitense nelle campagne di Villalba, prontamente raccolto da mano amica e consegnato al destinatario[5]. Così i mafiosi avrebbero prestato collaborazione provvedendo al disarmo repentino delle truppe italiane; in seguito reggendo le amministrazioni nel novanta per cento dei comuni della provincia di Palermo.
Gli alleati e la mafia
Come ogni mito anche questo della «liberazione mafiosa» ha i suoi riscontri reali e se inizialmente esso aveva potuto trarre spunto dalla rielaborazione di illazioni formulate già nel corso della battaglia per la Sicilia in ambito fascista, per un altro verso si è alimentato dalla reale presenza di soldati italo – americani tra le truppe statunitensi al momento dell’invasione (da certa pubblicistica inopinatamente assimilati ai mafiosi). Si trattava di una precisa volontà espressa dal presidente Roosevelt che intendeva sfruttare a proprio favore l’immagine accogliente dell’America, terra del riscatto per milioni di europei venuti in cerca di fortuna negli anni della grande emigrazione a cavallo tra i due secoli XIX e XX. Questo progetto rooseveltiano si accompagnava a una visione non ancora ben definita delle strategie politiche che inglesi e americani avrebbero attuato in Sicilia al momento dell’occupazione, in qualche modo rispecchiava la convinzione, condivisa dai britannici, che per controllare e governare una società arretrata come quella siciliana non fosse necessaria una mediazione politica, ma fosse sufficiente appoggiarsi ai «prominenti» o, nella visione britannica, alle aristocrazie. Ben presto, però, furono gli stessi Alleati a scoprire quanto limitata fosse tale visione. Uno degli indicatori fu la incontrollabilità del sistema di approvvigionamento alimentare, su cui ben presto gruppi mafiosi poterono esercitare una notevole influenza. Da qui gli Alleati avviarono una vera operazione antimafia, nel tentativo di contenere il pericolo che la situazione alimentare sfuggisse loro di mano compromettendo gravemente il successo del governo d’occupazione in Sicilia[6]. E’ questo il punto di maggiore divaricazione tra storiografia e senso comune[7].
Il separatismo siciliano e la mafia
Una nuova narrazione degli eventi prese le mosse proprio all’inizio degli anni sessanta, in un contesto politico segnato da un rilancio dell’antifascismo successivo alla vicenda del luglio sessanta e, per quanto riguarda la Sicilia, dalla conclusione della crisi politica che aveva investito il governo regionale. I protagonisti sarebbero stati uomini politici e giornalisti, per lo più orientati a sinistra, che avrebbero spostato l’attenzione sul contesto regionale lasciando sempre più sullo sfondo quello nazionale. È significativa la data del 1962, con la coeva pubblicazione del libro di Zingali, così legato ancora alle vecchie tematiche, ma anche attento alla dimensione regionale, e di libri come quello di Filippo Gaia, L’esercito della lupara o come il celeberrimo Mafia e politica di Michele Pantaleone[8].
Questa narrazione fissa un nuovo orizzonte della crisi bellica nella nascita della Regione a statuto speciale, proposta come un processo parallelo a quello che nel Nord porta dalla Resistenza alla Costituzione repubblicana. Nuovi soggetti di questa storia sono i partiti politici antifascisti di dimensione nazionale, principalmente la Democrazia cristiana, il Partito comunista e il Partito socialista, la cui legittimazione passa in Sicilia attraverso il ruolo avuto nella progettazione dell’Ente regionale, nel difficile contenimento della protesta separatista manifestatasi nella crisi del 1943, nel drammatico processo di radicamento sociale avvenuto in presenza di virulente forme di banditismo e di ancor più pericolose manifestazioni di rinascita mafiosa. L’evidenza della arretratezza delle strutture sociali ed economiche isolane che riemergeva dalle macerie della guerra e dal dissolvimento del regime monarchico–fascista avrebbe provocato reazioni differenti negli attori presenti sulla scena del precoce dopoguerra siciliano e una gamma nuova di rappresentazioni.
Prima ancora della esplosione separatista, però, è la vicenda mafiosa e banditesca che attira l’attenzione e suscita il dibatto.
Le indagini sulla mafia, italiane e americane
All’inizio degli anni sessanta, quando questa letteratura comincia a sottrarre lo spazio editoriale a quella di matrice neofascista e militare la vicenda separatista sembra ormai un ricordo sfocato, riassorbito dal sistema politico nazionale postquarantottesco; invece è ancora viva la questione mafiosa con gli strascichi processuali delle vicende degli anni quaranta (in primis l’attentato di Villalba del settembre 1944 e la strage di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947) e con la interminabile scia di assassinii compiuti a danno di dirigenti sindacali e politici della sinistra siciliana. Si tratta di una sanguinosa linea di continuità che porta alle manifestazioni mafiose più spettacolari, come la guerra di mafia a Corleone della fine degli anni cinquanta, l’attentato dinamitardo al quotidiano palermitano «l’Ora» (19 ottobre 1958) e la successiva guerra che ha per teatro la città di Palermo. Vacilla il fronte negazionista, molto accreditato presso l’opinione moderata, messo in crisi dalla virulenza di una mafia non più solo relegata negli ambiti rurali così come era stata descritta negli anni quaranta. Riprende quota la proposta a lungo coltivata da esponenti della sinistra socialista, ex azionista e comunista di istituire una commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso. Il problema della criminalità mafiosa, a lungo tenuto sotto traccia, se non addirittura negato, dalle autorità italiane veniva affermato da una inchiesta del senato statunitense[9]; una circostanza la cui importanza non può sfuggire se si pensa che il blocco politico – mafioso che si era consolidato nel dopoguerra portava un chiaro segno moderato e anti comunista, rimarcato con la ferocia di numerose uccisioni sempre e solo di militanti sindacali e politici di sinistra.
Note:
[1] S. Lupo, Quando la mafia trovò l’America, Einaudi, Torino 2008, p.138 e segg.; M. Patti, La Sicilia e gli Alleati. Tra occupazione e liberazione, Donzelli, Roma 2013. Ma anche la testimonianza di un protagonista come M. Corvo, The OSS in Italy. 1942 – 1945, New York, 1990 ( trad. it. La campagna d’Italia dei servizi segreti americani. 1942 – 1945, Gorizia, 2006).
[2] L’ultima volta era stato pubblicato su “Repubblica” di un paio anni fa, ripreso da una mia vecchia pubblicazione (“Annali della Facoltà di Scienze Politiche”, 1980) e poi utilizzato ancora da me e da altri studiosi. Nel 2013 un grande convegno internazionale a Palermo si è occupato dell’argomento, gli atti sono pubblicati sulla rivista “Meridiana”.
[3] Commissione parlamentare antimafia, Mafia e politica. Relazione del 6 aprile1993, Bari Roma, 1993, pp. 72 -3. Un esempio di giornalista avvertito che soggiace a simili leggende è E. Deaglio, Riecco i misteri d’Italia. Che cosa speriamo do trovare negli scatoloni desecretati, in «Il Venerdì di Repubblica», 9 maggio, 2014, pp. 50 1. Di recente, dimostrano la stessa disinvolta mancanza di acribia opere che si presentano con un carattere scientifico: E. Felice, Perché il sud è rimasto indietro, il Mulino, Bologna 2013. J. de Saint Victor, Patti scellerati. Una storia politica della mafia in Europa, UTET, Milano 2013
[4]R. Mangiameli, La mafia tra stereotipo e storia, Sciascia, Caltanissetta – Roma 2000.
[5] Il racconto si inscrive in una logica fazionaria che attraversava la politica paesana ed è contraddetto dalla ricostruzione offerta in un’opera di storia municipale molto accurata, ma priva di appeal mediatico, composta da un irriducibile avversario politico del Pantaleone, il sindaco comunista di Villalba L. Lumia, Villalba storia e memoria, Lussografica, Caltanissetta, 1990, 2 voll. Cfr.R. Mangiameli, Mafia e storia. A proposito di legalità e cittadinanza, in Rappresentazioni e immagini della Sicilia tra storia e storiografia, a cura di F. Benigno e C. Torrisi, Caltanissetta – Roma 2003, pp.107 – 130.
[6] Su tutta la questione è disponibile ora una documentata storiografia che prende le mosse dalla pubblicazione di un documento compilato da un ufficiale americano, il maggiore William E. Scotten, The problem of mafia in Sicily (oct., 29th, 1943), integralmente pubblicato in R. Mangiameli, Le allegorie del buongoverno, «Annali ‘80» del Dipartimento storico della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Catania,1981. Cfr anche Mangiameli, La Regione in guerra, cit.; l’introduzione di R.M. a FO, Sicily Zone Handbook cit., e Patti, La Sicilia e gli Alleaticit, passim.
[7] F. Renda, Storia della mafia, Palermo, 1997, p. 227 traccia uno spartiacque e riferendosi polemicamente all’attività della Commissione antimafia presieduta da Violante, scrive: « La Commissione [..], non ritenne di dover approfondire quel tema storico. Ne aveva tutti i mezzi e le possibilità […]. La commissione non colse quella occasione. La colsero invece i giovani storici Lupo, Mangiameli, Pezzino, Marino e chi scrive […] non risulta provata una collaborazione patteggiata tra autorità alleate e mafia».
[8] Si veda: Filippo Gaia, L’esercito della lupara, Guanda, Milano 1962 (una nuova edizione Maquis, Milano 1990, da questa traggo le citazioni); Michele Pantaleone, Mafia e politica, Einaudi, Torino 1962. Sono preceduti da Vito Sansone e Gastone Ingrascì, Sei anni di banditismo in Sicilia, Le edizioni sociali, Milano, 1950, legato però alla vicenda Giuliano e al processo di Viterbo per la strage di Portella delle ginestre del 1 maggio 1947, analogo discorso si può fare per Gavin Maxwell, Dagli amici mi guardi Iddio, Mondadori, Milano 1957 (I ed London, 1956). Del 1961 è il notevole film di Francesco Rosi, Salvatore Giuliano. Ancora negli anni sessanta con ambizioni di creare un affresco completo della Sicilia tra guerra a dopoguerra Salvo Di Matteo, Anni roventi. La Sicilia dal 1943 al 1947, Denaro, Palermo 1967 e infine l’opera di uno storico accademico: Salvatore Massimo Ganci, L’Italia antimoderata, Guanda, Parma, 1968.
[9] E. Kefauver, Il gangsterismo in America, Einaudi, Torino 1953. L’eco della pubblicistica americana sulla mafia veniva colta prontamente a sinistra con la pubblicazione di E. Reid, La mafia, Prefazione di P. Calamandrei, Parenti, Firenze 1956, cfr. la recensione di F. Renda, Un libro sulla mafia negli USA, in «Cronache meridionali», 1, 1956, ora in Id, La Sicilia degli anni ‘50. Studi e testimonianze, Guida, Napoli, 1987, pp. 403 -8.