Analogie asimmetriche
Il rapporto tra Lager e Gulag sul piano comparativo ed in una dimensione storica e storiografica
Abstract
In dodici punti si presentano le essenzialità dei due universi concentrazionari, quello nazista e quello sovietico, spiegando le analogie e le differenze. Si mostra la differenza, inoltre, fra il modo di confrontare tipico di una storia pubblica del dopoguerra, molto legato alla dimostrazione della perversità del campo politico avversario, e quello odierno, più attento alle esigenze della conoscenza.
1. Le premesse
Il rapporto comparativo tra il sistema concentrazionario nazista, al quale viene collegato anche il circuito dei campi di sterminio propriamente intesi, operanti tra la fine del 1941 e l’autunno del 1944 con l’obiettivo di distruggere le comunità ebraiche europee, e l’arcipelago Gulag rimanda non tanto ad uno sforzo storiografico in senso stretto quanto e soprattutto ad esigenze al medesimo tempo di ordine politico così come di public history. Nel primo caso, sovente vi è ancora l’aspettativa che i due universi concentrazionari vengano associati in una comune condanna, legittimando in tale modo l’idea che nazismo e comunismo siano di fatto regimi omologhi (o comunque omologabili). Nel secondo caso l’impatto dei “totalitarismi”, in quanto categoria euristica alla luce della quale leggere a rovescio le virtù della liberaldemocrazia, ha avuto molti effetti, non da ultimo quello di interrogarsi su una diversa periodizzazione del secolo da poco trascorso. Rimane il fatto che la radicalità criminale dei sistemi segregazionisti di massa, se letta con la dovuta attenzione e con gli strumenti storicizzanti e contestualizzanti che dovrebbero appartenere a chiunque li intenda capire fino in fondo, ci restituisce la complessità di una serie di categorie dicotomiche a tutt’oggi coesistenti: il rapporto problematico tra uguaglianza (dei diritti) e uniformità (delle identità); l’agire persecutorio nei confronti delle minoranze per garantirsi il governo della maggioranza; l’enfatizzazione della differenza come strumento per mettere in circuito la diffidenza e il sospetto; la traduzione di queste ultime da elementi di percezione dell’altrui alterità a mezzo per stigmatizzarne la vocazione ad una pericolosa alterazione, alla quale contrapporre misure di igiene sociale come l’isolamento; la dialettica tra confine identitario e il timore della contaminazione (l’”invasione”), a partire dalla quale praticare la contenzione coatta e ciò che da essa può derivante laddove si produca un effetto di disumanizzazione di coloro che ne sono destinatari.
2. Nazionalizzare le masse
La somma di tutto questo, e di altro ancora, continua a ruotare intorno alle pratiche di inclusione e di esclusione dei sistemi di Welfare e, con essi, di riconoscimento sociale. Il nodo è la cittadinanza sociale. Se si parte da questo frame allora si possono identificare criticamente alcuni nessi di fondo nella vicenda dello Stato moderno, senza leggere da subito il totalitarismo come un’eccezione assoluta, pur costituendo comunque una tipologia di organizzazione politica e sociale a sé stante. Il totalitarismo, in altre parole, riprende e ridefinisce i termini della questione legata ai percorsi di nazionalizzazione delle masse, con tutti gli elementi di corredo che ad esso si riconnettono. Affinché la riflessione sia proficua bisogna allora riflettere su coppie dialettiche come consenso e terrore nella costruzione e nel mantenimento di un regime politico; sulla relazione irrisolta tra libertà e ricerca di protezione, quest’ultima intesa essenzialmente come un rigido spazio vincolato di riconoscimento sociale, effettivamente attivato dalle pubbliche amministrazioni; sulla dinamica tra insider e outsider nell’omogeneizzazione dell’identità collettiva e nella definizione dell’appartenenza nazionale; sul rapporto tra centro (politico) e periferie (sociali). A quest’ordine di riflessioni si ricollegano poi questioni capitali, che attraversano il Novecento, le quali rimandano al lascito dei brutali processi di colonizzazione dell’Africa “europea”: soprattutto, la biologizzazione razzista dei legami sociali e la politica come “tecnica” neutra di gestione dei processi collettivi e dei mutamenti di lunga durata.
3. Una ambigua modernizzazione
L’arcipelago Gulag e l’universo Lager, se di essi se ne vuole fare una disamina analitica, si inscrivono dentro questi trend di lungo respiro storico. Sono di buon grado aspetti che chiamano in causa il governo delle comunità nazionali, o di parti di esse, nel momento in cui il potere politico si qualifica come nuovo, ossia ispirato a principi rigenerativi della società. È aspetto tipico di élite che ambiscono ad una funzione modernizzante, rompendo con il vecchio patto sociale che aveva garantito equilibri di ruoli e di condotte all’interno di una cornice di consuetudini e di prevedibilità ora venute meno. In genere i tratti comuni di regimi che ricorrono alla detenzione extra-giudiziali e alla persecuzione (fino all’annientamento) dei gruppi target (non necessariamente minoranze nazionali o sociali), sono accomunati dalla sospensione dello stato di diritto, sostituito dal “diritto dell’emergenza permanente”, dettato dalla minaccia incombente di un nemico “interno” da stigmatizzare e sopprimere; dall’alimentare una condizione di incertezza persistente nei confronti di coloro che identificano come propri avversari; dal raggiungere tale obiettivo ricorrendo a ciò che è definito come “doppio Stato”, ossia la coesistenza, al medesimo tempo, di un legittimo potere normativo insieme a prassi in totale deroga alle disposizioni legali, così come con la sostituzione dell’autonomo atto amministrativo (arbitrio coercitivo) alla potestà delle leggi (tutela). Più in generale, questi fenomeni non afferiscono solo alla sfera del politico e del giurisdizionale, chiamando semmai in causa percorsi storici dove alla mobilità sociale, altrimenti bloccata, intervengono e si sostituiscono fattori di mobilitazione “totale” della comunità nazionale, che viene raccolta intorno ad un progetto di nuova “omogeneizzazione” della propria identità frammentata. Le leadership modernizzati si presentano allora in tale chiave, assumendo la parte di demiurghi di un percorso di redenzione collettiva. La vicenda dell’organizzazione e della gestione del genocidio armeno, tra il 1915 e il 1916, da parte dei “Giovani turchi”, anticipa e collauda una prassi che si ripeterà nel corso del tempo in contesti anche molto diversi.
4. Il sistema Gulag
Da ciò derivano anche fattori in parte comune tra le diverse esperienze storiche dei sistemi concentrazionari. Soprattutto, il lavoro forzato come opera di “redenzione” individuale e di purificazione nazionale dalle scorie di un passato cristallizzato, così come la concezione dei campi di concentramento in quanto potenziali laboratori sociali, nei quali sperimentare, sui corpi dei prigionieri, pratiche di gestione della collettività poi riproducibili in altri contesti. Sul piano comparativo, le differenze tra Gulag sovietici e Lager nazisti sono però non meno marcate rispetto alle ricorrenze. Nella valutazione dell’arcipelago Gulag vanno da subito computati il lascito delle politiche zariste di controllo coatto di una parte della popolazione e quello della feroce guerra civile che dal 1917 al 1922 infiammò una parte dell’Unione Sovietica. A ciò si aggiungono le questioni del trattamento della dissidenza politica, prima quella anticomunista e poi quella interna al partito comunista, fino alla disarticolazione delle componenti sociali che non fossero risultate in linea con i processi di industrializzazione forzata e di centralizzazione del comando politico nell’età di Stalin. Il sistema dei Gulag, da questo punto di vista, risponde al principio di mantenere in azione permanente un’intera collettività, coordinandone le condotte secondo un presupposto anche economico, dove l’utopia di una integrale colonizzazione dell’Est siberiano avrebbe garantito il pieno controllo politico dello spazio sovietico. Le politiche contro il Partito rispondevano ad un doppio movimento: centrifugo ai livelli intermedi, sottoposti ad una permanente valutazione di merito, con la spasmodica richiesta di aderire alle costanti sollecitazioni ad un modello di militanza inteso come fedeltà assoluta al gruppo dirigente, e centripeto ai livelli superiori, garantendo la selezione del personale politico in base alle esigenze e alle circostanze del momento.
5. Dentro i Lager
Nella traiettoria dell’universo concentrazionario nazista, dal 1933 al 1945, entrano in gioco considerazioni di ordine funzionale e strutturale. Riguardano il numero dei prigionieri, il loro trattamento, le categorie perseguitate, l’adattamento plastico del “modello Lager” alle esigenze mutevoli della politica del regime nazista, insieme al passaggio dal ricorso alla segregazione assoluta (rivolta prevalentemente contro gli oppositori politici) alla persecuzione sistematica di radice razzista, a partire dagli ebrei. Il passo successivo ed ultimativo fu la costituzione dei “campi di sterminio”, tali perché utilizzati esclusivamente per eliminare i corpi, senza trattenere nessun prigioniero al di fuori della piccola componente necessaria a garantire il funzionamento della macchina della morte. Sul piano didattico, è quindi bene non usare il “paradigma Shoah” come elemento esclusivo ma sempre e comunque in chiave comparativa (dove alla specificità dello sterminio sistematico su motivazioni razziali si coniugava la sua modernità tecnologica), per ragionare sui nessi tra vicende storiche diverse senza tradurle in immediate analogie. In altre parole, la specificità di quel sistema di annientamento si deve incontrare con la sua contestualizzazione e storicizzazione. Da questo punto di vista, infatti, la storia non si ripete mai ma presenta senz’altro alcuni “assi di persistenza”.
6. Analogie e differenze
Poste queste premesse, dove si incontrano e in cosa si differenziano nazionalsocialismo e stalinismo? Cosa fa uguali e allo stesso tempo diversi i Lager e i Gulag? Per trovare delle risposte convincenti bisogna richiamarsi alla natura dei due regimi e al modo in cui le istituzioni concentrazionarie fungevano riguardo ai loro obiettivi. A partire dagli anni Trenta esse assolvevano, in un paese come nell’altro, a più funzioni fondamentali, delle quali si possono indicare elementi condivisi così come fattori di differenziazione. Il primo dato rimanda all’uso del terrore di massa fino alla soglia dello sterminio e al suo stesso superamento: nel caso tedesco si trattava del genocidio degli ebrei così come del riassetto socio-demografico dell’Europa nell’eventualità di un definitivo dominio nazista; in quello sovietico, dell’eliminazione degli oppositori politici (reali, potenziali o immaginari) e della costante pressione esercitata sugli stessi apparati politici, partitici e amministrativi che costituivano la struttura del regime, oltreché nei confronti di una società civile avvertita come tendenzialmente avversa. In questo modo, in entrambe le situazioni, si rinnovava uno stato d’incertezza che permetteva agli apparati centrali del potere di dispiegare una pratica repressiva a geometria variabile, assoggettando i subordinati ad una condizione di permanente tensione. Le differenze erano legate ai criteri di selezione delle vittime (identificate secondo un criterio prevalentemente antropologico-razziale nel caso tedesco, più sociopolitico nell’Unione Sovietica bolscevica e poi staliniana) come alle funzioni degli apparati repressivi (perlopiù coordinate in Germania, maggiormente competitive tra di loro nell’Unione Sovietica).
7. Il nemico
Vi era un obiettivo comune, tuttavia: sradicare integralmente un “nemico” concepito come fonte di tutti i mali, una sorta di figura mitologizzata alla quale si attribuivano una congerie di responsabilità e colpe, mondate le quali l’armonia avrebbe regnato sull’intera comunità di stirpe o di classe. Palese è tale funzione per parte della categoria dell’«ebreo» negli anni Trenta e Quaranta; fatte le debite differenze, sul piano dei comportamenti, è il ruolo giocato anche dal “nemico oggettivo” in Unione Sovietica – così definito, di volta in volta, per appartenenza di classe o censo, per status socioculturale, per la stessa militanza “deviante” all’interno del partito. A ciò si legava l’adozione e la diffusione capillare del lavoro forzato come elemento insostituibile nella realizzazione di un’economia di forte mobilitazione delle risorse e di produzione intensiva ed estensiva, capace di far fronte a piani di sviluppo elefantiaci e spasmodicamente orientati verso mete sempre più ampie e ambiziose. Nel caso della Germania la svolta in tal senso si ha tra l’inverno del 1941 e la primavera dell’anno seguente, quando la guerra si fa progressivamente totale, richiedendo una quantità sempre maggiore di uomini e risorse; nella vicenda sovietica già la collettivizzazione forzata delle campagne, da un lato, e la creazione di un sistema capillare di opere pubbliche tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, dall’altro, avevano concorso a creare le premesse per l’indirizzo “produttivistico” del circuito concentrazionario. In sostanza, sorvegliare, punire e produrre fino alla morte.
8. Convincimenti e annientamento
Un altro fattore comparativo rinvia alla concreta diffusione di un articolato sistema di convincimenti sociali – rodato attraverso un ampio corredo di istituti e dispositivi organizzativi e socioculturali preposti ad hoc – in virtù dei quali potevano diffondersi e legittimarsi quelle prassi che derivavano dal convincimento che per risolvere un problema comune si dovesse procedere all’eliminazione fisica di quanti ne rappresentavano la manifestazione personificata. In altri termini: se una “classe” di individui era reputata un ostacolo per il raggiungimento di un certo obiettivo si ricorreva alla sua decimazione. Questione che rimanda al destino dei prigionieri, distinto, in questo caso, a seconda dei due regimi. Nei Lager, sia pure con alcune eccezioni per determinate categorie, si entrava per non uscirne più. Nel caso degli ebrei l’obiettivo era la loro eliminazione totale e definitiva; per gli altri deportati sussistevano condizioni variabili, legate allo status rivestito nella scala sociale interna al luogo di concentramento, che dettavano i criteri e i modi del trattamento così come della durata media dei tempi medi di sopravvivenza. I sopravvissuti furono, nella quasi totalità dei casi, donne e uomini liberati dall’avanzata degli alleati e dei russi. Nei Gulag le cose seguivano logiche relativamente diverse: la stratificazione sociale vi era presente ma non riproduceva necessariamente quei criteri di appartenenza attraverso i quali gli individui d’abitudine si definivano, o venivano definiti, precedentemente all’arresto e all’internamento. Al medesimo tempo si può dire delle differenze concernenti l’estinzione dei due circuiti: per atto di forza da parte delle potenze in lotta contro la Germania, attraverso l’occupazione dei suoi territori e la chiusura delle installazioni ancora esistenti; per progressiva liberazione da parte delle stesse autorità sovietiche, con l’avvio del processo di destalinizzazione nel 1954.
9. Moventi
Sussiste poi l’aspetto della differenza riguardo ai moventi sulla scorta dei quali si procedette alla diffusione nei due paesi del circuito segregazionista e concentrazionario: nell’Unione Sovietica vi fu fin dall’inizio la percezione di una condizione di isolamento, dalla quale derivò una sindrome da accerchiamento. Gli oppositori, politici e sociali, assurgevano così al ruolo di “nemici del popolo”, da deportare e internare per fare fronte ad una minaccia che si esercitava attraverso la pressione sulle frontiere ma anche per mezzo di presunte infiltrazioni all’interno dello stesso corpo del partito. Il nuovo regime rivoluzionario, per sopravvivere prima, per consolidarsi poi e per procedere, infine, attraverso un percorso a tappe forzate, alla modernizzazione del paese, si ritenne obbligato, oltreché legittimato, a comprimere ogni forma di differenza non riconducibile agli imperativi dominanti. Nel caso della Germania, invece, Hitler non dovette confrontarsi con nessuna opposizione organizzata se non quella dei suoi avversari politici, che vennero però eliminati nel corso di poco tempo dal momento della sua ascesa al Cancellierato. I centri di potere tradizionali (economia, esercito, clero, amministrazioni) non manifestarono alcun concreto ostacolo. La stessa cosa può essere detta delle nazioni limitrofe che, anzi, in un primo tempo osservarono con una calcolata indifferenza i cambiamenti in corso. Da ciò la maggiore selettività nell’azione oppressiva esercitata dai nazisti e, specularmente (almeno sul piano dell’analisi), la vocazione ad una repressione più generalizzata ed indistinta perseguita dai sovietici. Le cose mutarono con l’approssimarsi e poi lo scatenarsi del Secondo conflitto mondiale. Ma era il quadro generale, a questo punto, a risultare trasformato e di molto.
10. Destinatari
È da questa differente premessa che derivano, quindi, distinte categorie di “destinatari” nell’azione repressiva e di prigionieri dei campi: la prerogativa dell’universo concentrazionario sovietico, come già si è detto, era quella di concorrere ad esercitare un’opera di epurazione della popolazione russa e degli stessi membri del partito. L’intenzione rimaneva quella di colpire, nel mucchio e con determinazione, per dare corso alla rieducazione politica o, alternativamente, alla soppressione fisica. Il lavoro coatto assurgeva quindi a momento di catarsi dell’individuo, sopravanzante gli stessi elementi di utilità che pur vi rimanevano collegati: era lo strumento di risocializzazione dell’individuo alla comunità comunista che andava affermandosi. Per il Terzo Reich la bonifica razziale era invece prioritaria rispetto a qualsiasi altra considerazione, indirizzandosi prioritariamente contro gli ebrei ma anche, in alcuni casi, contro segmenti delle popolazioni non germaniche assoggettate al dominio tedesco.
11. La violenza
Il legame del politico con la violenza segna un ulteriore elemento di distinzione se rapportato alla storia dei due paesi: in Germania il ricorso alle vie di fatto è, per il movimento nazista prima, per il regime poi, una risorsa strategica e un dato di identità che determinavano la differenza con il passato dell’età di Weimar e dell’Impero guglielmino. Ne derivò, come inevitabile conseguenza, l’immediata istituzione di luoghi di esercizio dell’arbitrio, sottratti alla giurisdizione ordinaria della magistratura, della polizia e delle amministrazioni penitenziarie. La rottura con i codici comportamentali dello stato liberale fu quindi tanto netta quanto repentina. In Russia la tradizione dei provvedimenti amministrativi – ai quali non seguiva una qualche ratifica giudiziaria – comportanti la deportazione e l’internamento in bagni penali in Siberia, così come il ricorso al lavoro coatto, erano già una costante dello zarismo. Una parte consistente dello stesso gruppo dirigente bolscevico ne fece diretta esperienza, recuperandone successivamente, una volta asceso al potere, quella che considerava esserne la dirompente efficacia. Tuttavia, il rapporto che questo intrattenne con la violenza non è del pari a quello fatto proprio dai nazisti. Se la Nsdap hitleriana fu fin dall’origine un partito rigorosamente militarizzato (emanazione delle «trincee»), la cui presenza si basava sul doppio binario della legittimazione elettorale e dell’azione armata in strada, alimentandosi quindi di un virilismo che era anche vissuto come sostanza insindacabile della propria politica, il partito bolscevico si lasciò trascinare nella spirale del confronto manu militari solo a partire dall’impatto diretto con le forze ad esso avverse. In altri termini, mentre i seguaci di Hitler cercavano deliberatamente la soluzione violenta, gli aderenti alla formazione leniniana reputavano il ricorso alla stessa come una delle possibilità – non di certo l’unica – e solo in condizioni di sfavore e di asimmetrica collocazione. Quel che avvenne dopo è invece un altro discorso. Ma un conto è il giudizio sulla Russia di Lenin nel 1917, un altro quello sul paese di Stalin negli anni Trenta.
12. Comparare per comprendere
Queste sono le coordinate più rilevanti sulle base delle quali costruire la dialettica delle differenze e delle eventuali similitudini. La ricerca e l’identificazione di un contesto comparativo funge allora da strumento per capire meglio quel che si dà come unico e quanto invece coesiste nelle due diverse esperienze, senza assumere a priori schemi interpretativi monocausali e generalizzanti. Tuttavia si sconta un colpevole ritardo, da questo punto di vista. A tutt’oggi il tema del raffronto rimane ancora connotato ideologicamente come patrimonio di un certo indirizzo storiografico che, ancora oggi, ha in Ernst Nolte il suo più significativo esponente Scarsi sono stati i risultati sul piano della ricerca, molti quelli sul versante della polemica. Nolte è titolare di una concezione pavloviana dei processi storici, in virtù della quale l’agire degli attori collettivi sarebbe prevalentemente sospeso tra la reattività alle circostanze date e le condotte di natura imitativo-difensive. L’immediata sovrapposizione – all’interno di una cornice, quella della cosiddetta «guerra civile europea», che nel caso suo coprirebbe l’arco di tempo che va esclusivamente dal 1917 al 1945 – tra una legittima proposta di raffronto (tra Gulag e Lager) e l’identificazione di un rapporto di causalità e di necessità tra due regimi distinti (comunismo e nazismo per l’appunto), è stata fonte di diversi equivoci ma ha anche orientato l’indirizzo delle riflessioni sullo statuto della strumentazione comparativista, segnandone l’evoluzione non sempre secondo i migliori indirizzi. Quel che spesso si omette di dire è che l’esperienza concentrazionaria è tutto fuorché una prerogativa dei soli regimi illiberali. Non è un esclusivo lascito di questi ultimi che, piuttosto, si sono rifatti anche ad esperienze precedenti, di cui hanno raffinato ed esteso metodi e funzioni. Poiché la tentazione di risolvere i problemi attraverso l’eliminazione fisica, anche in massa, di quanti ne sono considerati portatori, non è circoscrivibile alla sola esperienza storica dei fascismi, del nazionalsocialismo, dello stalinismo ma è compresente con altre opzioni nel tessuto della modernità. Di cui non è antitesi, semmai sintesi sia pure in forma radicale ed estremizzata.
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