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A proposito di Public History

A proposito di Public History

Dal 5 al 9 giugno si svolgerà, a Ravenna, la  Prima Conferenza Nazionale di Public History. Con questo appuntamento l’Italia giunge, buon ultima, a partecipare a un dibattito che altrove, in America o in Francia, vanta una tradizione lunga almeno un trentennio.  In quella sede si arriverà alla definizione di uno statuto epistemologico di questa «nuova» disciplina che, così come viene enunciata e dibattuta, presenta alcune specificità.

La Public History  nasce negli Usa

Negli Stati Uniti la Public History è stata teorizzata e si sviluppata soprattutto al di fuori del mondo accademico attraverso archivi, fondazioni, istituti, associazioni culturali. Ma anche con una presenza nell’industria culturale, dall’editoria ai media, dal cinema al web. La sua diffusione è avvenuta grazie alle mostre e a percorsi espositivi, a festival di storia e a manifestazioni di rievocazione storica, a film documentari e di fiction, a siti web e a gruppi social dedicati a temi di storia, a programmi radiofonici e televisivi, a periodici in edicola, a best seller di divulgazione, a eventi pubblici in occasione di anniversari e commemorazioni. E, ancora, grazie alle commissioni di inchiesta e di arbitrato, alle ricerche finalizzate a politiche di intervento culturale, sociale e urbanistico, alle iniziative di turismo culturale, alle campagne di raccolta di fonti orali nelle comunità e nelle imprese, alle tante iniziative che hanno fra gli obiettivi il coinvolgimento di giovani e anziani per il recupero di memorie individuali e per l’emersione di archivi e documenti familiari, dalle lettere agli album fotografici[1].

Così definita la Public history si è configurata come una storia per un pubblico più ampio, elaborata al di fuori dell’accademia grazie a una nuova figura professionale: il public historian.

Public History e Italia

Non c’è dubbio che queste caratteristiche abbiano risposto alla necessità di colmare quei «vuoti di memoria» che, da oltre un ventennio, informano i giovani cresciuti, secondo uno dei massimi storici del Novecento, «in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato»[2]. Certo, la «smemoratezza» delle giovani generazioni sconta molteplici motivi e uno di questi va senz’altro ricercato, almeno per quanto riguarda l’Italia, nella scarsa capacità degli storici accademici di comunicare la storia[3].

Anche in Italia la necessità di portare la conoscenza del passato al di fuori delle aule universitarie e dai ristretti ambiti degli storici di professione ha una tradizione lunga, che si collega soprattutto, però, al tema che è stato affrontato più volte dell’«uso pubblico della storia» e che Nicola Gallerano ha brillantemente definito così:

“All’uso pubblico della Storia appartengono non solo i mezzi di comunicazione di massa, ciascuno per giunta con una sua specificità (giornalismo, radio, tv, cinema, teatro, fotografia, pubblicità ecc.), ma anche le arti e la letteratura; luoghi come la scuola, i musei storici, i monumenti e gli spazi urbani ecc.; e infine istituzioni formalizzate o no (associazioni culturali, partiti, gruppi religiosi, etnici e culturali ecc.) che con obiettivi più o meno dichiaratamente partigiani si impegnano a promuovere una lettura del passato polemica nei confronti del senso comune storico-storiografico, a partire dalla memoria del gruppo rispettivo. Infine, larga parte nelle manifestazioni più visibili e discusse dell’uso pubblico della Storia e particolari responsabilità nella sua degenerazione hanno i politici.”[4]

 Public History e uso pubblico della storia

public_history_an_intro_howe_kemp_1986In questa definizione gli obiettivi dell’uso pubblico della storia e quelli della Public History appaiono, a prima vista, del tutto simili. Anche se nella pratica italiana ed europea sono stati anche gli storici ad essere coinvolti, e a tratti con un ruolo e una responsabilità non da poco, in quella «divulgazione» che negli Stati Uniti ha favorito la crescita di nuove figure professionali come, per l’appunto, il public historian.

Oggi il tema più importante non sembra più quello di stabilire una netta distinzione – se mai possa esserci stata anche in passato – tra storici professionali o accademici da una parte e divulgatori e public historian dall’altra, ma di come definire gli ambiti di intervento e di ruolo di una categoria – gli storici in generale – il cui ruolo si è fatto meno rilevante, più ambiguo e sfuggente ma anche maggiormente carico di possibilità di intervento in terreni diversi e molteplici della cultura e della vita civile.

In attesa di una più precisa configurazione del public historian, se volgiamo lo sguardo all’ultimo decennio troviamo una diffusa consapevolezza, anche da una parte degli storici di professione, della necessità di «comunicare storia», di essere presenti nella costruzione della «storia in pubblico».

In Italia: esempi di storia per tutti

Si consideri, ad esempio, l’imponente mostra allestita a Torino in occasione dei centocinquanta anni dell’Unità italiana[5]. Le migliaia di visitatori, i materiali multimediali e gli allestimenti scenici hanno conferito all’iniziativa un carattere «pubblico». In quel caso il comitato scientifico era composto, nella totalità, da storici accademici, che hanno lavorato fianco a fianco con altre figure (architetti, registi, esperti multimediali, grafici) per produrre – insieme – la «storia per il pubblico».

La stessa considerazione vale per la prossima apertura, presso la Casa della memoria di Milano, dello Spazio Resistenza, il primo museo italiano dedicato alla Resistenza. O, per l’annunciata creazione di un Museo dell’Italia nell’epoca fascista nel paese natale di Mussolini, Predappio.  Si tratta di iniziative non circoscritte all’interno delle aule universitarie e quindi destinate a un pubblico più vasto di quello raggiunto dalle pagine di un libro sulla Resistenza e sul fascismo. In definitiva di iniziative con un carattere eminentemente pubblico. E che dunque meritano di rientrare nella classificazione della Public history, così come in passato lo sono state le costruzioni di musei storici, la preparazione di mostre a carattere storico e non solo artistico, la realizzazione di film o documentari.

La caratteristica di tutte queste realtà è che si è trattato di progetti collettivi, che hanno coinvolto diverse professionalità e in cui una qualche figura di storico è stata sempre presente: in forma a volte preminente o a volte come consulente, così come il regista o il designer o l’esperto multimediale sono stati più o meno rilevanti a seconda del tipo di proposta di «storia in pubblico» sia stata fatta.

La casa della memoria di Milano

La casa della memoria di Milano

Storia divulgata e spettacolarizzata

Anche senza la mediazione di strumenti multimediali e attraverso uno strumento tradizionale come la «parola» la storia è stata in grado di raggiungere in questi ultimi anni vasti pubblici. In realtà non sono mancati riusciti tentativi da parte di storici di professione di coinvolgere un largo pubblico attraverso l’uso esclusivo della parola.

Si pensi alle Lezioni di storia allestite dall’editore Laterza all’Auditorium Parco della Musica di Roma e più tardi emigrate in vari teatri italiani. Oppure a formule come quelle dei «Processi» sui grandi eventi della storia italiana (dal fascismo al Sessantotto, da Cavour al socialismo) che si svolgono annualmente a San Mauro Pascoli e che richiamano centinaia di persone. Oppure si consideri la proliferazione dei vari Festival della storia, da Bologna a Gorizia, da Parma a Torino, da Genova a Forlì.

La spettacolarizzazione della storia è riscontrabile anche in formule diverse, sia quando un attore recita un testo preparato da uno storico (cercando di trasmettere ai giovani la passione per la storia attraverso il pathos della recitazione)[6] sia quando un attore-performer si documenta e diventa storico e propone una versione drammatizzata e teatrale della storia su alcuni eventi particolarmente significativi o costruisce programmi di approfondimento storico[7].

Ritorna qui la necessità di sottolineare non tanto un confine – che pure esiste – tra lo storico professionista e altre professioni di trasmissione e divulgazione (dal giornalista all’attore, dal regista all’artista), ma la natura del progetto, e quindi della coerenza e affidabilità scientifica, che viene proposto. Troppo spesso, in passato ma anche in tempi più vicini, l’uso «pubblico» del passato si è trasformato in uso «politico» della storia, una prassi in cui gli storici accademici sono stati pienamente coinvolti alla pari con altre figure professionali, fin da quando si sono create le narrazioni identitarie o le storie ufficiali che hanno caratterizzato per larga parte del ventesimo secolo ogni paese.

Storie minime e memoria

Non si può dimenticare, tuttavia, che l’interesse del grande pubblico riguarda anche pagine minori delle nostre vicende nazionali. Da qualche anno, a fine settembre, in una piccola realtà come Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo, si affollano curiosi e appassionati  che provengono da tutta Italia per assistere a quello che può essere definito come un Festival della memoria e che attinge a quell’immenso patrimonio che è l’Archivio dei diari, ideato e fondato dal giornalista Saverio Tutino nel 1984.  L’evento, proprio per il successo che riscuote, testimonia dell’interesse che la storia suscita anche nelle sue pieghe minori, nelle storie private di gente anonima.  Come a dire che anche la memoria, e non solo la storia, suscita interesse da parte del grande pubblico.

Sull’uso delle fonti orali come strumento fondamentale della conoscenza del passato vi è da diversi decenni una consapevolezza diffusa e condivisa tanto tra gli storici più tradizionali e accademici quanto tra ricercatori e divulgatori che operano prevalentemente sul territorio o attraverso gruppi e associazioni.

Il tema delle fonti orali è legato a un dibattito assai più ampio, che è quello tra storia e memoria e sul loro rapporto, che è diventato centrale nell’ultimo quarto di secolo quando la forte incidenza dell’«era del testimone» e delle politiche della memoria ha spesso favorito una identificazione impossibile tra storia e memoria o la riduzione della prima alla seconda.

Storia e memoria: necessità di un dibattito

In questo senso ci auguriamo che al convegno di Ravenna possa essere ampiamente discussa la posizione riassunta da Serge Noiret che non pensiamo di poter condividere:

“Il Public Historian ripudia la distinzione fatta dagli storici accademici tra “storiografia e memoria” (sia individuali che collettive) perché ritiene che entrambe siano manifestazioni del passato da custodire, analizzare e promuovere nella loro complessità: la memoria non è una forma di cecità e di impermeabilità alla storia “vera”, unica versione colta e scientifica della lettura del passato che viene identificata con la storiografia prodotta alla luce delle fonti tradizionali”[8].

Ci sembra, intanto, che la contrapposizione non sia tanto tra «storiografia» e memoria, ma tra «storia» e memoria, dove quest’ultima è una parte della prima, importante da prendere in considerazione, da analizzare, da raccontare nelle diverse e contrapposte versioni («le» memorie) che esistono, ma che, per lo storico, va affiancata all’analisi e all’utilizzo di altri «documenti», dai dati quantitativi della demografia e dell’economia alle espressioni artistiche, ai giornali, alle scoperte scientifiche e ai progressi tecnologici, ecc. Se storia e memoria nascono entrambi dal desiderio di opporsi all’oblio[9], più proficuo è riflettere sul mutuo scambio che entrambe possono portare alla conoscenza del passato poiché si alimentano vicendevolmente.

Un filone di studio fra i più significativi della storia del Novecento, quello sull’Olocausto, è stato sollecitato, oltre mezzo secolo fa, proprio da momenti «pubblici» rievocati sul filo della memoria come il processo Eichmann, la trasmissione di quel processo sulle televisioni in giro per il mondo e le corrispondenze di Hannah Arendt che hanno reso termine corrente la «banalità del male».

Memoriali e Public historians

publichistorty2Negli ultimi anni una discussione particolarmente accesa si è incentrata sul tema dei «memoriali» e dei «luoghi di memoria», non solo come spazi di possibile rimembranza e riflessione non più di tipo semplicemente celebrativo o commemorativo, ma come possibili veicoli di conoscenza storica, soprattutto quando sono accompagnati (e intrecciati in modo indissolubile) con centri di documentazione o di studio o quelli che vengono chiamati dagli esperti di musei dei centri di interpretazione. Essi si configurano (si pensi al Memoriale dell’Olocausto di Eisenmann a Berlino ma non solo) come spazi da vivere, da percorrere, inseriti nelle città, presenza di memoria diffusa che costringe il visitatore a riflettere sulla storia che vi è dietro, e sono stati elaborati e costruiti da figure che pur non essendo storici – ma architetti e non solo – parlano e vogliono parlare del passato.

I luoghi di memoria sono diventati ormai da anni occasione di approfondimento storico (si pensi ai «treni della memoria» per Auschwitz) e momento continuo di attività, ad esempio, degli istituti storici della Resistenza. In essi certamente può essere rilevante la figura del public historian, come può esserlo quello dello storico accademico o tradizionale. La differenza, almeno per quanto riguarda l’Italia, è che la chiusura ormai da anni alle giovani generazioni della possibilità di accedere alla carriera accademica, ha reso un gran numero di storici formati in modo completo (con dottorato e specializzazioni) disponibili e desiderosi di poter svolgere in altro modo la loro passione di studio e narrazione del passato. E quindi pronti a lavorare nei musei, archivi, giornali, media, mostre, memoriali, ecc, caratterizzandosi maggiormente per la capacità di rivolgersi a un vasto pubblico e per «tradurre» i risultati della più aggiornata storiografia e della più attenta e consapevole comunicazione.

Nuovi scenari per la comunicazione storica

La comunicazione della storia sta dunque cambiando. In questa cornice la «positività» della Public history non sta in forme di esclusione ma nel portare nell’agone della discussione nuovi stimoli e inediti apporti al sapere e alla trasmissione del passato. In definitiva la Public History non può essere una disciplina esclusiva ma inclusiva superando sterili radicalismi sulla scorta di quelle indicazioni che, decenni fa, Marc Bloch, avanzava con la raccomandazione di non ergere barricate e muri perché la storia non ammette autarchia.

Limiti e confini non giovano alla definizione del suo campo d’azione. Conviene semmai riflettere sulla direzione e sugli obiettivi che occorre porsi non solo in vista di un arricchimento del dibattito storiografico ma, ancor prima, in prospettiva dell’allargamento del pubblico della storia. Affinché la scienza di Clio riesca a colmare quelle «smemoratezze» del presente e, soprattutto, torni a essere una disciplina che, come un tempo, non solo alimenta il dibattito storiografico ma, sul piano civile,  aiuta a «diventare grandi» e a formare la coscienza civile del cittadino.


Note:

[1] Serge Noiret, La Public History: una disciplina fantasma?, in «Memoria e ricerca», maggio-agosto 2011, pp. 9- 36.

[2] E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995, pp. 14-15.

[3] Anna Tonelli, Sull’incapacità di comunicare degli storici, in «Storia e problemi contemporanei», gennaio-aprile 2002, pp. 171-174.

[4] Nicola Gallerano, a cura di, L’uso pubblico della storia, Milano, Franco Angeli, 1995.

[5] Cfr. il catalogo della mostra:  Fare gli italiani. 150 anni di storia nazionale, Officina Grandi Riparazioni, Torino, 17 marzo\20 novembre 2011.

[6] Leonardo Casalino, Lezioni recitabili, Torino, Edizioni SEB27, 2012, 2012; Leonardo Casalino e Marco Gobetti, Raccontare la Repubblica. Storia italiana dal 1945 a oggi. Sette testi da interpretare a voce, Torino, Edizioni SEB27, 2014.

[7] Si pensi alle diverse esperienze di Marco Paolini, Ascanio Celestini, Marco Baliani, Gabriele Vacis ma anche Carlo Lucarelli, e il ruolo che hanno avuto nella divulgazione storica attraverso la televisione

[8] Serge Noiret, Introduzione: per una Federazione Internazionale di Public History, https://www.academia.edu/881807/Public_History_pratiche_nazionali_ed_identità_globale

[9] Paolo Jedlowskij,  Intenzioni di memoria. Sfera pubblica e memoria autocritica, Milano, Mimesis, 2016.