Storia della Repubblica Italiana in sette mappe. Uno strumento per la programmazione didattica
Il mondo contemporaneo
Periodizzare è formulare l’interpretazione fondamentale di un dato fatto storico. Dal punto di vista didattico, periodizzare è individuare i quadri fondamentali di una programmazione. Nel nostro caso, quella relativa alla Repubblica Italiana. Questa periodizzazione, tuttavia, deve tenere conto del fatto che l’intera vicenda nazionale si svolge all’interno di uno scenario mondiale. Perciò, la prima operazione è quella di tentare una periodizzazione essenziale della storia del mondo contemporaneo. Il mondo è infatti il contesto all’interno del quale si svolgono le vicende nazionali: e, come a volte accade, queste si comprendono alla luce di fattori internazionali o mondiali.
La prima mappa, dunque, riguarda il mondo contemporaneo. Essa ha due cesure fondamentali. La prima verso la metà degli anni ’70 (ovviamente, si tratta di date topiche). La seconda, più vicina a noi, marca la nascita di quella che con qualche probabilità è una nuova fase della storia mondiale: la crisi del 2008. Di quest’ultimo periodo conosciamo appena le prime mosse: una sorta di rimessa in gioco della globalizzazione, la ripresa dei sovranismi e dei localismi, la crisi dell’Europa (e così via). Per quanto riguarda il periodo precedente, invece, la ricerca storica ha stabilito diversi punti fermi, sui quali si può imbastire un buon programma di insegnamento. In questo articolo vi presentiamo le descrizioni sintetiche di questo periodo.
Nel racconto (di questa come delle mappe successive) abbiamo messo in evidenza i concetti fondamentali, quelli che, presumibilmente, costituiranno un ostacolo alla comprensione del quadro storico, in un soggetto non formato. Il loro numero ci avverte che una delle grandi difficoltà, nell’insegnamento di questo periodo, sarà la sua densità concettuale (più che l’affollamento degli eventi da ricordare). Se è così, dal momento che si tratta di concetti economici e politici, la cui messa a punto potrebbe essere anticipata nella spiegazione dei periodi precedenti, questa narrazione vorrebbe suggerire ai docenti di organizzare il programma precedente in modo da attrezzare gli allievi ad una comprensione più agevole della storia a noi vicina.
Per redigere questo racconto, ci siamo serviti delle relazioni, pubblicate in questo Dossier, del volume di A. De Bernardi, Un paese in bilico. L’Italia negli ultimi trent’anni, Feltrinelli, Milano 2014 e del Dossier Le Grandi crisi del mondo occidentale https://www.novecento.org/dossier/le-grandi-crisi-del-mondo-contemporaneo
Mappa 1. Il mondo contemporaneo
La prima fase della storia mondiale: 1945 – metà degli anni ’70.
L’età del “capitalismo regolato dagli stati”
Il dopoguerra vide la nascita di un nuovo ordine internazionale (dopo che negli anni ’30 si era dissolto quello ottocentesco, imperniato sul primato britannico), basato su un bipolarismo che sfociò quasi subito nella guerra fredda. Questa duplice egemonia, tuttavia, fu fortemente asimmetrica: infatti Usa e Urss erano entrambe superpotenze a livello politico, militare, ideologico, ma solo gli Usa lo erano anche sul piano economico-finanziario.
A Occidente l’egemonia americana, fondata sugli accordi di Bretton Woods del 1944, si tradusse nella costruzione di un sistema mondiale basato sul mercato “libero ma governato dagli Stati”. Gli strumenti con i quali gli stati governavano l’economia internazionale erano:
- Il Gold Exchange Standard, che prevedeva la centralità del dollaro negli scambi internazionali, la sua convertibilità in oro, i cambi fissi tra le monete.
- La creazione degli organismi internazionali finanziari (FMI e Banca Mondiale) e commerciali (il Gatt, poi diventato Wto).
- La keynesismo, che utilizzava il welfare state come sostegno alla domanda.
- Il fordismo, il modo di produzione tipico della fase matura del capitalismo, esportato dagli Stati Uniti al resto dell’Occidente e che alimentò la crescita della produzione, dei redditi e dei consumi di massa.
E’ questo il sistema che oggi possiamo chiamare del “capitalismo regolato dagli stati”. Secondo De Bernardi, si trattò di un “universalismo progressista” che tenne insieme le democrazie occidentali per trent’anni e rappresentò la vittoria autentica dell’antifascismo, perché coniugò Kelsen e Keynes – cioè la democrazia parlamentare e sindacale: fu il solo periodo del Novecento in cui si ridussero le disuguaglianze sociali. Sulla base di quei pilastri e sotto “l’ombrello” della guerra fredda, l’Occidente conobbe un trentennio di crescita economica stabile e sostenuta e di trasformazioni socio-culturali senza precedenti nella storia, conosciuto come “i trenta gloriosi” o “età dell’oro”.
Nel resto del mondo, quello fu il trentennio della decolonizzazione – il processo di liberazione dal dominio occidentale, che iniziò alla fine degli anni ’40 in Asia e si concluse negli anni ’60 in Africa. Questo processo, a sua volta intrecciato con il contemporaneo neocolonialismo, estese a tutto il mondo lo Stato nazionale, creazione europea ottocentesca.
La seconda fase della storia mondiale: dagli anni ’80 alla prima decade del XXI secolo. L’età della “globalizzazione neoliberista”
La svolta rispetto al trentennio del “capitalismo statalmente regolato” fu segnata da una serie di eventi e fenomeni di diversa natura, distribuiti tra i primi anni ’70 e i primi anni ’90:
- 1971: abbandono del sistema di Bretton Woods da parte degli Stati Uniti;
- 1973 e 1979: le due crisi petrolifere, innescate da altrettante crisi politico-militari nel Medio Oriente, con il conseguente, inedito, fenomeno della stagflazione;
- metà degli anni ’70: la rivoluzione informatica avviata nella Silicon Valley;
- 1979 e 1981; la svolta conservatrice o neoliberista iniziata nel mondo anglosassone da Tatcher e Reagan, all’insegna dello slogan “meno Stato, più mercato”;
- 1978 (et ultra): l’apertura al capitalismo e al mercato globale di vaste aree del mondo che se ne erano tenute fuori: la Cina di Deng Xiaoping (dal 1978); l’Europa orientale e la Russia, con la caduta del muro di Berlino e del comunismo sovietico; l’India, che dal 1991 abbatté le sue altissime barriere doganali; quasi tutti i paesi del Sud del mondo, che tra gli ’80 e i ‘90 furono costretti da gravi situazioni debitorie ad abbandonare la formula della “industrializzazione sostitutiva”, fino ad allora seguita, e ad aprirsi al mercato, accettando le dure (ma spesso inefficaci) ricette neoliberiste del Fmi.
L’esito di quella svolta fu il ribaltamento delle caratteristiche di fondo del capitalismo statalmente regolato: la centralità dell’industria fordista, la piena occupazione e il ruolo espansivo della spesa pubblica (deficit spending).
Di fronte alle difficoltà del fordismo e alla “crisi fiscale dello Stato”, già evidenti nel corso degli anni ’70, si ri-affermò la vecchia (ottocentesca) ortodossia neoliberista, che impose come nuove priorità l’austerità finanziaria (il vincolo del pareggio del bilancio), il ridimensionamento del ruolo dello Stato (con l’attacco al welfare state) e, attraverso la liberalizzazione della circolazione dei capitali sottratta al controllo pubblico, promosse un’enorme dilatazione della massa dei capitali e, di fatto, la finanziarizzazione dell’economia.
L’industria subì un triplice processo di trasformazione:
- il passaggio al post-fordismo (toyotismo, automazione, lean production);
- la delocalizzazione, a favore dei paesi di nuova industrializzazione;
- la perdita di centralità economica, perché venne assorbita in «un nuovo tipo di impresa multinazionale: una rete conglomerata di attività finanziarie, di servizi e di impianti produttivi merceologicamente disparati, sparso sui quattro continenti, finalizzato alla massima valorizzazione degli investimenti degli azionisti.» (A. De Bernardi, pag.43).
Nelle società occidentali, questi cambiamenti hanno comportato una profonda modificazione del mondo del lavoro: il declino numerico e del rilievo politico-sociale della classe operaia, la terziarizzazione della società, la crescente precarizzazione del lavoro e una forte polarizzazione dei redditi, con il conseguente aumento delle disuguaglianze economico-sociali, e bassi ritmi di crescita. E, infine, il ritorno a una quota rilevante di “disoccupazione strutturale”, causato dal fatto che «la finanza non può alimentare una classe media, perché solo un piccolo gruppo scelto di ciascuna popolazione nazionale può ripartirsi i profitti della borsa e dell’intermediazione finanziaria, al contrario dell’economia basata sulla supremazia dell’industria e del commercio, che fornisce una più ampia prosperità estesa agli individui comuni» (De Bernardi).
Questa “rivincita del mercato sullo Stato”, del capitale sul lavoro, della finanza sull’industria, ha ribaltato lo scenario del trentennio precedente, imperniato sulla regolazione statale del capitalismo, e, più ancora, ha detronizzato la duplice centralità dello Stato e dell’industria, che si era affermata in Occidente dalla seconda metà del secolo XIX.
L’Italia dei figli, dei genitori e dei nonni.
La storia della Repubblica italiana, osservata dal punto di vista di un ragazzo che la studia alle superiori, si svolge nello spazio di tre generazioni. Quella del ragazzo (il figlio), tutta interna al terzo millennio; quella dei genitori, che prende inizio negli anni ‘70/80; quella dei nonni, nati fra gli anni ’40 e ’50.
Mappa n. 2: tre generazioni nella storia della Repubblica
Grosso modo, questa scansione corrisponde ai “tre mondi” della storia italiana, così come sono descritti da Guido Crainz. Il primo mondo è quello agrario. Si chiude verso la fine degli anni ‘50. Il secondo, quello industriale, si chiude con la fine degli anni ’70, mentre il terzo mondo, “post-industriale”, inizia con gli anni ’80 e varca la soglia del III millennio, come abbiamo visto sopra, fino alla crisi del 2008 (e oltre). Prima ancora di entrare nella descrizione analitica di ciascuno di questi mondi, proviamo a ricavare qualche conclusione didattica da questo schema.
La prima riguarda il termine adoperato dallo storico. Mondo. Una parola che lascia intendere come, nel pur breve spazio di settant’anni, si succedano tre società dalle caratteristiche culturali, economiche e antropologiche molto diverse tra di loro. Questi tre “mondi” si frappongono fra il nostro tempo e gli eventi che solitamente chiudono una programmazione scolastica: la Seconda guerra mondiale e poco oltre. Come ogni insegnante sa bene, in genere non vengono studiati. Meno diffusa è la riflessione su quel baratro di ignoranza, che questa abitudine produce, e sulle sue prevedibili ripercussioni negative sulla formazione civile dei nostri concittadini.
La sovrapposizione fra la cronologia repubblicana e le generazioni suggerisce – è questa la seconda considerazione – che le fonti orali possano costituire una buona risorsa per l’insegnamento (se ne veda, però, la messa a punto critica di Carla Marcellini, pubblicata su questa rivista https://www.novecento.org/pensare-la-didattica/testimoni-a-scuola-una-riflessione-sulluso-delle-fonti-orali-per-la-didattica-della-storia-996/). Nonni e genitori in particolare, più che presentare in classe l’amarcord della loro giovinezza, potrebbero consentire una buona problematizzazione del rapporto fra storia e memoria, un tema cruciale per la formazione storica.
La terza considerazione nasce dal confronto tra la cronologia nazionale e quella mondiale. Fra queste vi è un’evidente asincronia, derivata dal fatto che l’Italia sconta il tempo di ingresso nel quadro capitalistico internazionale. Quindi rivive in tempi accelerati dinamiche che altri paesi hanno diluito nel corso di un secolo: si industrializza in pochissimo tempo, e immediatamente dopo si avvia verso una deindustrializzazione che, questa volta, vive in parallelo con le altre nazioni occidentali. Questa mappa può aiutare a sincronizzare le due storie (le date della storia italiana vengono spiegate e discusse in seguito).
Mappa n. 3: Storia mondiale e storia italiana
La prima fase della storia italiana. Il lungo dopoguerra, dal 1943/45 alla seconda metà degli anni ’50
La trattazione di questo periodo può essere organizzata intorno a due temi chiave.
Il primo riguarda la descrizione di un paese devastato materialmente e moralmente da una guerra persa. Profondamente diviso, come mostrarono i risultati del referendum istituzionale, opposti tra Nord e Sud. Era un paese che restò prevalentemente agrario fino alla metà degli anni ’50, quando 4 italiani su 10 erano agricoltori e 20 milioni di donne su 24 facevano le casalinghe. In questo paese il 60% della popolazione aveva frequentato solo le scuole elementari, ma il 30% neppure quelle, e i laureati erano solo l’1%: un livello culturale ben poco europeo, con la dialettofonia come norma e l’uso della lingua italiana come eccezione. Era un paese “radiofonico”, cioè “pre-televisivo”. In quell’Italia dei primi anni ’50, 890 mila famiglie, delle quali 744 mila nel Mezzogiorno, non si cibavano mai di zucchero e di carne. Erano dei lussi per la maggioranza delle altre famiglie. Solo il 7% delle abitazioni aveva il telefono ed era provvisto dei tre beni essenziali della società urbana: l’elettricità, l’acqua corrente, il bagno interno.
In realtà, ad uno sguardo più attento, il processo di trasformazione in un paese industriale-urbano era già iniziata dall’immediato dopoguerra, favorito dalla straordinaria volontà di ricominciare. Ma quella trasformazione era ancora quasi invisibile, per due motivi: i bassi salari, che non consentivano un’espansione dei consumi dei beni di massa; e il prevalere, già alla fine degli anni ’40, di un marcato tradizionalismo-conservatorismo nei valori e dei modelli di comportamento dominanti. Si potrebbe dire che la società italiana di quell’epoca correva verso il nuovo con lo sguardo volto all’indietro, al passato.
Il secondo tema-chiave riguarda il rapporto tra istituzioni, politica, società. Questo si articolò in tre cambiamenti:
- dal fascismo alla democrazia,
- dalla monarchia alla repubblica,
- dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana.
Visto nel suo insieme, quel triplice cambiamento costituì un’autentica rivoluzione, guidata soprattutto dai partiti di massa e dai loro leader. Uomini di grande spessore, che seppero trainare sul terreno della democrazia un paese culturalmente e socialmente arretrato, gravato della pesante eredità del fascismo, nel quale il concetto stesso di democrazia appariva confuso sia alle masse, sia ai militanti dei principali partiti. Così era per i comunisti, in gran parte legati al mito dell’Urss e di Stalin, che Togliatti seppe trasformare da combattenti rivoluzionari in membri di un grande partito (oltre 2,5 milioni di iscritti nei primi anni ‘50), sempre più convinti della necessità di una “democrazia progressiva”. Né la democrazia risultava particolarmente cara all’autorità riconosciuta dai cattolici, la Chiesa di Pio XII, che avrebbe semmai preferito una situazione simile quella dei regimi iberici di Franco o di Salazar. De Gasperi, dal canto suo, non volle limitarsi a rappresentare il mondo cattolico organizzato nel partito della Democrazia Cristiana, ma si rivolse a quelle che egli chiamò «le masse grigie, pigre, lente», cioè a quel “ventre molle” della società che si era maggiormente riconosciuto nel regime fascista e che ora andava sottratto all’influenza delle nuove formazioni di destra.
Mappa n. 4: Il motore contraddittorio della ripresa post-bellica
Questa spinta verso la trasformazione, tuttavia, non deve oscurare le pesanti eredità del fascismo (alcune anche del prefascismo): una macchina dello stato che non si volle riformare, come sarebbe stato essenziale fare; la concezione del partito-stato che occupa gli spazi pubblici, dalla quale derivò anche la debolezza della società civile nelle sue forme di auto-organizzazione (come viene sottolineato da Simone Neri Serneri). Un’eredità fascista che in questa fase si rivelò invece positiva fu il sistema di economia mista, basata sulla grande industria di stato, che ebbe un ruolo essenziale per lo sviluppo industriale.
La seconda fase della storia italiana. La “grande trasformazione”, dalla fine dei ’50 alla fine dei ’70.
Questa fase può essere articolata in tre temi chiave: lo sviluppo economico, le trasformazioni antropologiche e culturali e gli ambivalenti anni ’70, che definiamo in questo modo perché caratterizzati da una pluralità di fenomeni contraddittori (terrorismo, affermazione dei diritti, inizio del debito pubblico)
Il tema fondamentale è, senza dubbio, quello dello sviluppo economico. Nel 1958 entrò in vigore il Mercato Comune Europeo. Gli occupati nell’industria superarono quelli in agricoltura. Quell’anno inaugurò il quinquennio del “miracolo economico”, con una crescita del Pil superiore al 6% annuo. Sia pure con ritmi meno sostenuti, la “grande trasformazione” che rese l’Italia un moderno paese urbano-industriale proseguì fino alla fine degli anni ’70. Fu accompagnata da mutamenti demografici, economici, socio-culturali di intensità senza precedenti.
Ne furono protagoniste l’industria privata e pubblica, grande e media, di base e manifatturiera. All’impetuosa espansione della produzione, corrispose per la prima volta quella dei redditi e dei consumi, anche nel Sud. Si imposero nuovi stili di vita: la una rivoluzione alimentare (la carne che diventò cibo quotidiano), l’accesso ai consumi durevoli come automobili ed elettrodomestici. Iniziò il ventennio della “paleo-televisione”, il cui programma di maggior successo, Carosello, fu per tutta la sua esistenza (1957-76), il testimone di quella rivoluzione dei consumi e dei costumi.
Dopo una fase di crescita impetuosa, lo sviluppo continuò con ritmi sempre più lenti e faticosi, fino ad arrestarsi, per quanto riguarda la grande industria, intorno alla metà degli anni ’70.
Il secondo tema è antropologico. La nuova formula politica del centro-sinistra, che aveva sostituito il centrismo agli inizi degli anni ‘60, produsse poche riforme. Di conseguenza, il “miracolo economico” non fu governato, ma venne lasciato alla spontaneità del mercato. Nella latitanza della politica, emersero nella società nuovi soggetti collettivi, in larga misura espressione dei giovani. Questi costituirono una nuova fascia di consumatori, con propri stili, comportamenti, gusti diversi e separati dal mondo degli adulti. Nacquero le mode giovanili: musica, balli, abbigliamento, luoghi e modi di aggregazione. Giovani furono anche i protagonisti di quella politicizzazione della società, che aprì la grande stagione dell’azione collettiva: dai “ragazzi delle magliette a strisce” del luglio 1960, ai giovani operai di piazza Statuto a Torino, alle giovani donne dei collettivi femministi e dei movimenti femminili, al “lungo Sessantotto” nelle università e nelle scuole, all’autunno caldo del 1969 e alle lotte sindacali che segnarono il clima socio-culturale fino alla metà degli anni ’70.
Mappa n. 5. I temi della “Grande trasformazione italiana”
Sotto questa “rivoluzione visibile” se ne realizzava un’altra, invisibile e duratura: fu quello, infatti, il decennio in cui si rovesciò il ciclo demografico, col passaggio dall’alta natalità alla “crescita 0” (e alla decrescita del saldo naturale, nei decenni successivi) e al grande cambiamento, da paese di emigrati a meta di immigrazione. Il “lungo Sessantotto”, inoltre, aveva spostato in senso progressista il clima culturale del paese. Aveva, dunque, favorito delle conquiste importanti sul terreno dei diritti civili: la legge e poi la battaglia referendaria sul divorzio, seguita da quella sull’aborto; il nuovo diritto di famiglia con la parità uomo-donna; la legge 180, sulla malattia mentale, quella sulle carceri. Infine, venne promulgato lo Statuto dei lavoratori, nel 1970, e venne approvato un complesso di leggi che importarono in Italia un sistema di welfare state, che giunse così nel nostro paese ben trent’anni dopo la sua ideazione inglese.
Il terzo tema è quello del terrorismo. Certamente il più vivo nella memoria e nel discorso pubblico (“gli anni di piombo”), non fu affatto il fenomeno che lasciò più tracce nel periodo successivo. Il terrorismo nero (dalle stragi di piazza Fontana nel 1969 alla quella di Bologna nel 1980) e quello rosso dei secondi anni ’70, fino al rapimento e all’omicidio Moro si sovrappongono e spesso oscurano la lunga stagione di cambiamenti sociali che abbiamo ricordato sopra.
Tuttavia, il vero risvolto negativo di quella stagione era nascosto nelle pieghe di alcune riforme. Molte di queste, infatti, innescarono la bomba ad orologeria del debito pubblico: dalla costosa riforma pensionistica dei primi anni ’70, alla tardiva e iniqua riforma fiscale del 1974, tutta a carico del lavoro dipendente; alla riforma sanitaria del 1978, affidata alle Regioni, a loro volta istituite nel 1970, con pesanti effetti sulla finanza pubblica, a causa della moltiplicazione di centri di spesa irresponsabili (con lo Stato pagatore a piè di lista) e con la parallela moltiplicazione delle clientele.
Le date di questo ventennio riformatore sono oggetto di discussione. Come data di inizio alcuni propongono il 1956 (la crisi ungherese e i cambiamenti della sinistra italiana); altri il 1957, data del Trattato di Roma. Altri, infine, come nel nostro caso, il 1958. Per il terminus ad quem, alcuni propongono l’omicidio di Moro (1978) o la fine dei governi di unità nazionale (1979). Ma probabilmente, la “marcia dei quarantamila”, svoltasi nell’autunno del 1980 fu il segno più evidente del declino della classe operaia, il ceto che, con la sua presenza e le sue lotte aveva marcato il mondo dell’Italia industriale.
La terza fase della storia italiana. L’Italia nel mondo globale, dagli anni ’80 al primo decennio del Duemila.
Questo trentennio va scandito in tre fasi successive:
- il decennio del Pentapartito (1979 – 1992), cioè del raddoppio del debito pubblico
- il decennio riformista (1992 – 2001), con le prove di risanamento e di riforma del sistema politico
- il decennio populista (2001 – 2011), col blocco della politica
Il decennio del Pentapartito (1979 – 92). Come abbiamo visto all’inizio, a livello mondiale gli anni ’80 furono il primo decennio della globalizzazione neoliberista. Il passaggio a questa nuova fase fu caratterizzata, in Italia, da diversi problemi. Per primo, il fatto che negli anni ’80 la classe dirigente politica ed economica non riuscì a modernizzarsi. Essa, al contrario, elaborò una forma di governo, il “pentapartito”, che era una sorta di riedizione del centrismo degli anni ’50 (perché come quello era basato sull’esclusione del Pci). Era un blocco di potere che coinvolse i partiti di governo e gran parte della grande industria pubblica e privata in un capitalismo senza mercato, cioè senza concorrenza, basato su due meccanismi:
- Commesse pubbliche in cambio di tangenti, i cui costi venivano scaricati sulla collettività gonfiando i costi delle opere commissionate; con quelle tangenti si “compravano tessere” per acquisire o consolidare il proprio potere all’interno del proprio partito; con quel potere – e qui il circolo vizioso si chiudeva – ci si accaparrava il controllo delle risorse pubbliche.
- Assunzioni clientelari imposte alle aziende e agli enti pubblici, a prescindere dal merito e dalla professionalità.
Questo sistema politico rappresentava una risposta gradita alla nuova classe media in rapida espansione, la quale aumentava i suoi redditi, accedendo all’assistenzialismo clientelare e godendo di ampie possibilità di evasione fiscale, e reinvestiva poi questi redditi nell’acquisto di buoni del tesoro. La ripresa economica dei “dorati anni ‘80” fu dunque “drogata” dalla dilatazione incontrollata della spesa pubblica, in un intreccio tra politica e affari. Il deficit primario arrivò a superare il 10% del Pil e il debito pubblico raddoppiò, nel corso del decennio, passando dal 55% del Pil nel 1980 al 115% del 1993 e al 122% del 1994.
Mappa n. 6: L’espansione “drogata” degli anni ‘80
Oltre alla corruzione, un’altra escalation caratterizzò gli anni ’80, quella della criminalità organizzata: dal rapporto tra camorra e gestione del terremoto in Campania del 1981, allo scandalo della loggia P2, alla guerra di mafia in Sicilia con gli omicidi eccellenti da Terranova e Dalla Chiesa a Falcone e Borsellino. Molto più silenziosa, ma ancora più insidiosa, fu in quel decennio la diffusione della criminalità mafiosa nel tessuto economico e sociale del Nord.
Sul piano della cultura di massa, questo fu il decennio del “riflusso nel privato” e del “rampantismo degli yuppies”, segnato dalla forte influenza della “neo-televisione” che coincise con la formazione dell’impero televisivo (Fininvest, poi Mediaset) e pubblicitario (Publitalia) di Berlusconi.
Il decennio riformista. Il 1992 fu un anno di svolta per il concentrarsi di fattori internazionali (il crollo dell’Urss e il Trattato di Maastricht) e interni, quali la dissoluzione della “prima repubblica” e la scomparsa dei partiti che ne erano stati i protagonisti. A quel crollo concorsero:
- La fragilità finanziaria, che espose la lira agli attacchi speculativi e costrinse il governo Amato a una pesante svalutazione della lira e a una drastica manovra finanziaria (100 miliardi di lire).
- L’esplosione di Tangentopoli, con il pool “Mani Pulite che scoperchiò il sistema delle tangenti.
- Un terremoto elettorale, con pesanti perdite sia dei partiti del pentapartito sia del Pds (nato l’anno prima dallo scioglimento del Pci), e la forte crescita della Lega Nord.
- Le uccisioni di mafia dei magistrati Falcone e poi Borsellino a Palermo.
- I due referendum (1991 e 1993), che imposero l’adozione del sistema elettorale maggioritario.
A produrre una svolta riformatrice, nello spirito di un solido ancoraggio all’Europa, fu la sinergia tra tecnici di altro profilo prestati alla politica e la nuova alleanza di centro-sinistra, l’Ulivo. Questo fu il segno di quasi tutti i governi dal 1992 al 2000, con la parentesi del primo governo Berlusconi. Questi, infatti, pochi mesi dopo avere fondato il partito di Forza Italia, vinse a sorpresa le prime elezioni effettuate con il sistema maggioritario (1994), a capo di un’alleanza di centro-destra, ma cadde prima della fine dell’anno per i contrasti con il suo principale alleato, la Lega Nord di Bossi.
Tre le direttrici delle riforme dei governi dell’Ulivo:
- una politica di rigore nei conti finanziari, per rispettare i parametri di Maastricht, coronata nel 1998 dalla “entrata nell’euro”;
- un imponente programma di privatizzazioni di banche e imprese pubbliche e una legge di riordino del sistema bancario, che posero fine all’anomalia dello “Stato imprenditore e banchiere”, eredità dal fascismo consolidata nel dopoguerra, e diventata via via fonte di corruzione e di dilapidazione di risorse pubbliche;
- riforme del lavoro, dalla concertazione tra il governo Ciampi e le tre confederazioni sindacali Cgil-Cisl-Uil, alla riforma Treu del 1996 che introdusse nuove forme di lavoro più flessibili.
Mappa n. 7. L’Italia nel mondo globale
Il decennio populista (2001-2011). A questo complesso di riforme erano fortemente avversi i ceti legati alle libere professioni e al settore dei servizi, che non vedevano di buon occhio i tentativi di superare rigidità e chiusure corporative. Il conseguente squilibrio tra l’ampia flessibilità del mercato del lavoro dipendente e le perduranti rigidità del mondo delle professioni si accentuò poi nei primi anni Duemila, così come si incrementò vistosamente la sperequazione nella redistribuzione dei redditi a vantaggio del lavoro autonomo e a svantaggio di salari e stipendi.
Dal punto di vista dell’economia mondiale, i bassi tassi di crescita, la precarizzazione del lavoro e l’aumento della forbice tra alti e bassi redditi furono problemi comuni a tutto l’Occidente. Questo insieme di fattori decretarono la sconfitta dei partiti progressisti, che non erano riusciti a porvi rimedio. Alla fine degli anni ’90 i progressisti persero ovunque: Clinton negli Usa, Blair nel Regno Unito, Schroeder in Germania, l’Ulivo in Italia.
Il decennio iniziale del XXI secolo, dunque, vide avanzare l’asse di centro-destra, costituito da Forza Italia (poi Popolo della Libertà) e Lega Nord. Quest’alleanza governò ininterrottamente, salvo la parentesi di un anno e mezzo nel 2006-07. Di questo periodo conviene soffermarsi su due temi-chiave: la composizione sociale del blocco che portò al potere il Centro-destra e la stagnazione economico-sociale del paese, che culminò con la crisi del 2007-2008, con la susseguente recessione economica.
Il partito di Forza Italia si reggeva su due pilastri. Il primo era costituito dal suo leader, Silvio Berlusconi: un capo carismatico che poteva usare a suo vantaggio il proprio impero televisivo. Il secondo era la larga base sociale che egli rappresentava. In questa troviamo gli eredi del vecchio capitalismo protetto, la piccola imprenditoria padana e il mondo del lavoro autonomo delle “partite IVA”, la piccola borghesia del pubblico impiego soprattutto meridionale, una vasta platea di pensionati e casalinghe, e le parti più conservatrici del mondo cattolico, custodi della famiglia tradizionale e ostili ai diritti civili.
Il messaggio politico, con il quale Berlusconi si era presentato al principio del decennio precedente (quello della “rivoluzione liberale e liberista” e del “nuovo miracolo italiano”), venne messo da parte e sostituito con una nuova proposta, molto articolata. Da una parte essa insisteva sull’anticomunismo. In realtà, non aveva come obiettivo polemico un’ideologia ormai diventata marginale con la caduta del muro di Berlino (1989), ma significava l’opposizione allo Stato plasmato dalla Costituzione, alla divisione dei poteri e all’indipendenza della magistratura, fino al sostegno all’antipolitica del qualunquismo. Dall’altra parte, il messaggio politico del centro destra metteva al centro l’opposizione fra locale (Italia) e mondo (globalizzazione), su tutti i piani: quello politico, col sostegno all’euroscetticismo; quello economico, con la promessa del protezionismo e della tutela del mercato interno; quello antropologico e sociale, con la lotta contro l’immigrazione e gli stranieri.
Questo insieme di temi trasferì il centro-destra italiano dall’originaria collocazione liberale verso un etno-populismo, che si stava presentando come il fenomeno nuovo della scena mondiale, insieme con il sovranismo. A livello internazionale, dunque, il Centro destra italiano sembra precorrere tempi che, con l’avvento al governo di Teresa May e di Donald Trump si sono decisamente affermati sulla scena mondiale. Nella dimensione italiana, tuttavia, questo cocktail politico ha bloccato il paese, impedendogli, prima, di riavviare lo sviluppo economico e poi di far fronte con efficacia alla crisi del 2007/2008. La sua conseguente sconfitta ha aperto un nuovo scenario, di un “paese in bilico” (per riprendere l’espressione di De Bernardi), nel quale opzioni populiste e di ritorno della rappresentanza politica, reazionarie e progressiste, sovraniste e europeiste, sembrano bilanciarsi in una contesa che è diventata, anch’essa, mentre scriviamo, decennale (2008-2017).