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Matrimonio con delitto

Matrimonio con delitto

Storie di ieri e di oggi intorno alla violenza domestica

Abstract

Viene qui presentato un caso di femminicidio avvenuto a Cremona il 14 aprile 1889. Le premesse, il contesto sociale, le motivazioni, le modalità di svolgimento del delitto, l’atteggiamento dei protagonisti (vittime, colpevoli, testimoni, familiari, compagni di lavoro, forze dell’ordine, magistratura) offrono uno spaccato eloquente del contesto di vita delle classi popolari e di molte donne alla fine dell’Ottocento, nonché della diffusione della violenza familiare come regola del vivere quotidiano. Il progresso tecnologico e lo slancio verso la modernità che in quegli anni coinvolgevano molti aspetti delle città, del lavoro, dell’economia e della vita quotidiana sembravano non toccare gli aspetti più radicati e radicali di una cultura patriarcale cui restavano ostinatamente aggrappati i rapporti interni ed esterni di molti contesti familiari. Sottolineano, nel contempo, sconcertanti analogie con le violenze perpetrate ai danni delle donne ancora oggi, in troppi casi in cui il discrimine fra i diritti e i doveri all’interno della famiglia e delle relazioni affettive continua a essere dettato dal genere e alimentato dalla cultura della prevaricazione.

 

1. Indicazioni didattiche

Lo studio di caso è rivolto agli ultimi due anni della scuola secondaria di secondo grado. Può essere svolto dividendo la classe in piccoli gruppi.

2. Tempo previsto per lo svolgimento

Tre ore di lavoro in aula, due ore se le attività sono suddivise fra i gruppi.

3. Composizione del dossier

Il dossier è composto da un testo per gli studenti, dalle riproduzioni di quattro documenti originali tratti dagli atti processuali a carico dell’omicida provenienti dall’Archivio di Stato di Cremona, dalle trascrizioni di alcuni stralci delle carte processuali, dalla riproduzione di un articolo della «Gazzetta di Mantova», da tre  fotografie del monumento eretto dalle filatrici a ricordo di Cesira Ferrari, da uno stralcio del discorso di commiato della presidente della Società Femminile di Mutuo Soccorso fra le operaie, da un file sonoro con la registrazione del canto dedicato all’assassinio di Cesira e dal testo originale dell’epigrafe posta sulla sua tomba.

4. Premessa

Non aprire ai conosciuti era il titolo di un’iniziativa promossa nel 2005 dall’associazione culturale cremonese Inachos – con la collaborazione di psichiatri, criminologi, avvocati, magistrati e forze dell’ordine – per sollecitare riflessioni e azioni concrete volte a contrastare il dramma dei delitti perpetrati fra le mura domestiche. Il tema stava da qualche anno conquistando sempre maggiore spazio sulle pagine di giornali e riviste e nei palinsesti televisivi, dove prendeva forma una nuova spettacolarizzazione della cronaca nera, trasversale a tutti i generi televisivi, dall’informazione all’intrattenimento. Cominciavano ad essere avviate campagne di indagine giornalistica, presentate al pubblico come se le risultanze fossero ottenute in diretta, e ad essere allestiti pseudoprocessi mediatici che coinvolgevano lo spettatore scavando nella vita di carnefici e vittime, le cui vicende private si trasformavano in scoop quotidiani dati in pasto a un pubblico assetato di particolari scabrosi. A spettacoli di dubbio gusto si affiancavano tuttavia sempre più spesso occasioni di informazione e di mobilitazione di energie nella direzione della prevenzione del fenomeno della violenza contro le donne e dell’assistenza alle vittime da parte di istituzioni pubbliche e di associazioni private, cui peraltro faceva riscontro una troppo debole riflessione sul tipo di  immagine della donna che contestualmente gli stessi media diffondevano con pervicace costanza attraverso spot pubblicitari e spettacoli di vario genere.

L’attenzione alla gravissima e storicamente consolidata pratica della violenza sulle donne e sui minori, nella maggior parte dei casi perpetrata e occultata nell’ambito familiare, se da un lato aveva lo scopo dichiarato di sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni intorno a una piaga ancora intollerabilmente annidata nella società italiana del XXI secolo – stimolando le donne a trovare il coraggio di denunciare maltrattamenti e soprusi, le istituzioni a emanare provvedimenti adeguati ad affrontare il fenomeno e molte associazioni a prendersi cura delle vittime e a proporre processi di rieducazione dei carnefici – dall’altro sembra oggi aver fallito lo scopo principale di incidere sulla radicata cultura del sopruso da cui questi episodi traggono origine e ragion d’essere.

Dodici anni dopo, troppe vittime hanno continuato ad aprire ai conosciuti: il loro numero, pur essendo diminuito, ha in parte solo cambiato fisionomia e continua ad essere enorme in rapporto agli sforzi profusi. Campagne informative e divulgative, l’istituzione nel 1999 della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre), le conquiste sul piano normativo che finalmente puniscono reati in precedenza non previsti, come lo stalking, un più attento approccio al fenomeno da parte delle forze dell’ordine non hanno prodotto il risultato sperato.

Appare quindi evidente la necessità di continuare a mettere in campo ulteriori sforzi: la scuola può e deve essere un luogo di crescita della cultura del rispetto, anche – finalmente – delle donne.

Attraverso questo breve studio di caso, si intende portare un piccolo contributo all’azione educativa quotidiana dei docenti. Forse, far toccare con mano un caso reale di femminicidio, preceduto e seguito da tutti quei comportamenti violenti e meschini, senza nulla di eroico e di emulabile che caratterizzano il più delle volte la violenza domestica, con quella sufficiente distanza storica che consente di osservare un fatto dall’esterno, può servire a far comprendere come molti piccoli comportamenti nei confronti di compagne, fidanzate, amiche o sorelle, dei quali non si valuta a sufficienza la portata e il significato, non siano così sostanzialmente diversi da quelli messi in atto da Babila contro “la povera Cesira”. Se pur non ne eguagliano la violenza e le conseguenze, questi atteggiamenti si pongono nella scia della mentalità di quell’uomo che in un crescendo di presunzione, di egoismo e di aggressività giunse ad arrogarsi il diritto di vita e di morte della sua “amata” moglie. Comprendere che sottrarre e spiare il cellulare o la posta elettronica della propria ragazza, controllarla telefonicamente o seguirla di nascosto è esattamente quello che Babila faceva chiedendo al cognato e alla madre di controllare la moglie; ma anche proibirne le amicizie, insultarla, scrivere messaggi ambigui, offensivi o intimidatori, indebolire la sua autostima con continui richiami e atteggiamenti svalutanti o postando immagini che la espongono al ridicolo e al giudizio negativo della collettività, significa replicare le modalità d’azione della sua personalità criminale e della sua cultura rozzamente arcaica, pur astenendosi dai fatti più gravi delle percosse e delle violenze fisiche. Comprendere tutto questo, potrà forse portare un contributo alla formazione di una cultura del rispetto senza la quale la piaga antica del femminicidio continuerà ad insanguinare il nostro tempo. 

5. Testo per i docenti

Chi porta i pantaloni?

In Nozze di sangue. Storia della violenza coniugale (Laterza, 2011, p.35-36), Marco Cavina riporta il dialogo tratto dall’introduzione dell’opera farmacologica Esame di tutti gli sciroppi di Antonio Musa Brasavola, medico e archiatra di Ercole II d’Este dal 1530 al 1555. Il Bresavola, sostenitore dell’idea erasmiana ed egualitaria dei membri della famiglia, si confronta con un vecchio farmacista il quale gli racconta dei suoi tentativi di asservire totalmente la moglie ai suoi voleri, senza peraltro ottenere il successo sperato: «Quando presi moglie fermamente decisi che ella avrebbe dovuto consentire tutto ciò che dicessi e che avrebbe dovuto fare tutto ciò che volessi», sosteneva il vecchio, il quale gli narrava poi della sua prima notte di nozze e dello stratagemma attuato per chiarire da subito chi avrebbe “portato i pantaloni” in quella casa. Egli aveva messo alla prova la novella sposa appoggiando sul letto un paio di calzoni e due bastoni: «Quando fummo soli e venne l’ora di andare a letto – disse –  buttai a terra quei calzoni e, afferrato uno dei bastoni, l’altro lo porsi a lei dicendole:Voglio che ora noi combattiamo per decidere chi in questa casa porterà i calzoni; e siccome non volle fare ciò che le ordinavo – cioè predere il bastone e combattere – la frustai ben bene».

Bresavola gli rispondeva che non era quello il modo di ottenere la devozione e l’obbedienza della moglie: le maniere forti avrebbero generato solo odio nei confronti del marito, mentre la premura e la dolcezza avrebbero fatto germogliare un sentimento d’amore e di rispetto: «io non la rimprovero, io non la offendo, io non la picchio […] Stimo cosa da esseri liberi, anzi quasi divina questo nostro poterci obbligare a vicenda con dolci atti e parole piuttosto che con offese e minacce».
Se la disquisizione fra i due protagonisti del dialogo può oggi apparire surreale, è in realtà presumibile che il pensiero e gli atteggiamenti del vecchio farmacista dovessero essere più diffusi di quanto non lo fossero quelli del giovane medico, se i pronunciamenti di numerose sentenze civili e religiose dal Medio Evo all’Ancien Régime traboccano di casi di maltrattamenti gravissimi risolti con semplici inviti ai mariti alla moderazione nei castighi e alle mogli alla pazienza. Sempre è comunque riconosciuta la legittimità, se non il dovere, della correzione da parte del marito di veri o presunti atteggiamenti di disobbedienza che, se tollerati, avrebbero potuto minare l’ordine sociale fondato sulla famiglia patriarcale e sulla supremazia del marito che esercitava un’autorità pressoché assoluta. La verberatio (percossa con le verghe) era il castigo tipico inflitto all’interno della famiglia a scopi correttivi e il potere del padre si esercitava secondo un ordine non dissimile da quello descritto  nella Politica di Aristotele: come un tiranno per i servi, come un re per i figli, come un governatore per la moglie, rispettando con questo un presunto ordine naturale.  

Il problema non era dunque la legittimità della violenza domestica, sempre riconosciuta in capo al marito per scopi ‘correttivi’ ed ‘educativi’, quanto piuttosto i suoi limiti: fino a che punto poteva spingersi l’azione correttiva del marito sulla moglie? Diverse, nel corso del tempo e nelle varie regioni geografiche, le norme che ne fissavano i confini. Spiega ancora Marco Cavina (pp.20-25) come in Italia le scelte locali, pur diversificate, fossero tutte concordi nel riconoscimento del pregiudizio agnatizio:

«Chi proibiva le percosse soltanto se compiute con effusione di sangue, chi invece le ammetteva anche in quel caso, chi ancora si limitava a condannare soltanto il caso di morte o di permanente debilitazione di un arto (…).Gli statuti trecenteschi della Valsassina riconoscevano il potere di bastonatura della moglie sia pur senza esagerare. In quelli di Trieste se ne concedeva la battitura in qualunque modo il marito avesse voluto , eccetto l’omicidio e l’amputazione di un membro. Nelle normative della Sardegna talvolta non si ponevano limiti formali, talvolta si prescriveva di usare le mani nude ma, di non far zampillare il sangue. Quasi ovunque si ammetteva – formalmente o fattualmente – il diritto di incarcerare la moglie colpevole o fuggitiva (…). Disposizioni analoghe si ritrovano in gran parte delle legislazioni particolari dell’Europa occidentale medievale e moderna». In Spagna era consentito a tutti «castigare la propria moglie e i propri figli, sempre che non si faccia con spada o coltello» e in Francia nelle consuetudini di Beauvaisis, purché non la si uccidesse o mutilasse. In molte regioni la morte era l’unico limite del potere maritale. Nelle consuetudini trecentesche di Aaerdenburg (Paesi Bassi francesi) «il marito aveva la facoltà di battere la moglie, di tagliuzzarla, fenderla dall’alto in basso e scaldarsi i piedi nel suo sangue, il tutto senza sanzioni a patto che la ricucisse e le facesse salva la vita».

Queste norme, a dir poco feroci, si vennero via via modificando in età moderna con il progressivo ampliarsi delle sanzioni a carico degli eccessi maritali e un conseguente miglioramento delle condizioni femminili. In Francia i cambiamenti vennero recepiti dalla dottrina giuridica e dall’Encyclopedie, svuotando di potere la potestà correzionale del marito sulla moglie, senza tuttavia giungere alla sua negazione. Questo atteggiamento era condiviso alla fine del Settecento dalle norme della gran parte delle regioni europee. Se tuttavia  la dottrina giuridica, a piccoli passi, poneva freni all’arbitrio del marito in ambito familiare, questo permaneva nell’immaginario e nelle consuetudini popolari, che ripetevano e tramandavano atteggiamenti arcaici, difficili da scalzare, soprattutto in assenza di una diffusa scolarizzazione delle classi più povere ed emarginate, afflitte dalla miseria o isolate in villaggi di campagna. Ogni parola, ogni atteggiamento, ogni comportamento di un membro della famiglia che paresse scalfire il senso dell’onore del pater familias, o mettesse in discussione il suo potere di controllo e di gestione della casa e delle persone che vi vivevano, era spesso punito in modo esemplare e pubblico perché l’ordine fosse ripristinato non solo all’interno del nucleo familiare, ma anche nei rapporti con il contesto locale. A costo di pagarne le conseguenze giudiziarie, l’onta doveva essere lavata, se necessario anche nel sangue. Se queste norme e questi atteggiamenti possono apparire lontanissimi dalla dottrina giuridica italiana di oggi e dalla mentalità corrente, non appare fuori luogo ricordare che il delitto d’onore in Italia fu abolito solo nel 1981.

La proprietà del corpo

Nelle riflessioni sulla potestà maritale in ambito civile e religioso, la proprietà del corpo occupava uno spazio centrale. Per l’Europa cattolica, il riferimento alla perdita della proprietà del corpo nel matrimonio – che faceva dei due sposi “un’unica carne” – era già nella prima lettera di San Paolo ai Corinzi. L’apostolo diceva che entrambi i coniugi dovevano compiere il proprio dovere (sessuale) nei confronti dell’altro e che «la moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma lo è la moglie».

Secondo questa premessa, il debito coniugale avrebbe dovuto essere reciproco e quindi sfuggire alla logica della potestà maritale. Le cose in realtà non andarono così. Nel contesto della famiglia patriarcale, il dovere coniugale ricadeva sulla moglie dalla quale poteva essere preteso anche con la violenza. La congiunzione sessuale diventava il perno centrale del matrimonio e il rifiuto (della moglie) doveva essere considerato un peccato grave, una sottrazione agli obblighi sottoscritti con il contratto  matrimoniale.

Non mancarono dotte disquisizioni giuridiche per definire i confini dei diritti sessuali generati dal matrimonio, assimilandoli in alcuni casi al diritto di proprietà, in altri al diritto di credito. In questo contesto, il corpo (soprattutto della moglie) diventava un oggetto patrimoniale di cui il coniuge reclamava il possesso esclusivo. Sulla base di questo parallelismo, dal basso Medioevo all’Età moderna i giuristi furono impegnati a trasferire nel matrimonio la terminologia utilizzata  nel diritto di proprietà. Possedere una cosa significa infatti escluderne la proprietà o il godimento di altri. Su questa base si innescarono le terribili conseguenze con le quali era punito l’adulterio che prevedeva, in molti casi legalmente, la soppressione dell’adultera e dell’amante. Dietro la punizione dell’adulterio, o del presunto tale, potevano tuttavia nascondersi molte altre ragioni che vedevano nella soppressione della moglie un modo sbrigativo per aggirare l’indissolubilità del matrimonio che poteva costituire un impaccio ad altri progetti. Per questo, in molti casi, la punizione dell’adulterio era soggetta a un giudizio pubblico che vagliasse le prove prima di emettere sentenze capitali, demandato preferibilmente al potere vescovile che aveva, tra i suoi compiti, anche quello di indagare la diffusione di questo genere di peccato all’interno della propria diocesi, come ben dimostrano fino all’età contemporanea i verbali delle visite pastorali. Quando non era possibile sottrarre la moglie alla feroce vendetta del marito, l’unica scappatoia per i ceti alti diveniva la vestizione degli abiti monacali. Era prevista anche la reclusione, su denuncia del marito, in carcere o in convento (se il coniuge era in grado di pagarne le spese), talvolta previa pubblica fustigazione come documentano molti casi fra XV e XVI secolo. Poiché però il marito non avrebbe potuto contrarre un nuovo matrimonio finché la moglie fosse stata in vita, le cronache, soprattutto medioevali, riportano moltissimi casi di omicidi domestici per causa d’adulterio o di sospetto adulterio ad ogni livello della piramide sociale. Benché molte legislazioni locali non prevedessero la pena capitale, la vendetta privata era diffusissima nella prassi e di norma largamente tollerata alla stregua di un diritto naturale patriarcale. La soppressione della moglie adultera godeva di un largo consenso sociale allo scopo di salvaguardare l’onore della famiglia, ma spesso le norme ponevano condizioni in merito all’acquisizione dei suoi beni per evitare evidenti abusi per motivi finanziari. Siamo di fronte alla causa prima del delitto d’onore, enormemente diffuso in tutta l’Europa medioevale e moderna, con il fondato sospetto che nascondesse in molti casi altre finalità; è infatti documentato come spesso fosse possibile giungere ad una composizione della causa dietro l’esborso di somme di denaro, versato dalla sposa o dalla sua famiglia.

La conseguenza penale del reo di uxoricidio poteva essere sanata con il perdono del principe o della famiglia attraverso un atto notarile, che immaginiamo non gratuito. Altre pene pubbliche potevano essere comminate alle mogli adultere, come la rasatura e la flagellazione. Ma come erano puniti i mariti che si macchiavano d’adulterio? Certamente in modo meno feroce, ricorrendo a sanzioni o, raramente, a modeste pene corporali (Cfr. Cavina, 2011, pp. 68-81).

Dall’Antico Regime all’Età contemporanea: il superamento normativo della potestà maritale

Se il superamento delle premesse culturali che giustificavano il dominio maritale e la sua violenza furono poste nell’ultimo scorcio dell’Antico Regime, le basi giuridiche per il suo svuotamento di significato furono esplicitate dall’Illuminismo e trovarono una sempre più precisa, benché non lineare, codificazione in epoca contemporanea. La condizione di vita delle donne tuttavia non cambiò radicalmente in modo parallelo, nonostante i nuovi strumenti giuridici. Rina Faccio, con lo pseudonimo di Sibilla Aleramo, pubblicava nel 1906 il romanzo autobiografico Una donna, nel quale descriveva la condizione di muta sudditanza al marito delle donne marchigiane della fine dell’Ottocento; Marco Cavina, nella più volte citata pubblicazione Nozze di sangue, ne analizza i contorni:

«Il declino del patriarcato, con le angosce e le ridefinizioni nell’identità di genere che determinò, fece da volano a forti recrudescenze di violenza coniugale nella prassi fra mariti legati agli antichi archetipi d’imperio e mogli ormai alla ricerca di una propria completa autoaffermazione. Non tardarono però le reazioni istituzionali. Legislatori e giudici operarono, fra Ottocento e Novecento, in modo sempre più incisivo». Da più parti si sottolineava la necessità di una «necessaria convergenza di pubblico e privato, onde la promozione della famiglia intima e individualista avrebbe dovuto valersi del supporto di una coerente e consapevole politica statale (…).
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, le discordie domestiche divennero definitivamente un problema pubblico e sociale; arrivarono sempre più frequentemente nelle aule dei tribunali; furono oggetto di accese e popolarissime campagne stampa; suscitarono discussioni e provvedimenti normativi. Le critiche femministe e socialiste, accanto al riformismo paternalistico e conservatore, resero la Gran Bretagna dell’Età vittoriana ed edoardiana un fervido laboratorio di idee intorno al tema della condizione della donna in famiglia e nella società civile (…). Nel contempo, la pubblicistica evidenziava le ‘follie ed eccentricità’ della magistratura, che trattava spesso i mariti violenti con soverchia benevolenza – rispetto ad altre tipologie di criminali –, alla luce di modelli patriarcali ancora assai diffusi.
In molti codici penali otto-novecenteschi comparve un reato specifico: i maltrattamenti domestici, riconoscimento che segnò l’avvio di quel percorso normativo approdato fra stalking e mobbing alla fine del Novecento. Era un reato solitamente su querela di parte con il quale si mirava a fornire di una specifica tutela i membri deboli della famiglia (…).
Quel che importava era il principio introdotto più che non i suoi contenuti. I codici penali della Restaurazione italiana o non lo prevedevano o lo collegavano con pene minime, come nel caso del Canton Ticino e del Piemonte albertino. Occorre attendere il codice penale del 1889 per un qualche inasprimento della repressione in un’ottica più marcatamente liberale e individualista, pur nel mantenimento dell’obbligo della querela di parte». (Cavina, 2011, pp. 169-174)

E proprio in questo contesto sociale e giuridico, fra violente reminiscenze dell’antico potere maritale, albori dell’emancipazione femminile ed entrata in vigore del codice Zanardelli si inserisce  nel 1889 la vicenda della “povera Cesira”.

La “povera Cesira”. Storia di una morte annunciata

Cesira Petronilla Maria Ferrari era una giovane filatrice di seta, piuttosto „belloccia“ che lavorava in una filanda cremonese. Orfana di madre, aveva convissuto con il giovane Giuseppe Manara –  un bel giovane alto, biondo e ricciuto con gli occhi grigi che faceva il facchino giornaliero –  in attesa di poterlo sposare al raggiungimento della maggiore età. Il matrimonio era stato celebrato il 3 novembre 1883, nonostante il parere contrario delle rispettive famiglie, probabilmente dietro pesanti pressioni dello stesso Manara che pareva la minacciasse nel caso lo avesse rifiutato. Manara era noto in città per le sue maniere violente, che non mancò di manifestare nei rapporti con la moglie, picchiandola fino a farle interrompere due gravidanze, intimorendola e contagiandola con malattie veneree.
Cesira aveva al contrario un carattere mite e generoso, era paziente, umile e laboriosa ed era amata ed apprezzata dalle amiche, dalle compagne di lavoro e dagli stessi proprietari della filanda che non avevano mai avuto modo di lamentarsene. Tutti la compiangevano per il cattivo matrimonio e per le sofferenze che il marito le infliggeva.
Nel 1886 Giuseppe Manara fu condannato a tre anni di reclusione per avere gravemente ferito con danni permanenti il proprietario di una casa di tolleranza quando, insieme ad un amico, si era rifiutato di pagare le prestazioni di una ragazza che i due avevano anche picchiato e insultato.
Mentre Giuseppe era in carcere, Cesira andò ad abitare a casa dei suoceri, ma il suocero Babila, spesso ubriaco e anch‘esso violento, oltre a picchiare la moglie molestava la nuora introducendosi nottetempo nella sua stanza e pretendeva una parte sempre maggiore del misero stipendio che la giovane percepiva.
Per sfuggire alle molestie del suocero, Cesira si trasferì a casa del padre.
Mentre Giuseppe, detto Babila dal nome del padre, era in carcere, Cesira si privava quasi del necessario (mangiava solo polenta, diranno le compagne di lavoro interrogate durante il processo) per potergli inviare qualche lira. Probabilmente lo stesso Babila padre, per vendicarsi dell‘allontanamento della nuora, mise in allarme il figlio informandolo falsamente della condotta licenziosa della moglie, indotta e sostenuta a suo dire dallo stesso padre che aveva intrecciato con lei una relazione incestuosa.
Manara dal carcere credette, o volle credere, alle calunnie e scrisse varie lettere minacciose, maturando il proposito di vendicare il proprio onore al ritorno.
Cesira di questo era consapevole e più volte manifestò alle compagne la preoccupazione che il marito potesse ammazzarla.
Uscito dal carcere la sera del 13 aprile 1889, Manara si recò prima a casa dei genitori, poi verso le 23 a casa del suocero. Nonostante fossero state chieste informazioni circa il rilascio del prigioniero  per poterlo tenere sotto controllo nel timore che, tornato in città, potesse compiere atti violenti, le notizie non giunsero in tempo utile e Giuseppe-Babila Manara riuscì a mettere in atto i suoi propositi criminali.
Entrato in casa della moglie, questa non fu disponibile a soddisfare i suoi desideri. Il marito, verso le tre del mattino, la convinse a uscire con lui e, giunti in viale Po, ad un suo ulteriore rifiuto (come egli ebbe a dichiarare negli interrogatori), la colpì con 27 coltellate, di cui 15 alla testa. Poi se ne sbarazzò gettandola ancora viva nel fosso che scorreva accanto alla strada, dove la giovane morì per dissanguamento e affogamento. Si diresse quindi in fretta verso la casa del suocero che accoltellò mentre dormiva nel proprio letto.Lavò così nel sangue dei due congiunti la lesione del proprio onore.
Lasciata la città, si diresse al paese natale, dove fu rintracciato ed arrestato. Il grave fatto di sangue fece molto scalpore, fu pubblicato sui giornali non solo locali e la stampa seguì con assiduità le fasi del processo che si concluse con la condanna di Giuseppe Manara ai lavori forzati – poi tramutata in ergastolo dal secondo grado di giudizio –  e con l’incriminazione del padre Babila per concorso in omicidio. Non fu comminata la pena di morte perché da pochi mesi era entrato in vigore il nuovo Codice penale Zanardelli, che aboliva la pena capitale.
Durante il processo, Giuseppe-Babila Manara disse ogni sorta di cattiveria e volgarità sulla povera moglie, nel tentativo di ottenere le attenuanti per delitto d’onore, mentre tutta la città ne riconosceva i meriti e l‘onestà dei comportamenti. Anche il suocero, interrogato, pronunciò parole ingiuriose verso la nuora e, mentendo, raccontò fatti tesi a screditarla.

In città il compianto per Cesira fu invece unanime; migliaia di persone parteciparono al suo funerale e le compagne di lavoro, riunite nella Società di mutuo soccorso delle operaie, eressero una stele in sua memoria, commissionata a uno dei più noti scultori locali del tempo.
Sulle note di una ballata, fu poi composta la storia dell‘omicidio. Il canto narrava, condannandole, le violente gesta di Babila e fu tramandato oralmente dalle stesse compagne di filanda.
Nel 2011-2012, nell‘ambito delle iniziative messe in atto per sensibilizzare l‘opinione pubblica sulla necessità di intervenire contro il perseverare di comportamenti violenti nei confronti delle donne, il Soroptimist International d‘Italia, Club di Cremona, pubblicò in un libro la storia di Cesira Ferrari.  Con l‘aiuto di Carla Milanesi fu rintracciata e trascritta la Ballata di Babila e fu restaurata la stele funeraria che la ricorda al cimitero. Cesira e la sua storia dimenticata tornarono a far parte della memoria collettiva cremonese e ad essere assunte come emblema delle donne vittime della violenza familiare.

Ma la storia della conquista del rispetto e della parità dei diritti delle donne in ambito familiare e sociale non ha mai conosciuto un progresso lineare. Il 27 gennaio 2017, la Duma russa ha avviato l’iter per la depenalizzazione della violenza familiare.

6. Bibliografia e sitografia
    • Spinelli Barbara, Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, Milano, Franco Angeli, 2008 (1ª ed.)
    • «Genesis: rivista della Società italiana delle storiche», n. IX, 2 (2010)
    • La storia della “povera” Cesira. Una tragedia femminile nellOttocento cremonese, Soroptimist International d’Italia – Club di Cremona, Cremona 2011; Versione on line nella pagina “Pubblicazione di atti di corsi e convegni” del sito http://www.soroptimistcremona.it
    • Cavina Marco, Nozze di sangue. Storia della violenza coniugale, Roma-Bari, Editori Laterza, 2011. A questo testo si rimanda per la copiosissima bibliografia, non solo italiana, sulla violenza contro le donne in prospettiva storica.
    • Iacona Riccardo, Se questi sono gli uomini. Italia 2012. La strage delle donne,  Milano, Chiarelettere, 2012
    • Femminicidio: l’antico volto del dominio maschile, a cura di Giuliana Lusuardi, Correggio, Vittoria Maselli Editore, 2013
    • Lipperini Loredana – Murgia Michela, L’ho uccisa perché l’amavo. Falso!, Roma-Bari, Laterza, 2013
    • Femminicidio: i perchè di una parola, a cura di Matilde Paoli, http://www.accademiadellacrusca.it
    • Luciano Garofano, Andrea Conz, Luigi Levita, Femminicidio. Commento organico al D.L. 14 agosto 2013, n. 93, convertito dalla L. 15 ottobre 2013, n. 119, in materia di sicurezza e di contrasto alla violenza di genere, Dike Giuridica Editrice, Roma, 2013 (XXII-346; )
    • http://www.zeroviolenza.it/component/k2/item/73506-la-violenza-contro-le-donne-dentro-e-fuori-la-famiglia-indagine-istat-2015
    • Duma russa: ok alla depenalizzazione delle violenze domestiche, www.ilsole.24ore.com , 27 gennaio 2017

7. Testo per gli studenti

Babila e la «povera Cesira»

Un caso di cronaca nera, Cremona,14 aprile 1889

I
Non era ancora l’alba. Due operai camminavano lungo il viale che conduceva al Po, dove lavoravano nel grande cantiere del nuovo ponte in ferro che avrebbe congiunto in modo stabile le due sponde del fiume fra Cremona e Piacenza – un’opera di alta ingegneria che avrebbe proiettato nella modernità la piccola e rurale città di Cremona – quando videro un uomo senza cappello che si dirigeva frettolosamente verso Porta Po, l’ingresso sud della città. Poco prima avevano avuto l’impressione di sentire flebili lamenti simili a una voce di donna. Tornati sui loro passi, scesa la scarpata del fosso, scorsero il corpo di una giovane riversa nell’acqua con il volto coperto di sangue.
La notizia si sparse in un baleno; giunsero le forze dell’ordine e la piccola folla degli abitanti della contrada si radunò sul luogo del delitto. Alcune filatrici riconobbero nella vittima la venticinquenne Cesira Ferrari, loro compagna di lavoro alla filanda Groppali. La gente sussurrava timorosa il nome di Giuseppe Manara (detto Babila dal nome del padre), marito della vittima. Era egli un facchino noto in città per la sua aggressività e per i maltrattamenti abituali cui sottoponeva la moglie; solo la sera prima era uscito dal carcere di Modena dove aveva scontato tre anni di reclusione per il ferimento di un uomo.
Mentre la gente si radunava in capannelli, una nuova sconvolgente notizia giunse dal centro della città: nel proprio letto era stato rinvenuto privo di vita anche il padre della giovane donna, Giovanni Ferrari, colpito da numerose coltellate.
Giuseppe-Babila Manara – visto proprio quella notte entrare nel modesto appartamento dove abitavano Cesira e il padre –  fu indiziato del delitto, rintracciato e posto agli arresti. Molte persone furono interrogate e alcuni si presentarono spontaneamente a deporre a suo carico (contro di lui).
Le accurate indagini della magistratura appurarono la responsabilità del Manara nel duplice delitto, scoprendo anche il ruolo istigatore di suo padre Babila e le torbide vicende che lo vedevano autore di molestie e di minacce ai danni di numerose donne e dei vicini di casa che, impauriti, non osavano parlare. Manara fu condannato ai lavori forzati, commutati in seguito nell’ergastolo, ed abbe salva la vita solo grazie alla recentissima entrata in vigore del nuovo Codice Zanardelli che aboliva la pena capitale.

II
La figura semplice e laboriosa di Cesira e la sua drammatica vicenda scossero profondamente l’opinione pubblica: i giornali non solo locali dedicarono molti articoli al lugubre fatto di cronaca e  seguirono con mediatica attenzione tutte le fasi del processo, pubblicando, in via eccezionale, persino i ritratti a penna dei protagonisti. Una grande folla partecipò commossa ai funerali della giovane e la sua storia divenne un triste canto, raccontato dai cantastorie e intonato nei luoghi di lavoro e di ritrovo, poi tramandato dalle filatrici come un inno al bisogno di giustizia delle donne vittime della violenza dei mariti. Una condizione diffusissima che da sempre aveva caratterizzato la vita della maggioranza delle donne cui il diritto di ogni tempo aveva sempre negato le prerogative di libertà e di autodeterminazione (possibilità di decidere della propria persona e della propria vita) concesse agli uomini. Alla fine dell’Ottocento, questa piaga attraversava ancora tutti i ceti sociali, con particolare durezza nelle classi popolari dove la miseria, la mancanza di istruzione e l’alcolismo ne facevano una consuetudine delle più radicate.
Non erano mancate in ogni epoca voci solitarie che si erano levate per porre fine a queste violenze inflitte alle donne per il solo fatto di essere tali. Si trattava di una condizione comune a tutto il genere femminile, che viveva la violenza familiare (fisica, psicologica, economica, verbale) come parte intrinseca della propria quotidianità, giuridicamente e socialmente giustificata dalla necessità di mantenere un ordine consolidato e incardinato ai ruoli gerarchici della famiglia patriarcale.
Ma lentamente qualcosa si stava muovendo e una nuova consapevolezza cominciava ad attraversare la società. Se nei ceti borghesi migliorava il livello di istruzione femminile, le donne del popolo divenivano sempre più partecipi di contesti lavorativi esterni alle mura domestiche dove sperimentavano occasioni di confronto e di sostegno reciproco nelle fabbriche, nelle filande, nelle risaie e nelle sedi delle società operaie di mutuo soccorso.
Se tuttavia il progresso della tecnica faceva grandi passi, quello dell’emancipazione femminile avrebbe incontrato ancora, sia a livello giuridico che sociale, moltissimi ostacoli. Si dovette attendere il 1946 perchè in Italia le donne avessero il diritto di voto attivo e passivo e solo nel 1981 fu finalmente abolito il delitto d’onore.
Oggi gli strumenti giuridici italiani non pongono differenze di genere nei diritti e nei doveri dei cittadini, ma il numero impressionante di donne uccise ogni anno in Italia dai loro compagni, mariti o fidanzati è purtroppo lo specchio evidente di un problema non ancora risolto.

8. I documenti: dossier

DOC. 1

Sintesi delle evidenze emerse dall’interrogatorio di Giuseppe Manara con alcuni stralci della sua deposizione (in corsivo)

Il 20 aprile 1889, presso il Tribunale Civile e Correzionale di Cremona, il giudice Angelo Rosina interrogò Giuseppe Manara.

Quando ero in carcere a Modena, parmi il giorno 9 agosto 1888, ho ricevuto una lettera a mezzo postale proveniente da Cremona nella quale mi si riferiva che mia moglie conduceva una vita disonesta, perchè in una sera, indicata nella lettera stessa, fu veduta all’osteria del Pet, fuori Porta Po assieme a suo padre e ad altri, che presa dal vino esprimevasi colle precise: “Evviva: a dispetto di mio marito e de’ suoi genitori…“

Manara afferma che la lettera non era firmata e che non può esibirla, perchè l’ha smarrita insieme a un’altra lettera nella quale la moglie gli confessava di essere stata all’osteria, ma gli prometteva che quando fosse tornato dal carcere gli avrebbe confermato il suo amore. Qualche giorno dopo, la moglie gli aveva scritto ritrattando tutto e lui l’aveva perdonata perchè l’amava.

Nega poi di averle mai scritto lettere contenenti minacce.

Racconta di essere arrivato la sera a Cremona, di avere vagato un po’ e di avere bussato poi a casa del suocero il quale non voleva che la figlia gli aprisse. Cesira invece, cedendo alle sue insistenze, aveva aperto. Egli aveva cercato di essere affettuoso con lei, ma lei lo aveva respinto e il suocero gli aveva detto che la moglie non lo voleva più perchè si accompagnava con altri uomini. Egli si era fermato da lei e, dopo essere stato steso sul letto accanto alla moglie addormentata, l’aveva svegliata e le aveva proposto di uscire a fare una passeggiata nella speranza che fuori di casa lei divenisse più arrendevole. Cesira aveva accettato, ma vestendosi aveva ribadito, deridendolo, che di lui non voleva più sapere.

(…) Allora destramente presi un coltello che adocchiai su di un tavolo pensando fra me: se fuori di porta acconsentirà, bene – se no le dirò: Cesira io sono un ragazzo disgraziato – ecco il coltello se vuoi abbandonarmi – uccidimi e se essa non lo farà e mostrerà di volermi abbandonare prima le punterò il coltello al petto e quand’essa non si intimorirà, ucciderò prima lei e poi me stesso.

Manara prosegue raccontando il percorso compiuto, e di come la moglie, deridendolo, gli avesse parlato dei suoi numerosi amanti. Cesira gli aveva confessato anche di avere preso l’abitudine di bere molto.

(…) [Cesira] dichiarò che s’era data alla prostituzione e voleva seguitare su quella strada, e che anzi se io le avessi fatta qualche figura essa aveva dei bravi moscardini per mettermi al dovere. Le feci notare che in 30 anni a me Manara nessuno aveva mai messo addosso le mani e che nessuno me le avrebbe messe in seguito e che essa già sapeva che tornavo allora dalla galera dove era stato per ferimento, ma essa si pose anche questa volta a ridere. (…) allora tirai fuori il coltello e le domandai un bacio che ella non mi volle dare. Le presentai il coltello per il manico e dissi: Giacché sono un povero sventurato uccidimi, ma essa rise ancora (…) le tirai un colpo alla gola di coltello poi replicai i colpi, la trascinai sulla riva e la feci ruzzolare giù nel fosso. (…) si avvicinavano due giovinotti ai quali rivolsi il parlato così: «buon giorno ragazzi» e ripresi la via per ritornare in città. Dimenticavo di dire che mia moglie non diede che 2 gridi soltanto. A passo celere guadagnai la Porta Po, passai innanzi al brigadiere delle Guardie Daziarie (….) ritornai in casa non mica per ammazzare mio suocero, ma perché, messe le mani in saccoccia m’era avveduto che avevo dimenticato 3 fazzoletti nella stanza di mia moglie e pensai di andarli a riprendere.

Arrivato a casa, Manara sie era fatto aprire dal suocero e, dopo una discussione, lo aveva ucciso sul letto con il medesimo coltello. Si era poi lavato le mani e asciugato nel lenzuolo del letto della moglie. Era quindi andato a casa dei genitori a cambiarsi d’abito e, senza dir nulla dell’accaduto, si era diretto a Pieve San Giacomo, suo paese d’origine, dove aveva parlato col sindaco decidendo di costituirsi e aveva aspettato all’osteria l’arrivo dei carabinieri.

DOC. 2

Copia dell’articolo La condanna d’un mostro dalla «Gazzetta di Mantova» del 24-25 novembre 1889

doc2A doc2B doc2C

DOC. 3

Copia della lettera anonima spedita in carcere a Giuseppe Manara il 1 giugno 1889 (ASCr, Tribunale di Cremona, Corte d’Assise, b. 2541; autorizzazione n. 1/2017 )

Trascrizione della lettera anonima:

Dalla casa 1 Giugno 1888

Caro amico

Ti fo sapere che tua moglie abitapiù nel prato e abita in Gonzaga (sono due contrade della città ndr) dunque è vicino a me e l’altra sera è venuto a casa tuo padre dall’osteria ubbriaco e si è messo a battere fortemente tua madre e era perfino negra e poi dandole di tutti i termini a tua moglie per fino di quei nomi di casino che io mi sento rossore a scriverteli e tu mi avrai inteso abbastanza, di maniera che noi tutti vicini intorno sen facevamo alta meraviglia di tuo padre dicendole che è un uomo senza cuore e senza criterio. Credimi pure che riguardo a tua moglie non si può dire una minima riguardo alla sua condotta adesso e sempre di che non ti ritrovi più con lei mi pare che sono più di due giorni che lai abbandonata e se fosse un’altra donna e se fossi io che sono un uomo non ci starei nemmeno un ora che è si poco.

Ti pare che sieno cose di passarci sopra una donna giovane ridursi sgraziatamente abbandonata da suo marito per sua cagione che lo sai abbastanza e poi stando in casa di gente senza criterio che certe volte manda fuori di casa tua madre e tua moglie dicendole fuori di casa mia che non vi voglio vedervi dicendole che tua madre tiene d’accordo a tua moglie pensa se fossi nel caso tu cosa faresti?

Ti parlo da amico che tua moglie se fosse di cattiva condotta come tu la stimi starebbe sola di sua libertà.

Ti saluto di vero cuore e sono un tuo amico che ti vuol bene e quando sarai a casa saprai chi è il tuo amico che ti a scritto. Addio addio

Scansione del documento:

DOC. 4

Stralcio della querela dello zio di Cesira, Elia Ferrari, Cremona, 14 aprile 1889 (ASCr, Tribunale di Cremona, Corte d’Assise, b. 2541)

Verbale di querela o denuncia orale di Ferrari Elia fu Luigi, di anni 43 nato e domiciliato a Cremona, mediatore di cavalli e altro

accuso quale autore di tale reato Manara detto Babila marito della di lui figlia Cesira …………la condotta di mia nipote fu sempre esemplare, laboriosa, onesta ed ebbe solo la fatalità di prendere in marito il Manara Giuseppe che le fece subire dispiaceri, percosse, vessazioni e che anche una volta le comunicò una malattia.

La famiglia del Manara fu sempre avversa a mia nipote Cesira. Quando il Manara andò al carcere di Modena, essa Cesira si accasò presso i di lui genitori, ma tali erano i dispiaceri ch’essa soffriva, che dopo otto mesi riparò nella casa paterna. Da ciò l’odio dei genitori Manara si accrebbe e sembra che loro scrivessero al proprio figlio informandolo sinistramente sul conto della moglie con false accuse d’infedeltà….

Doc. 5

Dichiarazione del sindaco di Cremona, 12 maggio 1889 (ASCr, Tribunale di Cremona, Corte d’Assise, b. 2541; autorizzazione n. 1/2017)

Trascizione della dichiarazione del sindaco:

Comune di Cremona, 12 Maggio 1889

Onorevole sig. Giudice Istruttore

presso il R. Tribunale

Cremona

Per concordi unanimi informazioni raccolte tanto nei quartieri dove abitò la disgraziatissima Ferrari Cesira, come presso le operaje dello stabilimento industriale del sig. Stefano Groppali, risulta accertato, senza alcuna ombra di dubbio, che la condotta morale della povera Ferrari fu sempre correttissima, non sollevando mai alcun appunto col suo contegno sociale e privato. Operaja onesta e laboriosa era stimata ed amata dalle sue amiche e compagne di lavoro, le quali la compiangevano di cuore vedendola unita in matrimonio ad individuo di condotta pregiudicata e d’indole cattiva.

Emergerebbe ancora, a far meglio constare l’onestà della Ferrari, che, rimasta essa presso lo suocero quando suo marito espiava la condanna di 3 anni di carcere, dovette allontanarsi dal medesimo riparando presso il proprio genitore, spinta a ciò dagli osceni eccitamenti del padre Manara.

Tanto in riscontro del gradito foglio di V.E. in data 6 and.e (andante ndr) mese N. 166

Il ffe (facente funzione ndr) di Sindaco

Scansione del documento:

DOC. 6

Stralcio del discorso pronunciato al funerale dalla vicepresidente della Società Femminile di Mutuo Soccorso fra le operaie Irene Villa Grassi (da «Interessi Cremonesi», 20 aprile 1889)

Se sei compianta, o povera Cesira, da ogni classe di cittadini per la tua misera e straziante fine, lo sei ancora più vivamente dalle tue consorelle del Sodalizio delle Operaie, al quale da anni appartenevi. Le tue consorelle spargono lacrime sulla tua fossa ed il loro dolore che provano, è forte, poiché in te perdono una onesta consocia, che lasciò mai nulla a dire sulla condotta, che anzi era lodevole, sia per modesto contegno come per l’amore che mostrava ad istruirsi. Non più noi, povera Cesira, ti vedremo alla Domenica venire al Sodalizio a ritirare libri per arricchire la tua mente e confortare il tuo animo con sane e buone letture! Ed io ora adempio, a nome della Società, al doloroso dovere di darti l’ultimo addio. E di spargere una lagrima sulla tua fossa. Addio, povera Cesira!

DOC. 7

Stralci delle lettere inviate da Giuseppe Manara dal carcere alla moglie Cesira Ferrari e ai genitori (ASCr, Tribunale di Cremona, Corte d’Assise, b. 2541)

31 gennaio 1887

Carissimo Padre,
rispondo alla lettera di mia moglie speditami 16 gennaio p.p. colla quale intesi che [fece] inchiesta per non avere mie notizie, così caro padre vi prego di avertirla che io sto bene che mi trovo abastanza bene di salute e così spero che sarà di voi tutti e anche della cara madre che vi ho sempre inmente e quello che sono per pregarvi si è che sorvegliate mia moglie, essa si deve ricordare i miei segerimenti quando ero alla libertà essa conosce molto bene il mio temperamento e ditegli pure che dalla sua condotta dipenderà di volergli bene ho no, altrimenti se non starà sotto i vostri ordini e sugerimenti, prevedo che al mio avenire succederà facilmente nuovi dispiacere e che pensa ai casi suoi e non andare a  pensare che fatti altrui, perchè io spero che in questi tre anni di lontananza di farmi un poco più Uomo che dalla vita […] e anche per me non avere altri affari che l’avorare e guadagnarmi da vivere e fare compagnia ai miei cari genitori e alla mia famiglia e passare una vita felice insieme con mia moglie sogungetevi (soggiungetevi) pure che si riguarda dalle sue amiche che purtroppo suggeriscono male […]

 Modena 6 marzo 1887

Carissimo padre ho ricevuto la vostra lettera del 3 di marzo e mi ha messo in una convulsione straziante perchè l’ho mirata accompagnata con figura nera segno di lutto e di morte che mi fa sospettare fondatamente che sia avvenuta una funesta disgrazia nella mia famiglia e ad onta che vogliate nascondermi la verità con le parole mi parlano apertamente i fatti e vi scongiuro per il Cielo che a pronto corso mi rispondiate per togliermi da una profonda malinconia, che mi opprime sapermi dichiarare cosa di male sia successo perchè la mia immaginazione passa i limiti per una parte la mestizia del carcere per l’altra il funesto pensiero mi tiene profondamente appassionato; posso dichiaravi che non mi dimenticherò mai del bene che ho ricevuto dalla mia moglie e da voi genitori…

Modena 4 luglio 1887

Cari Genitori,
……..
Dalla lettera del 21 giugno rilevai lo richiamo della mia moglie, perchè non l’era salutata nella lettera che voi siete trovata nella posta, ma lo trascurata perchè ella mia mortificato dal giorno che capitai in carcere e per cui non stavo più in pensiero di fargli comunicazione, adesso però di vero cuore, la saluto ed abbraccio, ma che non profittasse dell’occasione.
Ora le dico che si sappia portar bene che quando ritorno sarà felice e contenta. Uniti genitori e consorte vi prego di sopportare con pazienza e speriamo che questo tempo passa velocemente e possiamo dopo il mio ritorno stare felici e contenti.
Si rammenta la mia moglie il tempo, che io stava in libertà, che non voleva che m’avesse mortificato, per cui prima che dica una parola che ci pensa che il mio temperamento lo sa abbastanza…..

Modena 16 agosto 1888

Carissimi Genitori,
vi faccio sapere che ho ricevuto la vostra cara lettera ma con molto dispiacere riguardo alle notizie che mi avete dato.
In quanto alla mia disgrazia mi trovo contento perchè ci ho buoni superiori. Mi farete il favore quando avete ricevuto la presente di dire a mio cognato di prendere mia moglie e dargli un suggerimento e dirgli che si portasse bene, se poi al contrario si portasse male e peggio per essa se non mi a conosciuto per il primo, mi conoscerà in appresso che uomo sono io. I suoi divertimenti con suo padre ce lo darò io in appresso, e quanto mio cognato gli darà questi suggerimenti a bocca, e lei dovesse rispondere male gli farà leggere la presente ma però questa lettera deve stare sempre nelle vostre mani e non consegnarla a mia moglie quanto poi l’avete fatto sentire questo stesso mi farete sapere la risposta che vi da mia moglie che poi quando ritorna in casa questa lettera deve essere nelle mie mani e vi raccomando di non farla perdere questa lettera e speriamo che questi pochi mesi passano presto. Questo è il modo di trattare e di profittarsi della mia disgrazia ma verrà un giorno che ti troverai pentito e non farai più a tempo. Direte a mio cugnato che mi tenesse per iscusato tanto lui quanto mia sorella se finora non l’o mandato a salutare perchè i troppi dispiaceri mi fan dimenticare tutto …. vi averto di stare con attenzione a tutto questo che vi dico…

Modena 17 settembre 1888

Carissima moglie,
È molto tempo che non ho notizie di te e mi dovrai scusarmi se non ti ho scritto perchè ho avuto male informazioni di te. In quanto a quel scellerato di tuo padre non è stato contento della morte della tua povera madre e del tuo povero fratello, è il tuo traditore e ancora vuole tradirti per il presente di prenderti per molto tempo e conducerti a quei posti che so io che in appresso te lo spiega io; se io fosse stato quel uomo dispenserato quando era a libertà, tuo padre lo faceva andare carcerato e tu lo sai abbastanza, e io invece ho lasciato correre tutto e ancora vuol ripetere, e queste erano le promesse che mi facevi di non guardar tuo padre e ti sei fatta voltare i sentimenti, anche il 19 di agosto trovandoti fuori di porta Po all’osteria del petto, fuori insieme a quel scellerato di tuo padre e insieme a tutto al barabismo e sorpreso del vino e fare grande pubblicità e gridando è vivo a dispetto di mio marito ed i suoi genitori e tutta la gente si faceva meraviglia e nel medesimo tempo si misero tutti a ridere; questo che ti racconto è di rispettare i miei genitori e questa lettera, quando la riceverai, la tenerai presso di te che quando verrò me la consegnerai.Queste sono le promesse che mi hai fatto, non sai che sono stato l’uomo che ti ha dato l’onore di donna e se non era per me fossi stata una donna sventurata e, questo è l’incompenso che mi dai a me.Guardati da quei che ti danno dei suggerimenti cattivi che questi al presente ti fanno ridere, verrà un giorno che ti fa piangere, rassegnati a quel Dio che ti da i sentimenti giusti che a commettere le magagne si fa presto e soffrirle ci vuole sudore di sangue, dunque prima di commettere le magagne esamina bene la tua coscienza, però io vive con buona fiducia sopra di te, ma però mi dai un piccolo sospetto sopra di te per il motivo che mi trovo in questa sventura non ti sei ricordata del tuo povero sventurato e non sai che abbiamo prestato un giuramento avanti a Dio di essere fedeli fino alla morte. Forse ti hai messo in testa che io ti gridava quando era a libertà ma questo non era per cattiveria era per tuo bene, sempre per vedere le cose giuste e dovessi portarti in presenza con tre o quattro parole che ti direi ti mettessi a piangere come una bambina. Di tanto amore ch’o verso di te che tutti i passi che fo in quella stanza che mi ritrovo non posso mai allontanare la mente verso da te e prego Iddio che facesse venire presto quel giorno della mia libertà per venire fra le tue bracce e così passeremo quei pochi giorni che Iddio ci ha concesso contento e felice, ma sempre che le cose siano giuste, e ti fo conoscere che mi sento poca salute però non mi sento il male.
Io ti scrivo questa lettera, forse ti pare un po’ piccante e non prenderti collera per questo perchè è l’amore che ti porto verso di te. Se il tuo cuore sarà gentile verso di me, ti averto di non fare sapere niente ai miei genitori che ti ho scritto. Non altro ti saluto e dandoti mille baci di vero cuore e mi dichiaro tuo marito Mannara Giuseppe.

Modena 17 gennaio 1889

Carissima consorte
con molto piacere ricevei l’ultima vostra lettera con lire cinque delle quale ve ne invii i più vivi ringraziamenti. Ho ricevuto pure la cartolina del 1 gennaio. Vi averto però di non andare più a riclamare dai superiori.Questa mattina sono stato chiamato alla presenza del mio Signor Direttore il quale mi ha detto il vostro riclamo che si è fatto nella Prefettura.
Se io non v’ho scritto era che il mio pensiero stavo di non scrivervi più; e voi pure fate lo stesso; non vi prendete premura di scrivermi così io starò più in pace, in appresso ne parleremo.Vostro Marito Manara Giuseppe

Modena 16 febbraio 1899

Carissimo padre,
rispondo alla vostra in data 2 febbraio 99 dalla quale intesi che voi tutti state bene e così è pure di me ringraziando il Signore. In quanto al’occale non state a procurarlo che quando verrò alla libertà ne parleremo e state sicuro che voglio vivere da voi e vivere da buon cittadino e dite a mia madre che quando trova mia moglie di domandare con che modo cerca di tradirmi lei e anche suo padre. Altro non ho da dirvi che salutarvi di vero quore e dandovi un bacio sono vostro figlio Giuseppe.

Doc 8

Ultima lettera di Cesira Ferrari al fratello, Cremona 9 aprile 1889 (ASCr, Tribunale di Cremona, Corte d’Assise, b. 2541; autorizzazione n. 1/2017)

doc8

DOC. 9a, 9b

Estratto del protocollo della corrispondenza spedita e ricevuta da Giuseppe Manara in carcere (ASCr, Tribunale di Cremona, Corte d’Assise, b. 2541; autorizzazione n. 1/2017)

Doc. 10a, 10b, 10c

Fotografie della stele eretta dalle compagne di lavoro di Cesira nel cimitero di Cremona, restaurata come simbolo tangibile della volontà di continuare a contrastare la violenza contro le donne a cura del Soroptimist International d’Italia, Club di Cremona nel 2012

Clicca sulle immagini per ingrandirle

Doc. 11

File sonoro «La ballata di Babila» (Carla Milanesi, Cremona 2012, registrazione dal vivo)

Doc. 12

Testo originale dell’epigrafe posta alla base del monumento di Cesira Ferrari nel cimitero di Cremona (da M.L.Corsi, La storia della “povera” Cesira, p. 5)

Cesira Ferrari
bella e purissima sposa
fu nella notte dal 13 al 14 aprile 1889
in età di 25 anni
vilmente scannata dal marito
che tosto anche il padre di lei
trucidava
le filatrici cremonesi
a perenne rimpianto
della compagna di lavoro
ed a deprecazione di scelleratezza
che tutto un mite popolo offese
questo ricordo
p.p.

9. Proposta didattica: analisi delle fonti e rapporto tra fonti, testo e contesto

Avvertenze: in questa proposta di lavoro troverai trascritte alcune parti della copiosa documentazione relativa al processo contro Giuseppe Manara e suo padre Babila. La parti in carattere tondo sono dei riassunti di quanto gli atti riportano, mentre le parti in corsivo sono trascrizioni fedeli dei documenti (stralci) e, quando sono tratte dalla corrispondenza dei protagonisti, contengono errori e imprecisioni ortografiche, lessicali e sintattiche dovute alla scarsa scolarizzazione degli estensori cui Manara, analfabeta, si rivolgeva per leggere e scrivere le lettere.

I

  1. Leggi la sintesi e alcuni stralci della deposizione di Giuseppe Manara (doc.1): ti sembra disperato, o almeno dispiaciuto, per quello che ha commesso? Cerca egli di spiegare il duplice delitto come un improvviso ed incontrollabile scatto d’ira, del quale è pentito, o di giustificarlo come atto riparatore dell’offesa subita nella sua dignità di maschio e di marito, con la convizione di avere diritto e ragione di vendicarsi di chi aveva leso il suo onore (delitto d’onore)?
  2. Leggi ora, per verificare la tua interpretazione del doc. 1, l’articolo apparso sulla Gazzetta di Mantova il 25 novembre 1889 nel quale si racconta la reazione di Manara alla sentenza di condanna (doc. 2)
  3. Durante la deposizione (doc.1), come dipinge Manara la personalità della «povera Cesira»? Ha rispetto di lei o, benché morta, continua a denigrarla?
  4. Anche il suocero, interrogato, darà di Cesira un’immagine squallida, descrivendola ubriaca all’osteria del Pet come Manara diceva di aver appreso da una lettera anonima mai documentata. Molto diverso invece il contenuto della autentica lettera anonima ricevuta in carcere da Manara e repertoriata (registrata) agli atti del processo (docc. 3A, 3b). Leggila e scrivi due brevi profili dei due protagonisti maschili: Manara e suo padre Babila come emerge dai documenti che hai esaminato.
  5. Leggi ora anche lo stralcio della querela dello zio di Cesira (doc.4). In base a questo e ai documenti precedenti, quale contesto familiare e sociale si delinea?
  6. Leggi infine la dichiarazione del sindaco di Cremona sul comportamento di Cesira (doc. 5) e il ricordo pronunciato dalla presidente della Società di mutuo soccorso in occasione del suo funerale (doc. 6). Mettendo in relazione questi documenti e quelli letti in precedenza, traccia un breve profilo di Cesira.
  7. L’uccisione di Cesira può essere considerata un delitto annunciato: moltissimi erano infatti gli indizi che lasciavano presagire un epilogo di sangue: dalla condotta abitualmente violenta di Manara ai messaggi intimidatori contenuti nelle lettere, alla deleteria istigazione del suocero. Completa il quadro conoscitivo del clima di paura che Cesira viveva leggendo alcuni stralci delle lettere che ricevette dal marito (doc.7) sottolineando con due diversi colori la continua alternanza delle parti in cui la minaccia e di quelle in cui le dichiara amore. Leggi poi l’ultima lettera di Cesira al fratello (doc.8).
  8. Ora utilizza i dati e le riflessioni estrapolate dai documenti e integra adeguatamente la prima parte del testo.

II

  1. Molte delle azioni commesse da Giuseppe Manara e da suo padre Babila nei confronti di Cesira e della suocera, considerate all’epoca dei fatti inopportune, ma accettabili all’interno del matrimonio, sono oggi finalmente riconosciute reati penalmente perseguibili. Evidenzia nei documenti che hai letto le azioni che arrecavano danno materiale, morale o psicologico alle due donne, scegli per ciascuna una definizione attuale fra quelle elencate qui sotto e scrivila accanto al fatto narrato sul documento.
    • Minaccia
    • Intimidazione
    • Lesioni (percosse, violenza fisica, ferimento)
    • Violenza sessuale
    • Molestia
    • Violenza psicologica
    • Atto persecutorio
    • Violazione della libertà
    • Ingiuria
    • Diffamazione
    1. Osserva l’estratto del protocollo della corrispondenza spedita e ricevuta da Giuseppe Manara durante la sua carcerazione (docc. 9A, 9b). Egli invia poche lettere alla moglie, mentre ne scrive numerose al padre. Talvolta manda un saluto a Cesira all’interno della corrispondenza rivolta ai genitori nella quale tuttavia non manca quasi mai di inserire avvertimenti e minacce alla moglie. Osservando le sue modalità comunicative, quale ti sembra il ruolo di una moglie per Manara?

Che cosa si aspetta da lei? (amore, comprensione, obbedienza, vicinanza, sottomissione…)

Che cosa teme Giuseppe Manara?

– che la lontananza allenti l’amore di Cesira per lui, che ne è molto innamorato

– che Cesira si senta sola e sia in difficoltà ad affrontare i problemi senza il marito al fianco

– che Cesira si innamori di un altro

– che Cesira sfugga al suo controllo

– che il comportamento di Cesira metta in ridicolo la sua capacità di gestione assoluta e violenta della moglie, ritenuta elemento di virilità e punto d’onore.

    1. Quale di questi termini ti sembra il più adatto per definire l’uccisione di Cesira? Evidenzialo e spiega perchè

OMICIDIO: è il delitto di chi sopprime una o più vite umane intenzionalmente e consapevolmente attraverso un’azione o un’omissione.

UXORICIDIO: è l’uccisione della propria moglie o, in senso lato, del coniuge.

FEMMINICIDIO: è l’uccisione di una donna o di una ragazza, ma anche qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte.

  1. Dopo la morte di Cesira, privandosi di una parte del loro misero stipendio, le filatrici cremonesi vollero erigere una lapide commemorativa, commissionata a uno scultore locale, e porla sul luogo di sepoltura della compagna di lavoro, lungo un viale centrale del cimitero della città dove potesse essere visibile a tutti. Osserva la stele, recentemente restaurata (doc. 10), e decrivila attentamente. Confronta l’epigrafe posta alla base della stele (non più originale) con il testo primitivo (doc.12), sottolinea le differenze e osserva se vi sia o meno un cambiamento di significato.
  2. Ascolta infine La ballata di Babila (doc. 11) nell’interpretazione di Carla Milanesi (registrata dal vivo a Cremona nel 2012). Il canto, simile nella forma narrativa a quelli dei cantastorie, ma composto sulla melodia di una ballata certamente preesistente, si è tramandato fino a noi insieme ai canti delle filatrici. Rappresenta per alcuni aspetti la “voce popolare” sul delitto. Quali rifessioni ne puoi trarre?
  3. Ora integra la seconda parte del testo con gli approfondimenti emersi dal lavoro svolto seguendo le indicazioni da 9 a 13.