Il difficile equilibrio tra tradizione museale e innovazione storiografica
Il Museo Nazionale del Risorgimento come risorsa didattica
Un canone ingombrante
Una riflessione sull’efficacia didattica di una narrazione come quella costruita dal Museo nazionale del Risorgimento italiano di Torino non può che partire da una constatazione di fondo. La storia del XIX secolo in generale, e quella del processo militare, ideologico e culturale che ci ha portato a essere uno stato unitario in particolare, patiscono forse più di altri punti dei programmi scolastici di storia di una evidente mancanza di appeal, al cospetto sia degli studenti sia, spesso, degli stessi insegnanti.
Non è certo colpa di Mazzini e di Garibaldi, ma è innegabile che il progressivo scollamento del nostro presente dalle ragioni che hanno portato all’individuazione di quel “canone storico” – con le sue battaglie, i suoi martiri, i suoi statisti, i suoi pedagoghi – ha portato quest’ultimo a essere percepito come polveroso, stantio, geneticamente intriso dal più vetusto paternalismo patriottico come solo il libro Cuore, lontano dalla sensibilità e dalle priorità – culturali, civili – di oggi.
Se ormai da decenni la storiografia ha sottratto il Risorgimento dalle deteriori gore del suo uso pubblico e da almeno vent’anni si misura con letture in grado di restituirne la complessità sul piano culturale e sociale[1], le linee interpretative più recenti, anche in seguito alle sollecitazioni provenienti dal 150° anniversario dell’Unità, hanno potuto aggiungere varie ragioni di interesse al fenomeno: da un lato, puntando a ricostruirne la dimensione corale e – relativamente – “di massa”[2], dall’altro insistendo sugli aspetti maggiormente legati ai processi di inclusione, di assunzione di responsabilità collettiva, di sperimentazione di pratiche di cittadinanza, importanti anche al di là e al di sopra dei confini della “nazione” quale agente di storia e snodo identitario.
Un nuovo racconto
In piena consonanza con gli esiti di quella stagione di rinnovamento, il Museo nazionale del Risorgimento di Torino ha recentemente conosciuto un riallestimento totale dell’esposizione permanente, il quarto della sua lunga storia cominciata ufficialmente – se non contiamo gli allestimenti temporanei delle esposizioni del 1884 e del 1898 – nel 1908. Il museo è stato chiuso al pubblico dall’aprile 2006 al maggio 2011, mentre tutte le energie di staff e dirigenza venivano canalizzate nel nuovo progetto di allestimento. L’immane lavoro che è stato portato avanti in quei cinque anni è raccontato dal presidente e responsabile scientifico dell’intera operazione, Umberto Levra, nel catalogo del Museo[3] e non vale la pena di ripercorrerlo qui. Basti dire che oltre ai lavori di adeguamento strutturale e di allestimento fisico dell’esposizione, si è trattato di riclassificare e selezionare poco più di 53.000 pezzi, scegliendo quelli più adatti a costruire la nuova narrazione voluta dalla direzione scientifica del progetto: e cioè quella di un Risorgimento di respiro europeo, in una rappresentazione che sapesse integrare le vicende italiane nel più generale processo di costruzione degli stati nazionali, ma soprattutto di progressiva espansione delle strutture liberali e democratiche, in Europa.
È quello dell’integrazione – culturale, politica – del nostro continente il nucleo interpretativo forte che sta alla base del progetto di riallestimento. Esso è costruito su una piccola parte degli oggetti posseduti, per la precisione 2.579. Diciamolo subito: sono comunque troppi. È comprensibile l’esigenza di sfruttare al massimo una collezione così ampia, ma il visitatore rischia davvero di rimanere schiacciato dalla quantità di cose da vedere.
Il problema è – va riconosciuto – alla fonte: il fine è nobile, ma la materia narrativa ostica. Risignificare e riconnotare una collezione che – nonostante le più recenti acquisizioni si siano indirizzate nel senso dell’“affresco d’epoca” e della ricostruzione del clima politico e culturale del tempo – per decenni è stata alimentata per lo più da fini celebrativi e si è costruita sulla logica del “cimelio” ha costituito una sfida davvero ardua. E non era per nulla semplice “aggiornare” senza stravolgerlo un genius loci – così lo definisce ancora Levra nel catalogo – che sta a metà strada tra la grande tradizione occidentale del museo etno-storico-artistico e il reliquiario nazional-patriottico.
Sono tutte criticità oggettive, riconosciute in sede di progettazione e affrontate con la piena coscienza del valore dell’operazione culturale che si stava mettendo in atto, e ciononostante non superate o risolte – non del tutto, almeno – in modo adeguato.
La scelta dell’impianto cronologico, l’accumulo di livelli di significato – dall’evocazione cromatica delle sale (davvero poco riuscita, nell’opinione di chi scrive), ai pannelli esplicativi, alle schede sintetiche, alle didascalie – il già ricordato eccesso di oggetti esposti, la mancanza di una chiara gerarchia concettuale dei contenuti, dispersi in una teoria di tanti, troppi “capitoli”: tutto ciò concorre a rendere il museo un ambiente poco efficace dal punto di vista narrativo, e perciò anche dal punto di vista didattico.
Un museo non è un libro
A pensarci bene, siamo in presenza di una sorta di paradosso. Per certi versi – soprattutto per quantità e qualità dei testi e per il livello di approfondimento dei temi – attraversando le sale del museo, si ha l’impressione di avere a disposizione un manuale di storia del Risorgimento e dei processi di integrazione democratica europea esploso su tre dimensioni. Un manuale, tra l’altro, aggiornato rispetto alla ricerca e consapevole degli sviluppi delle diverse storiografie europee. Un manuale che opportunamente riconosce un Risorgimento lungo[4], in costante connessione con le dinamiche delle diverse aree dell’Europa che interagiscono con il nostro passato risorgimentale. Un manuale che ha l’ambizione di storicizzare un presente complesso, rappresentando una storia complessa. Ma, inevitabilmente, un museo non è un libro di testo: non può – non dovrebbe – trasmettere contenuti allo stesso modo, anche solo perché il “tempo di visita” non può essere settato alla stregua di un “tempo di lettura”.
È evidente e lodevole il grande sforzo interpretativo che cerca di tenere insieme gli oggetti, di collocare ciascuno in quadro di senso chiaro e connesso con gli altri. E però poi ci si aspetta che gli oggetti parlino da soli, che da soli esplicitino i nessi che li tengono insieme, lasciando spesso il visitatore un po’ interdetto di fronte a ciò che vede. E ancora: i video di approfondimento sono davvero molto belli, ma sono troppo lunghi per essere fruiti, ad esempio, nel corso di una normale visita d’istruzione.
L’impressione, insomma, è quello di un’operazione almeno in parte “sabotata” dall’altezza degli stessi suoi obiettivi: restituire la complessità dell’evento raccontato, rispecchiare la ricchezza della storiografia, non rinunciare alla grande quantità di oggetti della collezione museale. E ciò che sembra davvero mancare non è un solido impianto storiografico di fondo o una chiara consapevolezza della storia e del valore delle collezioni del museo. Il problema è più che altro la mancanza di un’idea allestitiva che risponda in modo coerente a queste domande: cosa può e deve essere oggi un museo del Risorgimento? Che scopi si propone? Quali pubblici vuole intercettare? Attraverso quali canali di comunicazione?
Maneggiare con cura
Tutto questo, naturalmente, rende il percorso abbastanza difficile da metabolizzare per lo studente e complesso da maneggiare per l’insegnante. Complesso, non impossibile, nel senso che la materia è talmente ricca che l’insegnante preparato e motivato può certamente costruire un proprio “piano di visita” coerente con le proprie esigenze didattiche (http://www.museorisorgimentotorino.it/didattica.php). Inoltre, le proposte per le scuole del museo stesso intendono, naturalmente, ovviare almeno in parte alle criticità della fruizione del percorso. L’offerta risulta allineata con quella delle altre realtà museali di questo genere e per quanto riguarda le attività di tipo laboratoriale non ignora le esperienze immersive e la didattica ludica e in certa misura anche le potenzialità del learning by doing e dei giochi di ruolo, in particolare nei Laboratori. L’efficacia delle visite – sia di quelle “tradizionali”, che comprendono l’intero museo, sia quelle tematiche (https://issuu.com/monikaszemberg/docs/didattica_2016-17_high) – dipende molto dalla sensibilità delle guide, e ne abbiamo incontrate di bravissime.
In definitiva, dal punto di vista dei contenuti, la visita al museo se opportunamente preparata e concordata con il personale adeguato può certo costituire un utile rinforzo per lo studio della storia del lungo XIX secolo. E può – qui sta il maggior merito di questa operazione, che pur presenta punti di debolezza – essere un’occasione di esercizio del pensiero critico, perché permette di lavorare con gli studenti sui concetti di democrazia, di libertà, di cittadinanza nella storia dell’Europa.
Il museo, con la sua interessante presa di posizione storica che è anche politica, naturalmente, è infatti un luminoso esempio di un problema che affligge molti dei luoghi di costruzione dei master narrative nati all’ombra della nazione, con l’obiettivo di mettere in scena la mitologia fondativa di quella nazione e le tappe della sua affermazione militare[5].
Una scelta narrativa come quella del Museo nazionale del Risorgimento – che la “nazione” la porta fin nel nome – è un importante segnale di come sia possibile interagire con la storia di quel concetto, ancora oggi foriero di spinte contraddittorie, in maniera aperta, mettendolo in relazione con contenitori identitari più ampi e ragionando in termini inclusivi e non esclusivi.
Tuttavia, il problema non è solo di contenuti, ma di forme della narrazione. Desacralizzare, smitizzare, in una parola storicizzare il “cimelio” vuol dire anche trovare nuovi linguaggi espositivi, auspicabilmente facendo un buon uso delle tecnologie digitali. Credo sia questa la direzione da prendere perché i nostri musei storici diventino snodi cruciali dell’offerta didattica e culturale del prossimo futuro.
Note:
[1] Mi riferisco in particolare agli studi di tipo “culturalista” avviati nella seconda metà degli anni Novanta in particolare da L. Riall, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, Donzelli, Roma 1997 (ed. originale 1994); A. M. Banti, La nazione del Risorgimento, Einaudi, Torino 2000; Ilaria Porciani, Famiglia e nazione nel lungo Ottocento, «Passato e presente», n. 57, 2002.
[2] A. M. Banti – P. Ginsborg (a cura di), Storia d’Italia, Annali – 22, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007.
[3] U. Levra, Il Museo Nazionale del Risorgimento Italiano di Torino, Skira, Ginevra-Milano 2016.
[4] G. Pécout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), Bruno Mondadori, Milano 1999 (ed. originale 1997).
[5] I. Porciani, La nazione in mostra. Musei storici europei, «Passato e presente», n. 79, 2010, pp. 109-132.