Una libreria della Repubblica. Settanta libri per settanta anni di Italia repubblicana
Abstract
Una bibliografia ragionata di come la letteratura italiana ha raccontato i settant’anni di storia della Repubblica, organizzata sotto sette voci, che vanno dal racconto della storia ai problemi del rapporto della società italiana col suo passato, alla Resistenza, al lavoro, alla comprensione delle sue trasformazioni. Non una bibliografia completa, ma, per ogni voce, dieci autori significativi.
Classico è quel libro che una nazione
o un gruppo di nazioni o il lungo tempo
hanno deciso di leggere come se nelle sue pagine
tutto fosse deliberato, fatale, profondo come il cosmo
e suscettibile di interpretazione senza fine.
J.L. Borges
Premessa
Premesso che il compito, elaborare una bibliografia ragionata di come la letteratura abbia raccontato i settanta anni di storia dell’Italia repubblicana, era – se preso troppo sul serio e con pretese di “scientificità” – semplicemente irrealizzabile, provo a dire quali sono stati i criteri con cui ho lavorato, e come vanno intese le schede che seguono. Lo farò per punti.
- Cosa (non) ho provato a fare. Per prima cosa, va detto che non ho provato a costruire il canone della letteratura italiana degli ultimi settanta anni: posto che questo sia possibile (e non credo lo sia), un canone nasce sempre – come dice anche Borges nella frase in esergo – dall’autorevolezza del tempo o della critica, e non dispongo né dell’una né dell’altra. Né, tantomeno, ho provato a costruire un elenco di consigli di lettura, di cui non si sentiva l’esigenza. L’operazione è stata invece quella di far interagire, sul filo di gusti ed idiosincrasie che sono personali ma che si spera possano sviluppare un discorso e un confronto dialogico, due elementi: la storia di una Repubblica relativamente giovane, e il racconto che di essa è stato fatto da parte degli scrittori di questi settanta anni.
- Forse, allora, è un gioco. Il modo migliore di considerare questa operazione è probabilmente pensarla come un gioco; magari serio come lo sanno essere i giochi, ma pur sempre un gioco. Del gioco ha infatti alcune caratteristiche: regole arbitrarie ma anche piuttosto rigide, una natura relazionale/dialogica, una sua intrinseca motivazione. Le regole sono date soprattutto dai numeri che delimitano il campo: sette temi-chiave intorno a cui agglomerare dieci titoli, per un totale di settanta libri: settanta come gli anni della nostra Repubblica. La natura dialogica è data proprio dal non essere, questi titoli, canonici: tutto può e deve essere messo in discussione, i percorsi e le scelte sono solo stimoli al dibattito, ipotesi da verificare o smontare. In questo senso, le assenze (quelle dovute a scelta e quelle derivate, più banalmente, dall’ignoranza dell’estensore) sono ancora più interessanti e feconde delle presenze. Sulla intrinseca motivazione, potrei parlare per me, ma preferisco lasciare la parola agli altri giocatori.
- Classici e no. Nella scelta, si è cercato di tenere conto di alcuni parametri generali: per prima cosa si è cercato un equilibrio fra titoli ormai in qualche modo canonici, e opere recenti che testimonino lo stato dell’arte della riflessione sull’Italia nella narrativa degli ultimi anni. Si è cercato poi, per quanto possibile stante anche lo squilibrio presente nella tradizione, di dare una voce significativa alle scritture femminili, e resta il rammarico di averlo fatto certamente molto meno di quanto si sarebbe dovuto. Si è voluto, infine, perseguire una deliberata mescolanza di autori grandi e autori marginali, opere capitali ed opere minori o dimenticate, allo scopo di suggerire una lettura prospettica, libera, problematica della tradizione letteraria. Nella convinzione che anche in opere periferiche si possa trovare qualcosa che appaia (ancora con Borges) “deliberato, fatale e profondo come il cosmo”.
- Le eccezioni. Alcune scelte si presentano come delle eccezioni rispetto all’impostazione generale, e come sempre in questi casi sono significative: la presenza di due libri pubblicati nel 1945, quando la Repubblica non esisteva ancora, segnala la capacità di Fortini e Carlo Levi di fare i conti, rispettivamente, con la storia recente e con il sostrato antropologico arcaico del nostro Paese, e di farlo con una straordinaria forza profetica e, se possiamo dire così, “costituente”; la scelta di introdurre alcune opere non narrative (le raccolte poetiche di Sereni, Di Ruscio, Pagliariani, i saggi di Pasolini) vale come avviso, se mai ce ne fosse bisogno, che questo gioco può moltiplicarsi fuori dal campo della narrativa letteraria, verso altri generi e forme, in direzioni molteplici che potrebbero comprendere anche la canzone, il cinema, il graphic novel e così via…
- I doppi. In qualche caso un autore è rappresentato con due opere, mentre altri – pur grandissimi – sono del tutto assenti. Rientra nell’arbitrarietà e nella libertà che mi sono concesso: la doppia presenza non è solo il riconoscimento di una grandezza letteraria o di una attenzione particolare alla scrittura di storia o civile, ma anche l’omaggio ad una predilezione personale. In un caso, poi, quello di misconosciuto e marginalissimo Di Ruscio, si tratta di una provocazione, di un gioco nel gioco: segnalare due opere di uno scrittore-operaio, nato a Fermo e vissuto quasi per tutta la vita ad Oslo, poco pubblicato e poco conosciuto fuori da una eletta schiera di sodali che nutrono per lui una ammirazione sconfinata, era più che altro il modo per sottolineare come tanto e forse il meglio del racconto dell’Italia recente è fuori dai circuiti ufficiali degli autori e dei critici mainstream e delle grandi case editrici. E, dunque, in larga parte fuori anche da questo mio elenco.
- Oltre l’Italia. Una domanda che mi sono fatto, e a cui ho cercato di rispondere solo in minima parte con il percorso Sradicamenti, è se abbia senso una delimitazione geopolitica così netta: l’Italia, la sua Repubblica. Non sarebbe meglio allargare lo spazio agli autori europei e mondiali che hanno raccontato la nostra penisola? O occuparci dello sguardo di chi, in lingua italiana, ha raccontato orizzonti più ampi: il mondo, o almeno l’Europa? Avrebbe, questo, meno a che fare con la storia dell’Italia Repubblicana rispetto ai libri qui proposti? Non credo. Ma, ovviamente, tutto non si può fare, e il progetto era già di per sé molto, troppo ambizioso. Rimedio solo minimamente segnalando un libro che, pur non riguardando direttamente l’Italia e non essendo scritto da un autore italiano, interpreta meglio di molti altri il senso profondo di cosa può essere l’approccio letterario alla storia di un paese, di una società: questo libro è Gli anni, della francese Annie Ernaux, pubblicato in Italia nel 2015 (Roma, L’orma), un libro con cui l’autrice “vorrebbe unificare la molteplicità di quelle immagini di sé, separate, non accordate fra loro, tramite il filo di un racconto, quello della sua esistenza, dalla nascita durante la Seconda guerra mondiale fino a oggi. L’esistenza di un singolo individuo, dunque, ma allo stesso tempo fusa nel movimento di una generazione”. Un libro che allo stesso tempo teorizza e realizza narrativamente quella fusione fra storia individuale e storia collettiva che è lo specifico contributo che la letteratura può offrire alla pratica e alla didattica della storia; un libro, quindi, che potrebbe essere idealmente l’introduzione al percorso e all’approccio che qui si prova a suggerire.
Una libreria della Repubblica
- Italia (autobiografia di una Repubblica)
La storia di una vita individuale come specchio della storia di un popolo, di una nazione, di un’epoca: in un secolo di crisi delle grandi interpretazioni storiche e politiche, molti scrittori hanno provato a rispondere alla necessità di fare il punto sullo stato presente dei costumi degli italiani con le armi della letteratura. Il primo percorso proposto seleziona alcuni volumi nei quali, più o meno programmaticamente, gli scrittori si pongono su questo crinale fra storia individuale e storia collettiva. È sembrato opportuno partire da una voce femminile, dalla storia vista dalla parte di lei, perché in questo modo si pone fin da subito in evidenza una specificità femminile nella capacità di collegare personale e collettivo, mondo degli affetti e mondo della politica, e anche perché evidenzia, per contrasto, l’immotivata marginalità a cui le voci femminili saranno destinate nelle successive sorti della letteratura italiana. In questo senso Alba De Céspedes, donna emancipata ed intellettuale di spicco (fu la direttrice della rivista che segnò la rinascita della cultura italiana dopo il fascismo: «Mercurio»), è una figura emblematica delle potenzialità e del coraggio delle scrittrici italiane: Dalla parte di lei, fin dal titolo, rivendica una specificità femminile dello sguardo, e racconta con coraggio la voglia di riscatto, di impegno e di autonomia, ma anche lo scacco, delle donne nel passaggio fra fascismo e repubblica. All’incirca lo stesso giro d’anni sarà oggetto del libro autobiografico di Natalia Ginzburg, che raccontando una famiglia ebrea, la sua, lambisce le vicende di tutta l’Italia. In quegli stessi anni, i primi Sessanta, Alberto Arbasino scriveva la prima versione del suo affresco dell’intellettualità italiana e intanto il poeta Vittorio Sereni veniva strutturando la sua terza raccolta poetica in forma di viaggio nei primi vent’anni della Repubblica: lo spaesamento provato al ritorno dalla guerra, l’incertezza e la protesta verso il neocapitalismo degli anni del boom, la conquista di una maggiore consapevolezza intellettuale e il ritorno all’impegno dei primi Sessanta. Dieci anni dopo, lo sguardo sulla tragedia e il fervore dei Settanta può esserci restituito dall’opera-testamento di Pier Paolo Pasolini, con la sua severa denuncia della mutazione antropologica dell’Italia e degli italiani. Ancora dieci anni ed esce l’opera di Tondelli più programmaticamente rivolta a offrire un quadro antropologico del suo tempo: Rimini, descrivendo il divertimentificio amorale e consumistico della riviera romagnola, offre un quadro addirittura profetico dell’Italia che, di lì a poco, saluterà il Novecento. Anche la narrativa più recente ha sentito il bisogno di confrontarsi con storie-sintesi-della-storia: lo ha fatto Francesco Piccolo, provando a spiegare attraverso un’indagine autobiografica il cambiamento occorso nel rapporto fra gli italiani e lo spazio pubblico, fra il privato e il politico; lo ha fatto, con ambizioni e consapevolezza maggiori, Francesco Pecoraro, che raccontando la vita e la morte del suo protagonista/alter ego ha indagato le contraddizioni e il disagio esistenziale di chi ha vissuto tutta la sua vita in tempo di pace; lo ha fatto Maurizio Maggiani mettendo in scena il fallimento (presunto) del suo progetto di scrivere un romanzo sui “costruttori di nazioni”; lo ha fatto infine Romano Luperini, critico letterario che, per chiudere la partita col suo Novecento, ha significativamente sentito il bisogno di affidarsi alle armi della narrativa, raccontando una storia di conflitti generazionali fra un padre maestro e partigiano, un figlio sessantottino e un “figlio del figlio” organico al mondo turbocapitalista di oggi.
De Céspedes Dalla parte di lei 1949
Ginzburg Lessico famigliare 1963
Arbasino Fratelli d’Italia 1963
Sereni Gli strumenti umani 1965
Pasolini Scritti corsari 1975
Tondelli Rimini 1985
Piccolo Il desiderio di essere come tutti 2013
Pecoraro La vita in tempo di pace 2013
Maggiani Il Romanzo della Nazione 2015
Luperini La rancura 2016
- Resistenza (un mito fondativo)
A metà degli anni Sessanta Carlo Dionisotti metteva a fuoco il rischio che il discorso sulla Resistenza, punto di svolta e di snodo dell’identità democratica e costituzionale italiana, si impantanasse fra «commemorazione del passato e attesa messianica del futuro», col rischio che gli storici, al riguardo, sbagliassero mira per troppa sollecitudine al «loro presente ideologico e pratico». Alle incertezze della storiografia, poi sanate dai Pavone, dai Peli, dai Cavaglion, ha fatto da contraltare lo sguardo degli scrittori, che senza tentennamenti hanno subito messo a fuoco il valore assoluto, ma anche gli inevitabili aspetti oscuri o irrisolti, di quella fondativa epopea civile. Il percorso che qui si propone privilegia allora le opere che più di altre hanno enfatizzato un approccio problematico e non retorico a quel pezzo di storia che proprio per la sua grandezza e il suo valore identitario era più a rischio di mitizzazione strumentale.
Piace iniziare dalla raccolta di versi che racconta il percorso di faticoso attraversamento e superamento del fascismo di un intellettuale di famiglia ebraica come Franco Fortini, dove si fa verso, anche con punte espressionistiche, la violenza dell’oppressione nazifascista e della lotta di Liberazione. Due anni dopo esce il primo libro che prova a dislocare lo sguardo sulla Resistenza attraverso la scelta di un punto di vista antieroico: è il romanzo d’esordio di uno scrittore che anche uno dei più lucidi critici della narrativa italiana della Resistenza: Italo Calvino. Lo stesso Calvino che già nel 1949 riconosce ne La casa in collina di Cesare Pavese il racconto di una non-adesione vista «con sana lucidità morale», lo stesso che nel 1964 sancirà la centralità di Una questione privata di Beppe Fenoglio, che racconta una Resistenza «vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti». Un 1964 che vede la comparsa dell’altro grande romanzo italiano sulla Resistenza, opera del partigiano dispatriato Luigi Meneghello, un libro nato, secondo le parole dell’autore «con un preciso proposito civile e culturale», con la pretesa di entrare «nella forgia in cui si fabbrica […] la coscienza incompiuta del proprio paese». I piccoli maestri non fu capito fino in fondo dalla critica italiana, così come dieci anni dopo suscitò ampie polemiche il vasto romanzo che Elsa Morante dedica alla Storia: polemiche per un approccio scomodo, scorretto e scandaloso alla storia, compresa quella della Resistenza, che affiora attraverso il contraddittorio e vitale personaggio di Nino, prima camicia nera, poi partigiano, poi contrabbandiere.
L’esigenza di guardare alla Resistenza da punti di vista non convenzionali porta a risultati straordinari con un libretto scritto da uno dei più grandi protagonisti di quella stagione: il cuneese Nuto Revelli, che dopo aver raccontato la guerra dei poveri e il mondo dei vinti ha sentito il bisogno di provare a ridare un nome al corpo del nemico ucciso, e di raccontare questo suo tentativo in un libro-apologo.
Un punto di vista diverso, straniante, e allo stesso tempo lucido, proprio anche di due libri recenti (ai quali se ne potrebbero aggiungere anche altri: almeno Se avessero di Vittorio Sermonti): quello di Massimo Zamboni, che ricostruisce la vicenda del nonno Ulisse, fascista ucciso nel 1944 dai partigiani; e quello di Stefano Valenti, che racconta della vendetta che un altro Ulisse cova e attua con cinquant’anni di ritardo nei confronti del fascista che ha distrutto la sua famiglia.
Fortini Foglio di via 1945
Calvino Il sentiero dei nidi di ragno 1947
Pavese La casa in collina 1948
Cassola La ragazza di Bube 1960
Fenoglio Una questione privata 1963
Meneghello I piccoli maestri 1964
Morante La storia 1974
Revelli Il disperso di Marburg 1994
Zamboni L’eco di uno sparo 2015
Valenti Rosso nella notte bianca 2016
- Passato (ogni romanzo storico parla dell’oggi)
Facendo il verso all’avvio famoso del Nome della rosa potremmo dire: “Naturalmente, i Promessi sposi”! È infatti il capolavoro manzoniano che fonda la tradizione romanzesca italiana, e la fonda sul romanzo storico: un romanzo storico non inteso come favolosa ed esotica rievocazione di mitiche origini, alla Scott, ma come strumento privilegiato per parlare, in maniera indiretta ma eloquente, della contemporaneità. Se nei primi anni della Repubblica l’urgenza del passato recentissimo, come abbiamo appena visto, domina le scritture, a rimettere in moto la tradizione manzoniana-ottocentesca del romanzo storico come apologo sul presente sarà un autore sotto tutti i punti di vista eccentrico: l’aristocratico siciliano Giuseppe Tomasi di Lampedusa che col suo Gattopardo darà un capolavoro alla prosa italiana e un modello a chi da lì in poi vorrà occuparsi di storia per parlare al presente. Il testimone, poco dopo, sarà preso, in tutt’altra prospettiva ideologica (ma con lo stesso sicilianissimo senso della sconfitta) dal neo-illuminista Leonardo Sciascia nel suo secondo romanzo, che attraverso la storia del falsario Giuseppe Vella e dell’avvocato illuminista Francesco Paolo Di Blasi racconta la storia senza tempo del potere della menzogna e del destino di sconfitta di chi insegue ragione e verità; temi che, pur con scelte stilistiche tutt’affatto diverse, saranno ripresi da Enzo Striano nel suo romanzo che racconta la misera fine di Eleonora de Fonseca Pimentel e dei sogni della Repubblica Napolitana del 1799. E l’ambientazione di questi romanzi, un Sud sospeso fra aperture illuministiche e ambiente plumbeo e retrogrado della tradizione, sarà ripreso nel suo romanzo storico del 1990 anche da Dacia Maraini, con un taglio più attento alla psicologia dei personaggi e alla descrizione delle relazioni familiari.
Una famiglia, nell’avvicendarsi delle generazioni fra Unità e Repubblica, è protagonista dell’epopea anarchica di Piazza d’Italia, opera d’esordio di Antonio Tabucchi, che guarda la storia dalla parte delle vittime, in una versione marqueziana dell’epica dei vinti di verghiana memoria. Diverso è l’approccio alla storia del capolavoro del postmoderno italiano, Il nome della rosa di Umberto Eco, in cui il rovesciamento ironico della tradizione, l’accumulo straniante di citazioni e rimandi, rende meno immediata la percezione del discorso sull’oggi portato comunque avanti dall’autore, ad esempio attraverso le dispute teologiche fra le varie anime dei francescani che rinviano alle divisioni della sinistra al tempo del terrorismo.
Diverso, più tradizionale, è l’approccio di Sebastiano Vassalli, che torna a tempi (gli anni a cavallo fra Cinque e Seicento) e atmosfere (le prealpi, questa volta piemontesi e non lombarde) manzoniani raccontando la storia di Antonia, la “strega” di Zardino, storia senza tempo di ignoranza e pregiudizi.
Venendo ad anni recentissimi, tempi di New Italian Epic, fra i tanti possibili si segnala il romanzo di Igiaba Scego, giovane scrittrice di origini somale che mette in tensione il passato coloniale dell’Italia e la sua recente storia di paese di massiccia immigrazione e difficile integrazione; l’opera dedicata alla Prima Guerra Mondiale dal collettivo Wu Ming, sempre attento ad una rilettura alternativa della storia; e il recentissimo romanzo di Simona Baldelli incentrato su una vicenda di emancipazione e di identità femminile ambientata, ancora una volta, nel Settecento.
Lampedusa Il Gattopardo 1958
Sciascia Il consiglio d’Egitto 1963
Tabucchi Piazza d’Italia 1975
Eco Il nome della rosa 1980
Striano Il resto di niente 1986
Vassalli La chimera 1990
Maraini La lunga vita di Marianna Ucrìa 1990
Igiaba Scego Adua 2015
Wu Ming L’invisibile ovunque 2015
Baldelli La vita a rovescio 2016
- Lavoro (l’Articolo Uno)
Raccontare il mondo del lavoro significa raccontare i grandi momenti di trasformazione dell’Italia repubblicana. Due, in particolare: quello del boom economico, iniziato negli anni Cinquanta ma registrato in letteratura soprattutto nel decennio successivo, e quello della crisi, della precarietà, della dismissione di un intero sistema produttivo e con esso di un modo di vivere la vita individuale e collettiva. In mezzo, l’inno al lavoro di chi, nella passione per i suoi due mestieri, aveva ritrovato un risarcimento, seppur provvisorio, alla disumanizzazione del lager: Primo Levi («se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra»).
Alla metà degli anni Cinquanta è Vittorini a scoprire (e pubblicare sul «Menabò») l’opera di Lucio Mastronardi, che forse per primo intuisce la deriva morale di un popolo ossessionato solo dalla voglia di arricchirsi, per il quale il lavoro smette di essere un fondamento di dignità per diventare strumento di una disumanizzazione consumistica. Di poco successivo è il romanzo di esordio di Paolo Volponi che denuncia, attraverso lo specchio deformante delle folli farneticazioni del protagonista, la reale alienazione della fabbrica moderna, mentre negli stessi anni Vasco Pratolini descrive la fabbrica come il sogno-trappola dei proletari fiorentini, di uno dei quali, Bruno, racconta l’educazione morale in La costanza della ragione. Il neoavanguardista Elio Pagliarani, invece, sceglie la forma di una poesia sperimentale, capace di registrare anche le idiosincrasie linguistiche del mondo impiegatizio milanese, per raccontare la poco edificante favola urbana di cui è protagonista la sua «Carla Dondi fu Ambrogio di anni / diciassette primo impiego stenodattilo».
Un lungo salto fatto di progressiva marginalizzazione della classe operaia, raccontata anche dalle semplici e grandi poesie del marchigiano Luigi Di Ruscio, ci porta all’intenso romanzo-reportage con cui Ermanno Rea racconta con pietas e partecipazione la fine dell’Ilva di Bagnoli: un libro considerato un punto di riferimento per quanti, negli ultimi quindici anni, hanno voluto raccontare l’Italia della precarizzazione e – per certi versi – della fine del lavoro. Si considerino, a titolo di esempio, le opere di
Andrea Bajani (protagonista un uomo che per lavoro “dismette” forza lavoro in esubero), Silvia Avallone (ambientato in un’altra grande realtà operaia italiana vittima di una lunga e irrimediabile crisi, quella dell’industria metallurgica di Piombino) e Angelo Ferracuti, grande osservatore – fra reportage e romanzo – della realtà sociale italiana, e delle grandi tragedie del lavoro come quella della Mecnavi di Ravenna del 13 marzo 1987, in cui persero la vita 13 operai.
Mastronardi Il calzolaio di Vigevano 1956
Volponi Memoriale 1962
Pratolini La costanza della ragione 1963
Pagliarani La ragazza Carla 1965
- Levi La chiave a stella 1978
Rea La dismissione 2002
Bajani Cordiali saluti 2005
Di Ruscio Poesie operaie 2007
Avallone Acciaio 2010
Ferracuti Il costo della vita 2013
- Violenza (una Repubblica incompiuta)
La storia recente d’Italia è anche la storia di una Repubblica incompiuta, di interstizi in cui la comunità statale fondata sulla Costituzione non è riuscita ad insediarsi stabilmente, lasciando il campo a forze altre, opache e criminali. La letteratura, nel tempo, si è fatta carico di descrivere e denunciare, dipanare e svelare. Che si trattasse di denunciare l’esistenza di porzioni di territorio fuori dal controllo dello Stato e in mano alla criminalità organizzata (come fa, per tempo, Leonardo Sciascia), o di pezzi di Stato che agiscono secondo logiche proprie e violente (si veda, ad esempio, la ricostruzione che fa Corrado Stajano della vicenda di Franco Serantini, l’anarchico ucciso dalla polizia nel 1972), il nodo portato alla luce è sempre quello di una violenza perpetrata o subita in un mondo che lo Stato non riesce a controllare a pieno. Negli anni più recenti la declinazione romanzesca di questo tema, complice l’affermarsi di una pregevole e consapevole narrativa italiana di genere, si è fatta via via più ricca, sia che si trattasse di indagare la “zona grigia” fa politica e criminalità (Giancarlo De Cataldo) o fra criminalità e finanza (Walter Siti); o di portare alla luce l’oscuro mondo della camorra (il libro di Antonio Franchini dedicato a Giancarlo Siani, quello del neoavanguardista Nanni Balestrini su Francesco Schiavone, libro quest’ultimo definito da Roberto Saviano «una fenomenologia della vita al tempo della camorra», per non parlare poi del caso di Gomorra dello stesso Roberto Saviano, opera chiave del dibattito culturale e letterario dell’ultimo decennio); o di fare i conti con gli anni del terrorismo (provano a farlo Silvia Ballestra, che racconta gli anni Ottanta di provincia fra lotte sindacali, droga e colpi di coda della lotta armata – in particolare, la morte di Roberto Peci; e il milanese Giorgio Fontana, che per creare il suo eroe borghese, un giudice ucciso dai terroristi rossi nella Milano dei primi anni Ottanta, si ispira alle figure di Emilio Alessandrini e Guido Galli; e infine Nadia Terranova, che sceglie un taglio intimista e familiare per raccontare l’attraversamento degli anni Settanta di due giovani che sfiorano lotta armata e droga, rimanendone cambiati per sempre).
Sciascia Il giorno della civetta 1960
Stajano Il sovversivo 1975
Franchini L’abusivo 2001
De Cataldo Romanzo criminale 2002
Balestrini Sandokan. Storia di camorra 2004
Saviano Gomorra 2006
Ballestra I giorni della rotonda 2009
Siti Resistere non serve a niente 2012
Fontana Morte di un uomo felice 2014
Terranova Gli anni al contrario 2015
- Dislocazioni (Cronache da luoghi e paesaggi laterali)
Questo percorso nasce dalla consapevolezza che una storia dell’Italia repubblicana non può essere raccontata solo da luoghi che intersecano direttamente, più o meno violentemente, la grande storia. C’è un’Italia marginale, isolata e isolana, perennemente vinta e sconfitta e refrattaria ai grandi mutamenti epocali, che reclama un suo posto nell’affresco, pena uno squilibrio, una sfocatura.
L’archetipo delle narrazioni di questa Italia è il capolavoro di Carlo Levi, pubblicato, quasi incunabolo dell’Italia democratica che verrà, proprio nel 1945, e non a caso è la storia di un confino, e dell’incontro di un’Italia colta e cosmopolita con un’Italia arcaica e primigenia, apparentemente esclusa dalla Storia. In quegli anni osserva un mondo per certi versi simile, ruvido e coriaceo come la sua scrittura, l’ex partigiano Beppe Fenoglio, che alterna ai racconti della guerra contro i fascisti quelli della guerra ingaggiata dei contadini della Langhe con una terra avara e infida. Sono anche gli anni dell’esordio di quello che sarà il più grande cantore, in versi, del paesaggio di provincia italiano, dei suoi significati profondi e nascosti, dello struggimento per la sua progressiva perdita e distruzione: Andrea Zanzotto, conterraneo a sua volta di un altro grande custode della memoria del paesaggio del Nordest: Mario Rigoni Stern.
Cercare sguardi dislocati sull’Italia significa essere disposti ad un viaggio periferico e marginale: Italo Calvino, ad esempio, per scrivere il suo libro più lucidamente politico, più criticamente impegnato, ha bisogno di collocarsi nel luogo per eccellenza della segregazione e dell’isolamento: il Cottolengo di Torino. Ma senza arrivare a questi estremi, sarà interessante guardare l’Italia con gli occhi del nuorese Salvatore Satta, o con quelli del contadino Genè di Giovanni Arpino, perso nelle campagne della provincia piemontese ad osservare impotente la fine del suo mondo, o del triestino Claudio Magris, programmaticamente rivolto alla ricostruzione di microcosmi mitteleuropei che sono, letteralmente, piccoli mondi senza tempo. Piccoli mondi come quelli percorsi da un giornalista-scrittore-camminatore instancabile come Paolo Rumiz, e dal poeta-paesologo Franco Arminio, figlio di quelle stesse terre descritte da Carlo Levi: i loro libri qui segnalati raccontano, entrambi, l’Italia interna, alpina e appenninica, lontana dalle coste e dalle grandi strade di comunicazione, dalle città e dai nodi industriali e culturali: quella dove la Storia e il Tempo sembrano sempre indecisi fra lo stare e l’andare.
Carlo Levi Cristo si è fermato ad Eboli 1945
Zanzotto Dietro il paesaggio 1951
Fenoglio La malora 1954
Rigoni Stern Il bosco degli urogalli 1962
Calvino La giornata di uno scrutatore 1963
Satta Il giorno del giudizio 1977
Arpino Il contadino Genè 1982
Magris Microcosmi 1997
Rumiz La leggenda dei monti naviganti 2007
Arminio Geografia commossa dell’Italia interna 2013
- Sradicamenti (storie di partenze e ritorni)
«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via»: Cesare Pavese ci dice che avere un paese implica di necessità la possibilità di uno sradicamento, costruisce le premesse per l’ansia del partire e la nostalgia del tornare. Continuando la sua storia secolare, anche l’Italia repubblicana è paese di migrazioni, di continui movimenti di persone e di popoli, di intrecci di storie e affetti.
Fra i classici, Pavese indaga il tema nell’urgenza esistenziale, mentre Luciano Bianciardi fa della storia del suo emigrante dalla Maremma a Milano uno strumento di denuncia sociale e di sfogo di una lucida rabbia “politica”. Complice il distacco portato dalla distanza e dal tempo, Luigi Meneghello riesce ad analizzare al sua esperienza (la formazione di brillante studente fascista, l’apprendistato antifascista fra i partigiani, il sogno di una nuova Italia laica, giusta e libera, la disillusione del dopoguerra e la costruzione di una vita nuova in Inghilterra, lontano da quella Patria per la quale pur aveva lottato e rischiato la vita nel 43-45) con pensosa leggerezza e intelligente ironia; mentre non basta a Enzo Bettiza la sontuosità della prosa a nascondere le ferite dello strappo senza ritorno dalla Dalmazia mitteleuropea della sua infanzia.
Il nuovo secolo è stato caratterizzato, fra l’altro, dall’emergere di un filone di scrittura migrante, e in particolare di scrittori che, nati all’estero (a volte da famiglie di emigranti italiani) e cresciuti in una lingua straniera, hanno scelto l’italiano come idioma d’adozione attraverso il quale indagare la loro vicenda umana sospesa fra due mondi e due culture. È, per certi versi, il caso di Carmine Abate, nato in Calabria da famiglia italo-albanese, che si trasferisce in Germania e lì comincia a scrivere in italiano della sua terra e cultura d’origine; lo è quello di Adrian Bravi, nato in argentina da famiglia di origini italiane, che si trasferisce in Italia ventenne e sceglie l’Italiano come lingua dei suoi romanzi; lo è, ancor più linearmente, quello di Anilda Ibrahimi, che in italiano ha scritto la sua storia, tutta al femminile, dedicata alle trasformazioni che hanno caratterizzato la società albanese lungo tutto il Novecento. Sia Ibrahimi che Bravi, nelle loro opere, raccontano attraverso la lingua italiana una storia fortemente ancorata al loro paese d’origine, ma allo stesso tempo narrano di un distacco, che proprio l’adozione di quella lingua rende ancora più pregnante e definitivo.
Anche il protagonista del romanzo di Marcello Fois, il «sardo-friulano» Vincenzo Chironi, è un uomo dimidiato, senza radici, che fatica a inserirsi in una realtà che è, e insieme non è, sua. Così Ninetto, protagonista dell’ultimo romanzo di Marco Balzano, costretto ad emigrare dodicenne, da solo, nella Milano dei primi anni Sessanta, mancherà anche da adulto l’appuntamento con una integrazione effettiva.
Chiude questa rassegna la segnalazione dell’edizione postuma dei quattro romanzi di Luigi Di Ruscio, operaio scrittore nato nella provincia marchigiana e trasferitosi a 27 anni, in pieno boom economico, a Oslo, dove per quarant’anni ha lavorato in fabbrica e ha scritto tantissimo, raccontando da quello speciale punto di osservazione, straniato e profetico, la sua vicenda di lavoro, poesia ed emigrazione, e le vicissitudini di un’Italia amata, lasciata e mai perduta.
Pavese La luna e i falò 1950
Bianciardi La vita agra 1962
Meneghello Il dispatrio 1993
Bettiza Esilio 1996
Abate La festa del ritorno 2004
Bravi Sud 1982 2008
Ibrahimi Rosso come una sposa 2008
Fois Nel tempo di mezzo 2012
Balzano L’ultimo arrivato 2014
Di Ruscio Romanzi 2014