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Testimoniare è immaginare la nostra storia. Le opere di Alberto Longoni sulla deportazione e la prigionia

Testimoniare è immaginare la nostra storia. Le opere di Alberto Longoni sulla deportazione e la prigionia

Più volte l’ho visto.

Ed era la cosa più dura.

A questo non ci si abituava.

Era impossibile.

Sì. Bisogna immaginare (…).

Filip Müller, in Claude Lanzmann, Shoah

 

I lavori di Alberto Longoni esposti in questa mostra costituiscono un’antologia di opere create con tecniche diverse e in contesti differenti accomunati da un unico filo conduttore, l’esperienza della deportazione e della prigionia dell’artista. Sulla tragica esperienza della deportazione, della prigionia, del lavoro coatto in Germania, ci rimangono le parole stesse di Longoni in un prezioso dialogo con Pinin Carpi: «Arriva la guerra, mi mandano nell’isola di Creta, nella marina da sbarco. Conosco il disegno, divento il segretario del comandante. Nei momenti di pausa disegno per il comandante galeoni veneziani del Settecento: imparo così il disegno navale, linee di galleggiamento ecc. L’8 settembre siamo circondati dai tedeschi. I mille marinai di Creta si rifiutano combattere e di collaborare con i tedeschi; circondati e imprigionati ci portano in Germania e ci obbligano a lavorare per loro. Uno-due anni di prigionia sono duri, arrivo a pesare 35 chilogrammi. La storia qui è drammatica. Berlino con i bombardamenti degli Americani, la fame, il freddo, la sete, soprattutto la paura. Nel Mellenburg incontro Lidia che fa l’interprete in una grande fattoria. Una mattina, dopo un turno di notte – che durava dalle 6 di sera alle 6 del giorno dopo – mi pesano: 36 chilogrammi! Mi mandano a Luckenwalde e lì trovo un medico che mi dice: “Non hai niente, sei solo deperito. I contadini qui attorno cercano lavoratori: se riesci a superare il primo mese di prova te la cavi; puoi mangiare perché hanno le patate”. E così me la son cavata».[1]

Con queste parole asciutte, prive di enfasi, percorse da una malinconica autoironia, Longoni ricostruisce una parte decisiva della propria esistenza, quella della deportazione, dell’internamento e della riduzione in schiavitù in un lager tedesco, fino al fortunato ritorno a casa dopo aver conosciuto Lidia Josepyszyn, anch’essa prigioniera polacca deportata in Germania, che diventerà sua moglie.


Nota:

[1] A. Longoni, P. Carpi, Un costruttore di città, in «Linea grafica», 25 giugno 1972, p. 40. Si cita da M. Cerizza, Alberto Longoni: artista e illustratore, tesi di laurea discussa presso l’Università degli studi di Bologna, p. 17 (disponibile on line al seguente indirizzo: http://www.centrostudifossoli.org/PDF/Pub/Tesi_Longoni.pdf). Lo studio di Cerizza è probabilmente il più completo e approfondito sull’arte longoniana.