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Caro Nino, ti scrivo. Il giorno che ho indossato i tuoi occhiali

Caro Nino, ti scrivo. Il giorno che ho indossato i tuoi occhiali
Abstract

Il percorso proposto agli studenti della classe 5C Informatica dell’istituto IISS Ettore Majorana di Martina Franca (TA) si è articolato in tre fasi:1. lettura di alcuni testi gramsciani in cui sono affrontate tematiche riconducibili alla dimensione più intima dell’esistenza del pensatore sardo (i rapporti con la famiglia, le relazioni sentimentali, lo sport ecc.) e alla sua riflessione sul sistema scolastico e sulla formazione culturale delle masse italiane; 2. stesura di elaborati, in forma di “epistole” rivolte a Gramsci, nelle quali ciascuno ha restituito le riflessioni suscitate dall’incontro con i suoi scritti; elaborazione di una “epistola corale”; 3. realizzazione di un video nel quale è ripercorsa una “giornata tipo” di un qualsiasi adolescente, illuminata dall’incontro con il suo pensiero; il testo prodotto nella seconda fase ha funto da traccia di sottofondo al prodotto multimediale.

Gramsci e la scuola

Gramsci dedica grande attenzione ai temi della formazione e alla scuola. Ne è precoce testimonianza il celebre tema redatto per la licenza elementare, nel quale, sollecitato dall’insegnante a esprimersi rispetto alla ipotetica decisione di un compagno «benestante e molto intelligente» di abbandonare gli studi, un Gramsci appena dodicenne invitava animosamente il suo immaginario interlocutore a cambiare idea:

Carissimo amico,

Poco fa ricevetti la tua carissima lettera, e molto mi rallegra il sapere che tu stia bene di salute. Un punto solo mi fa stupire di te; dici che non ripren­derai più gli studi, perché ti sono venuti a noia. Come, tu che sei tanto intelli­gente, che, grazie a Dio, non ti manca il necessario, tu vuoi abbandonare gli studi? Dici a me di far lo stesso, perché è molto meglio scorrazzare per i campi, andare ai balli e ai pubblici ritrovi, anziché rinchiudersi per quattro ore al giorno in una camera, col maestro che ci predica sempre di studiare perché se no reste­remo zucconi. Ma io, caro amico, non potrò mai abbandonare gli studi che sono la mia unica speranza di vivere onoratamente quando sarò adulto, perché come sai, la mia famiglia non è ricca di beni di fortuna. Quanti ragazzi poveri ti invidiano, loro che avrebbero voglia di studiare, ma a cui Dio non ha dato il necessario, non solo per studiare, ma molte volte, neanche per sfamarsi. Io li vedo dalla mia finestra, con che occhi guardano i ragazzi che passano con la cartella a tracolla, loro che non possono andare che alla scuola serale. Tu dici che sei ricco, che non avrai bisogno degli studi per camparti, ma bada al proverbio “l’ozio è il padre dei vizi.” Chi non studia in gioventù se ne pentirà amaramente nella vecchiaia. Un rovescio di fortuna, una lite perduta, possono portare alla miseria il più ricco degli uomini. Ricordati del signor Fran­cesco; egli era figlio di una famiglia abbastanza ricca; passò una gioventù brillan­tissima, andava ai teatri, alle bische, e finì per rovinarsi completamente, ed ora fa lo scrivano presso un avvocato che gli da sessanta lire al mese, tanto per vivacchiare. Questi esempi dovrebbero bastare a farti dissuadere dal tuo proposito.

Torna agli studi, caro Giovanni, e vi troverai tutti i beni possibili. Non pigliarti a male se ti parlo col cuore alla mano, perché ti voglio bene, e uso dire tutto in faccia, e non adularti come molti.

Addio, saluta i tuoi genitori e ricevi un bacio dal Tuo aff.mo amico Antonio1

Già allora la riflessione sulla necessità di dotarsi di solidi strumenti culturali si fondava su una incondizionata fiducia nella possibilità di riscatto sociale che solo la cultura avrebbe offerto ai subalterni.

Gramsci, di modestissime condizioni economiche, che a dispetto degli eccellenti risultati scolastici conseguiti al termine del primo ciclo scolastico dovette lavorare per sostenere la famiglia e attendere due anni prima di iscriversi al ginnasio, scopriva proprio allora «la differenza e la distanza tra ricchi e poveri», che di lì a non molto avrebbe letto «nei termini più netti della contrapposizione tra “oppressi e oppressori”»2.

Vi presento Nino

È a partire dal tema del 1903 che, all’inizio del corrente anno scolastico, “ho presentato” Antonio Gramsci ai 16 studenti di una quinta superiore di un istituto industriale informatico di Martina Franca, nella provincia di Taranto. Nel momento in cui è stato cominciato questo modulo, eravamo arrivati nel programma di Storia al primo dopoguerra e al “biennio rosso” in Italia, non ancora alla dittatura fascista. Questo dato, apparentemente problematico, si è rivelato un prezioso stimolo ad approfondire aspetti del pensiero e dell’opera gramsciani inediti, rispetto ai (rari) cenni su Gramsci che i manuali scolastici dedicano ai Quaderni. Alludo non solo alla produzione precarceraria del giovane militante socialista sardo, emigrato nella grande città industriale di Torino, locomotiva del movimento operaio italiano, ma anche a quel complesso di scritti, prevalentemente di carattere epistolare, dai quali emerge la dimensione più squisitamente intima della sua esistenza. Mi riferisco alle lettere a Giulia e Tatiana e agli altri suoi cari, drammatica testimonianza della lunga e terribile detenzione che lo ha tormentato negli ultimi anni della sua vita, nelle quali gli aspetti affettivi e familiari sono puntualmente coniugati con riflessioni di carattere teorico e politico.

«Unità di teoria e pratica»

Gli studenti hanno cominciato a conoscere Gramsci attraverso alcuni testi, articoli di giornale e lettere, che rappresentano una fonte documentaria molto utile per scopi didattici, per avvicinare alla biografia e al pensiero gramsciano. Agli studenti è stato proposto di immaginare di vivere una giornata indossando le lenti di Gramsci, riflettendo sulla realtà quotidiana alla luce dell’incontro con il suo patrimonio di idee. La scelta dei testi è stata orientata quindi da questa esigenza, lasciando agli studenti la possibilità di scegliere tra una rosa di temi che potessero attraversare aspetti e problemi del loro presente. La loro idea di porsi come obiettivo finale del modulo la realizzazione in un prodotto multimediale, che desse spazio anche alle competenze informatiche acquisite nel corso di studio, è stata subito accolta. Ne è conseguito un atteggiamento complessivamente più positivo della normale accoglienza riservata alle attività didattiche tradizionali. Mi è parso, d’altronde, che quella richiesta lanciasse un’interessante sfida: come “restituire” le suggestioni derivate dall’incontro con il testo gramsciano utilizzando il “linguaggio” privilegiato dai nati nel terzo millennio? Un linguaggio che, peraltro, presenta un’articolazione tale da richiedere molte e differenti professionalità, come gli studenti che frequentano la nostra scuola sanno bene.

Agli studenti, inoltre, è stato chiesto di cooperare al fine di realizzare un lavoro unico, sorta di «elaborazione unitaria di una coscienza collettiva», citando (un po’ impropriamente) il sardo, e di effettuare insieme le scelte stilistiche relative al prodotto multimediale.

Schema del lavoro
  1. Proposta alla classe di una rosa di tematiche entro cui scegliere, insieme, quali approfondire;
  2. Lettura e discussione a scuola di una selezione di testi effettuata in base a quanto stabilito nella fase a);
  3. Rilettura a casa dei testi discussi in classe e restituzione delle riflessioni suscitate dagli stessi;
  4. Messa a punto, a cura della docente, di un collage degli elaborati degli studenti;
  5. Lettura in classe del testo unico e definizione delle scene da realizzare nel video;
  6. Realizzazione del video.
Lo sviluppo dell’attività

Al termine della fase c) i testi redatti dagli studenti sono diventati i tasselli di una sorta di “epistola”, corale e postmoderna, rivolta ad Antonio Gramsci. Avendo lasciato ad ognuno la libertà di scegliere su quali aspetti, tra quelli discussi in classe, ragionare, ne è derivato uno squilibrio legato al maggiore interesse che alcuni temi hanno riscosso tra i ragazzi; è stato quindi necessario sollecitare alcuni, tra coloro che hanno maggiore dimestichezza con la scrittura, affinché “coprissero” gli argomenti rimasti.

Ultimata la raccolta del materiale è stato predisposto un testo unico, che ha funto da “traccia” per il prodotto multimediale. In virtù della natura del documento redatto “a 32 mani”, incentrato principalmente sul “Gramsci uomo”, abbiamo deciso di utilizzarlo come sottofondo a un video che fosse rappresentativo della giornata-tipo di un qualsiasi adolescente di oggi, vissuta però con le nuove consapevolezze derivate dalla scoperta del testo gramsciano. Si è quindi stabilito di adottare il punto di vista di un anonimo diciottenne che si rivolge a Gramsci e l’epistola, letta a più voci per rendere giustizia alla dimensione corale che la caratterizza, e contenente alcune citazioni testuali delle fonti utilizzate, accompagna le immagini che scorrono sullo schermo.

Le scene girate riproducono contesti e situazioni ordinarie nella vita di moltissimi adolescenti, dal pendolarismo per raggiungere la scuola ai problemi e alle pratiche positive che la vita scolastica porta con sé: il bullismo e, per converso, la solidarietà e l’organizzazione tra pari; i rapporti non sempre sereni con gli insegnanti; l’inadeguatezza dei contenuti di studio proposti e delle metodologie didattiche utilizzate; i limiti della eccessiva specializzazione dei saperi, che impedisce uno sviluppo armonico delle funzioni intellettuali; il nesso tra scuola e mondo del lavoro; le preoccupazioni e le aspettative per il futuro. Ma la scuola occupa solo una parte delle loro esistenze, e quindi nel video sono rientrati anche un pranzo dalla nonna, una partita di pallone e una giocata a carte con gli amici, il primo amore e, naturalmente, la galassia dei social; a tal proposito non inopportuna né casuale mi è parsa la scelta di rendere, negli ultimi istanti del video, l’epistola un post su Facebook, condiviso al termine della giornata.3

«Bisognerebbe far qualcosa für ewig»

Sono state queste parole a costituire il faro del nostro lavoro su Gramsci. La celebre espressione compare per la prima volta quando il prigioniero annuncia, in una lettera alla cognata Tatiana del 19 marzo 1927, l’intenzione di intraprendere la stesura dei Quaderni. Negli anni a seguire verrà chiarendo il significato da lui attribuito alle parole tedesche in relazione alla finalità ultima del lavoro intellettuale: affinché sia per sempre, lo studio deve essere «attività disinteressata», sottratta alle contingenze, proiettata in una dimensione spazio-temporale svincolata dalle esigenze immediate, e, soprattutto, formativa, intesa come sintesi di istruzione ed educazione.

Trovare il tempo e il modo di sottrarre Gramsci all’ordinario e frettoloso binomio lezione frontale-verifica sommativa, nel tentativo di saldare la teoria alla pratica, ha significato, inevitabilmente, togliere tempo ed energie ad altre attività didattiche. Un sacrificio che è però valso la pena consumare, ad opinione di chi scrive, nella misura in cui ci ha sollevati, seppur temporaneamente, dal «binario a stazione prefissata» su cui la maggior parte del tempo corriamo a perdifiato, e ci ha accompagnati in una «scuola di libertà e di libera iniziativa»4 che, mi piace pensare, nessuno di noi dimenticherà.

DOSSIER DOCUMENTI

Nuclei tematici e fonti

TEMI

FONTI DOCUMENTARIE 5

Indifferenza e

volontà collettiva

  1. «Indifferenti» (La città futura, febbraio 1917)
  2. «Noterelle sul Machiavelli» (Q13, 1, pp. 1558-6)
Cultura e formazione
  1. «Socialismo e cultura» (Il Grido del popolo, 29 gennaio 1916)
  2. «Uomini o macchine?» (Avanti!, 24 dicembre 1916)
  3. «La scuola è un’istituzione seria?» (Avanti!, 3 aprile 1919)
  4. «Osservazioni sulla scuola: per la ricerca del principio educativo» (Q12, 2, pp. 1540 ss.)
  5. Lettera a Giulia del 14 luglio 1930 (LC, pp. 354-5).
Studio e

nesso scuola-lavoro

  1. «Per la ricerca del principio educativo» (Q4, 55, p. 502)
  2. «La scuola del lavoro» (Avanti!, 18 luglio 1916)
  3. «La scuola unitaria» (Q4, 50, p. 485-6)

Legami familiari

  1. Lettera alla madre del 20 novembre 1926
  2. Lettera alla madre del 10 maggio 1928
  3. Lettera a Tatiana del 19 marzo 1927
Emigrazione
  1. «Struttura economica nazionale» (Q19, 7, p. 1992)
Calcio, campanilismo e gioco d’azzardo
  1. «Il “foot-ball” e lo scopone» (Avanti!, 16 agosto 1918)
  2. «Passato e presente. Sull’apoliticismo del popolo italiano» (Q9, 36, p. 111)
Amore
  1. Lettera a Giulia del 18 gennaio 1924
  2. Lettera a Giulia del 6 marzo 1924
  3. Lettera a Giulia del 13 aprile 1924
  4. Lettera a Giulia del 18 agosto 1924
  5. Lettera a Giulia del 20 novembre 1924
Rapporto governanti- governati
  1. «Machiavelli. Elementi di politica» (Q15, 4, pp. 1752-5)
I testi

1. La città futura, febbraio 1917 (tratto da: https://www.marxists.org/italiano/gramsci/17/cittafutura.htm#c )

Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L’indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica.

L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. […]

Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.

Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

2. «Noterelle sul Machiavelli» (Q13, 1, pp. 1558-6; tratto da: https://quadernidelcarcere.wordpress.com/2014/07/15/il-moderno-principe/)

Il carattere fondamentale del Principe è appunto quello di non essere una trattazione sistematica, ma un libro «vivente», in cui l’ideologia diventa «mito» cioè immagine fantastica e artistica tra l’utopia e il trattato scolastico, in cui l’elemento dottrinale e razionale si impersona in un «condottiero» che presenta plasticamente e «antropomorficamente» il simbolo della «volontà collettiva». Il processo per la formazione della «volontà collettiva» viene presentato non attraverso una pedantesca disquisizione di principii e di criteri di un metodo d’azione, ma come «doti e doveri» di una personalità concreta, che fa operare la fantasia artistica e suscita la passione. […]

Esistono finalmente le condizioni per questa volontà, ossia quale è il rapporto attuale tra queste condizioni e le forze opposte? Tradizionalmente le forze opposte sono l’aristocrazia terriera e più generalmente la proprietà terriera nel suo complesso, cioè quella speciale «borghesia terriera» che è l’eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo della borghesia comunale (le cento città, le città del silenzio). Ogni formazione di volontà collettiva nazionale popolare è impossibile senza che le masse dei contadini coltivatori entrino simultaneamente nella vita politica. […]

Tutta la storia dal 1815 in poi è lo sforzo delle classi tradizionali per non lasciar formare una volontà nazionale, ma per mantenere il potere «economico-corporativo» in un sistema internazionale di equilibrio rimorchiato ecc.

Una parte importante del moderno Principe è la quistione di una riforma intellettuale e morale, cioè la quistione religiosa o di una concezione del mondo. Anche in questo campo troviamo assenza di «giacobinismo» e paura del «giacobinismo» espresse in forme filosofiche (ultimo esempio: Benedetto Croce). Il moderno Principe deve essere il banditore di una riforma intellettuale e morale, che è il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare nel terreno di una forma compiuta e totale di civiltà moderna.

Realmente il moderno Principe dovrebbe limitarsi a questi due punti fondamentali: formazione di una volontà collettiva nazionale popolare di cui il moderno Principe è appunto espressione attiva e operante, e riforma intellettuale e morale.

3. «Socialismo e cultura» (Il Grido del popolo, 29 gennaio 1916, tratto da: https://politicaeretica.wordpress.com/2017/11/24/la-cultura-e-organizzazione-disciplina-del-proprio-io-interiore-antonio-gramsci/ )

Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici; di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno.

Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato.
Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri. […]

Lo studentucolo che sa un po’ di latino e di storia, l’avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori crederanno di essere diversi e superiori anche al miglior operaio specializzato che adempie nella vita ad un compito ben preciso e indispensabile e che nella sua attività vale cento volte di più di quanto gli altri valgano nella loro.
Ma questa non è cultura, è pedanteria, non è intelligenza, ma intelletto, e contro di essa ben a ragione si reagisce.

La cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. […]

L’uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura. Non si spiegherebbe altrimenti il perché, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, creatori di ricchezza e consumatori egoistici di essa, non si sia ancora realizzato il socialismo.

4. «Uomini o macchine?» (Avanti!, 24 dicembre 1916, tratto da: https://www.lavocedellelotte.it/it/2017/12/13/uomini-o-macchine-di-antonio-gramsci/)

1. Il nostro Partito non si è ancora affermato su un programma scolastico concreto che si differenzi da quelli soliti. Ci siamo finora accontentati di affermare il principio generale della necessità della cultura sia elementare, che professionale, che superiore, e questo principio abbiamo svolto, abbiamo propagandato con vigore ed energia. Possiamo affermare che la diminuzione dell’analfabetismo in Italia non è tanto dovuta alla legge sull’istruzione obbligatoria quanto alla vita spirituale, al sentimento di certi determinati bisogni della vita interiore, che la propaganda socialista ha saputo suscitare negli strati proletari del popolo italiano. Ma non siamo andati più in là. La scuola in Italia è rimasta un organismo schiettamente borghese, nel peggior senso della parola.

La scuola media e superiore, che è di Stato, e cioè è pagata con le entrate generali, e quindi anche con le tasse dirette pagate dal proletariato, non può essere frequentata che dai giovani figli della borghesia, che godono dell’indipendenza economica necessaria per la tranquillità degli studi. Un proletario, anche se intelligente, anche se in possesso di tutti i numeri necessari per diventare un uomo di cultura, è costretto a sciupare le sue qualità in attività diversa, o a diventare un refrattario, un autodidatta, cioè (fatte le dovute eccezioni) un mezzo uomo, un uomo che non può dare tutto ciò che avrebbe potuto, se si fosse completato ed irrobustito nella disciplina della scuola. La cultura è un privilegio. La scuola è un privilegio. E non vogliamo che tale essa sia. Tutti i giovani dovrebbero essere uguali dinanzi alla cultura

[…] 3. Al proletariato è necessaria una scuola disinteressata. Una scuola in cui sia data al fanciullo la possibilità di formarsi, di diventare uomo, di acquistare quei criteri generali che servono allo svolgimento del carattere. Una scuola umanistica, insomma, come la intendevano gli antichi e i più recenti uomini del Rinascimento. Una scuola che non ipotechi l’avvenire del fanciullo e costringa la sua volontà, la sua intelligenza, la sua coscienza in formazione a muoversi entro un binario a stazione prefissata. Una scuola di libertà e di libera iniziativa e non una scuola di schiavitù e di meccanicità. Anche i figli dei proletari devono avere dinanzi a sé tutte le possibilità, tutti i campi liberi per poter realizzare la propria individualità nel modo migliore, e perciò nel modo più produttivo per loro e per la collettività.

6. «Osservazioni sulla scuola: per la ricerca del principio educativo», (Q12, 2, pp. 1540 ss., tratto da: https://quadernidelcarcere.wordpress.com/2013/12/27/il-principio-educativo-nella-scuola-elementare-e-media/)

[…] Non è completamente esatto che l’istruzione non sia anche educazione: l’aver insistito troppo su questa distinzione è stato un grave errore e se ne vedranno gli effetti. Perché l’istruzione non fosse anche educazione bisognerebbe che il discente fosse una mera passività, ciò che è assurdo in sé, anche se proprio viene negato dai sostenitori ad oltranza della pura educatività contro la mera istruzione meccanica. La verità è che il nesso istruzione-educazione è rappresentato dal lavoro vivente del maestro in quanto la scuola è acceleramento e disciplinamento della formazione del fanciullo. Se il corpo magistrale è deficiente, sarà la sua opera ancora più deficiente se gli si domanderà più educazione: farà una scuola retorica, non seria. […] La lotta contro la vecchia scuola era giusta, ma si trattava di una quistione di uomini più che di programmi. In realtà un mediocre insegnante può riuscire a ottenere che gli allievi diventino più istruiti, non riuscirà mai a ottenere che siano più colti: la parte meccanica della scuola egli la svolgerà con scrupolo e coscienza, e l’allievo, se è un cervello attivo, ordinerà per conto suo il «bagaglio». […]

Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno. […] In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.

8. «Per la ricerca del principio educativo» (Q4, 55, p. 502, tratto da: http://www.intratext.com/IXT/ITA3061/_P5.HTM)

[…] il discente non è un disco di grammofono, non è un recipiente passivo. Così il ragazzo che si arrabbatta coi barbara, bàràlipton, ecc. Si affatica, è certo, e bisogna trovare che egli debba fare la fatica indispensabile e non più. Ma è anche certo che dovrà sempre faticare per imparare e costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movimento fisico, cioè a un tirocinio psico-fisico. Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. […] Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini un giovane contadino già sviluppato per la vita rurale. […]

10. «La scuola unitaria» (Q4, 50, p. 485-6, https://quadernidelcarcere.wordpress.com/2013/12/24/la-scuola-unitaria/)

[…] In una serie di famiglie specialmente delle classi intellettuali, i ragazzi trovano nella vita famigliare una continuazione e una integrazione della vita scolastica, apprendono come si dice «nell’aria» tutta una quantità di nozioni e di attitudini che facilitano la carriera scolastica propriamente detta; inoltre essi cominciano ad apprendere qualche anno prima dell’inizio delle elementari la lingua letteraria, cioè un mezzo di espressione e di pensiero superiore a quello della media della popolazione scolastica dai sei ai dieci anni. Così c’è una differenza tra gli allievi della città e quelli della campagna: per il solo fatto di vivere in città un bambino da uno a sei anni assorbe tutta una quantità di nozioni e di attitudini che rendono più facile, più proficua e più rapida la carriera scolastica. […]

Naturalmente sia scuola attiva che scuola creativa devono essere intese rettamente: la scuola attiva, dalla fase romantica in cui gli elementi della lotta contro la scuola meccanica e gesuitica si sono dilatati morbosamente per ragioni di contrasto e di polemica, deve trovare e raggiungere la fase classica, liberata dagli elementi spuri polemici e che trova in se stessa e nei fini che vuole raggiungere la sua ragione di essere e l’impulso a trovare le sue forme e i suoi metodi. Così la scuola creativa non significa scuola di «inventori e scopritori» di fatti ed argomenti originali in senso assoluto, ma scuola in cui la «recezione» avviene per uno sforzo spontaneo e autonomo dell’allievo e in cui il maestro esercita specialmente una funzione di controllo e di guida amichevole come avviene, o dovrebbe avvenire oggi nelle Università. Scoprire da se stessi, senza suggerimenti e impulsi esterni, una verità è «creazione», anche se la verità è vecchia: in ogni modo si entra nella fase intellettuale in cui si possono scoprire verità nuove, poiché da se stessi si è raggiunta la conoscenza, si è scoperta una «verità» vecchia).

11. Lettera alla madre (20 novembre 1926, tratta da: (https://leletteredalcarcere.wordpress.com/2009/10/26/lettera-n%C2%B0-3-roma-20-novembre-1926-alla-mamma/)

Carissima mamma,

ho pensato molto a te in questi giorni. Ho pensato ai nuovi dolori che stavo per darti, alla tua età e dopo tutte le sofferenze che hai passato. Occorre che tu sia forte, nonostante tutto, come sono forte io e che mi perdoni con tutta la tenerezza del tuo immenso amore e della tua bontà. Saperti forte e paziente nella sofferenza sarà un motivo di forza anche per me: pensaci e quando mi scriverai all’indirizzo che ti manderò rassicurami. Io sono tranquillo e sereno. Moralmente ero preparato a tutto. Cercherò di superare anche fisicamente le difficoltà che possono attendermi e di rimanere in equilibrio. Tu conosci il mio carattere e sai che c’è sempre una punta di allegro umorismo nel suo fondo: ciò mi aiuterà a vivere.

Non ti avevo ancora scritto che mi è nato un altro bambino: si chiama Giuliano, e mi scrivono che è robusto e si sviluppa bene. Invece Delio in queste ultime settimane ha avuto la scarlattina, in forma leggera, sia pure, ma in questo momento non conosco le sue condizioni di salute: so che aveva già superato la fase critica e che stava rimettendosi. Non devi avere
preoccupazioni per i tuoi nipotini: la loro mamma è molto forte e col suo lavoro li tirerà su molto bene.

Carissima mamma: non ho più la forza di continuare. Ho scritto altre lettere, ho pensato a tante cose e il non dormire mi ha un po’ affaticato. Rassicura tutti: di’ a tutti che non devono vergognarsi di me e devono essere superiori alla gretta e meschina moralità dei paesi. […]

Vogliatemi sempre bene lo stesso e ricordatevi di me.

12. Lettera alla madre (10 maggio 1928, tratta da: http://www.qualcosadisinistra.it/2013/01/23/antonio-gramsci-lettera-alla-madre-2/ )

Carissima mamma,

sto per partire per Roma. Oramai è certo. Questa lettera mi è stata data appunto per annunziarti il trasloco. Perciò scrivimi a Roma d’ora innanzi e finché io non ti abbia avvertito di un altro trasloco.

[…] Carissima mamma, non ti vorrei ripetere ciò che ti ho spesso scritto per rassicurarti sulle mie condizioni fisiche e morali. Vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi. Che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso. Cara mamma, vorrei proprio abbracciarti stretta stretta perché sentissi quanto ti voglio bene e come vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente.

La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini.

13. Lettera a Tatiana (19 marzo 1927, tratta da: https://leletteredalcarcere.wordpress.com/2009/11/08/lettera-n%C2%B0-21-19-marzo-1927-a-tatiana/ )

[…] La mia vita trascorre sempre ugualmente monotona. Anche lo studiare è molto più difficile di quanto non sembrerebbe. Ho ricevuto qualche libro e in verità leggo molto (più di un volume al giorno, oltre i giornali), ma non è a questo che mi riferisco; intendo altro. Sono assillato (è questo fenomeno proprio dei carcerati, penso) da questa idea: che bisognerebbe far qualcosa «für ewig», secondo una complessa concezione di Goethe, che ricordo aver tormentato molto il nostro Pascoli.
Insomma, vorrei, secondo un piano prestabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore. Ho pensato a quattro soggetti finora, e già questo è un indice che non riesco a raccogliermi […] Che te ne pare di tutto ciò? In fondo, a chi bene osservi, tra questi quattro argomenti esiste omogeneità: lo spirito popolare creativo, nelle sue diverse fasi e gradi di sviluppo, è alla base di essi in misura uguale. Scrivimi le tue impressioni; io ho molta fiducia nel tuo buon senso e nella fondatezza dei tuoi giudizi. Ti ho annoiato? Sai, lo scrivere surroga le conversazioni per me: mi pare veramente di parlarti quando ti scrivo; solo che tutto si riduce a un monologo, perché le tue lettere o non mi arrivano o non corrispondono alla conversazione intrapresa. Perciò scrivimi, e a lungo, delle lettere, oltre che le cartoline; io ti scriverò una lettera ogni sabato (ne posso scrivere
due alla settimana) e mi sfogherò. Non riprendo la narrazione delle mie vicende e impressioni di viaggio, perché non so se ti interessano; certo esse hanno un valore personale per me, in quanto sono legate a determinati stati d’animo e anche a determinate sofferenze; per renderle interessanti
agli altri forse sarebbe necessario esporle in forma letteraria; ma io devo scrivere di botto, nel poco tempo in cui mi vengono lasciati il calamaio e la penna. A proposito — la pianticella di limone
continua a crescere? non me ne hai piú accennato. E la mia padrona di casa come sta, o è morta? Mi sono sempre dimenticato di chiedertelo. Ai primi di gennaio ricevetti ad Ustica una lettera del sig. Passarge che era disperato e credeva alla prossima morte della signora, poi non seppi piú nulla.
Povera signora, temo che la scena del mio arresto abbia contribuito ad accelerare il suo male, poiché mi voleva bene ed era cosí pallida quando mi portarono via.

14. Struttura economica nazionale» (Q19, 7, p. 1992, https://quadernidelcarcere.wordpress.com/2015/03/08/sulla-struttura-economica-nazionale/)

[…] (È giusto il criterio generale che occorra esaminare il costo dell’introduzione di una certa industria nel paese, chi ne ha fatto le spese, che ne ha ricavato vantaggi e se i sacrifizi fatti non potevano esserlo in altra direzione più utilmente, ma tutto questo esame deve essere fatto con una prospettiva non immediata, ma di larga portata. D’altronde il solo criterio dell’utilità economica non è sufficiente per esaminare il passaggio da una forma di organizzazione economica ad un’altra; occorre tener conto anche del criterio politico, cioè se il passaggio sia stato obbiettivamente necessario e corrispondente a un interesse generale certo, anche se a scadenza lunga. Che l’unificazione della penisola dovesse costare sacrifizi a una parte della popolazione per le necessità inderogabili di un grande Stato moderno è da ammettere; però occorre esaminare se tali sacrifizi sono stati distribuiti equamente e in che misura potevano essere risparmiati e se sono stati applicati in una direzione giusta. Che l’introduzione e lo sviluppo del capitalismo in Italia non sia avvenuto da un punto di vista nazionale, ma da angusti punti di vista di vista regionali e di ristretti gruppi e che abbia in gran parte fallito ai suoi compiti, determinando un’emigrazione morbosa, mai riassorbita e di cui mai è cessata la necessità, e rovinando economicamente intere regioni, è certissimo. L’emigrazione infatti deve essere considerata come un fenomeno di disoccupazione assoluta da una parte, e dall’altra come manifestazione del fatto che il regime economico interno non assicurava uno standard di vita che si avvicinasse a quello internazionale tanto da non far preferire i rischi e i sacrifizi connessi con l’abbandono del proprio paese a lavoratori già occupati).

[…] ogni forma di società ha una sua legge di accumulazione del risparmio ed è da ritenere che anche in Italia si può ottenere una più rapida accumulazione. L’Italia è il paese, che, nelle condizioni create dal Risorgimento e dal suo modo di svolgimento, ha il maggior peso di popolazione parassitaria, che vive cioè senza intervenire per nulla nella vita produttiva, è il paese di maggior quantità di piccola e media borghesia rurale e urbana che consuma una frazione grande del reddito nazionale per risparmiarne una frazione insufficiente alle necessità nazionali.

16. «Passato e presente. Sull’apoliticismo del popolo italiano» (Q9, 36, p. 111, tratto da: https://quadernidelcarcere.wordpress.com/2014/09/18/passato-e-presente-sullapoliticismo-del-popolo-italiano/)

Tra gli elementi che mostrano manifestamente questo apoliticismo sono da ricordare i tenaci residui di campanilismo e altre tendenze che di solito sono catalogate come manifestazioni di un così detto «spirito rissoso e fazioso» (lotte locali per impedire che le ragazze facciano all’amore con giovanotti «forestieri» cioè anche di paesi vicini ecc.). Quando si dice che questo primitivismo è stato superato dai progressi della civiltà, occorrerebbe precisare che ciò è avvenuto per il diffondersi di una certa vita politica di partito che allargava gli interessi intellettuali e morali del popolo. Venuta a mancare questa vita, i campanilismi sono rinati, per esempio attraverso lo sport e le gare sportive, in forme spesso selvagge e sanguinose. Accanto al «tifo» sportivo, c’è solo il «tifo campanilistico» sportivo.

17-19-20-21. Lettere a Giulia (18 gennaio 1924, 13 aprile, 18 agosto, 20 novembre tratte da: http://www.miriammafai.it/wp-content/uploads/2013/05/1965-N.-17-24.05-Comera-dolce-il-tempo-vissuto-insieme.pdf)

18. Lettera a Giulia (6 marzo 1924, tratta da: https://www.lacittafutura.it/cultura/antonio-gramsci-un-pensiero-per-l-eternita)

[…] io sono stato abituato dalla vita isolata, che ho vissuto fino dalla fanciullezza, a nascondere i miei stati d’animo dietro una maschera di durezza o dietro un sorriso ironico ed è qui tutta la differenza. Ciò mi ha fatto male, per molto tempo: per molto tempo i miei rapporti con gli altri furono un qualche cosa di enormemente complicato, una moltiplicazione o una divisione per sette di ogni sentimento reale, per evitare che gli altri intendessero ciò che io sentivo realmente. Che cosa mi ha salvato dal diventare completamente un cencio inamidato? L’istinto della ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo preso 10 in tutte le materie nelle scuole elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del negoziante in tessuti. Esso si allargò per tutti i ricchi che opprimevano i contadini della Sardegna ed io pensavo allora che bisognava lottare per l’indipendenza nazionale della regione: ‘Al mare i continentali!’ Quante volte ho ripetuto queste parole. Poi ho conosciuto la classe operaia di una città industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che avevo letto prima per curiosità intellettuale. Mi sono appassionato così alla vita, per la lotta, per la classe operaia. Ma quante volte mi sono domandato se legarsi a una massa era possibile quando non si era mai voluto bene a nessuno, neppure ai propri parenti, se era possibile amare una collettività se non si era amato profondamente delle singole creature. Non avrebbe ciò avuto un riflesso sulla mia vita di militante, non avrebbe ciò isterilito e ridotto a un puro fatto intellettuale, a un puro calcolo matematico la mia qualità di rivoluzionario? […]

22. «Machiavelli. Elementi di politica» (Q15, 4, pp. 1752-5, tratto da: https://quadernidelcarcere.wordpress.com/2014/12/23/machiavelli-elementi-di-politica/)

[…] Bisogna proprio dire che i primi ad essere dimenticati sono proprio i primi elementi, le cose più elementari; d’altronde, essi, ripetendosi infinite volte, diventano i pilastri della politica e di qualsivoglia azione collettiva. Primo elemento è che esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti. Tutta la scienza e l’arte politica si basano su questo fatto primordiale, irriducibile (in certe condizioni generali). Le origini di questo fatto sono un problema a sé, che dovrà essere studiato a sé (per lo meno potrà e dovrà essere studiato come attenuare e far sparire il fatto, mutando certe condizioni identificabili come operose in questo senso), ma rimane il fatto che esistono dirigenti e diretti, governanti e governati. Dato questo fatto sarà da vedere come si può dirigere nel modo più efficace (dati certi fini) e come pertanto preparare nel modo migliore i dirigenti (e in questo più precisamente consiste la prima sezione della scienza e dell’arte politica), e come d’altra parte si conoscono le linee di minore resistenza o razionali per avere l’obbedienza dei diretti o governati.

Nel formare i dirigenti è fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governati e governanti oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca? cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni? […]


Note:

2 A. D’Orsi, Gramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli, Milano 2017.

3 È possibile visionare il video integrale al seguente link: https://bit.ly/2rEBFDE.

4 Sono parole tratte dall’articolo «Uomini o macchine?», citato nella tabella del par. 5.

5 La Q si riferisce a: A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975; la sigla LC a: A. Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino 1965. Nel Dossier in appendice al testo è proposta una selezione, puramente indicativa, di stralci di alcuni documenti analizzati in classe; ad ogni testo è associato il link in cui è possibile reperire il materiale.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Caro Nino, ti scrivo. Il giorno che ho indossato i tuoi occhiali
DOI: 10.12977/nov247
Parole chiave:
Numero della rivista: n.10, agosto 2018
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Caro Nino, ti scrivo. Il giorno che ho indossato i tuoi occhiali, in Novecento.org, n. 10, agosto 2018. DOI: 10.12977/nov247

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