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La crisi del 1973

(sintesi di Carla Marcellini)

Buoni benzina statunitensi 1973

Buoni benzina statunitensi emessi a seguito della crisi energetica

Abstract

L’autore affronta il tema della crisi del 1973 da due punti di vista, da un lato in chiave di crisi generale intendendo il decennio come un momento di transizione tra il grande ordine postbellico e il nuovo mondo, che è quello globalizzato che conosciamo oggi, dall’altro analizzando il decennio nella prospettiva del contesto internazionale, prendendo in esame la dimensione economica, militare, politica, sociale e culturale.

1973: una crisi di transizione

Fu una crisi?

Nei manuali scolastici si trova che la crisi del 1973 segna la fine dei trenta gloriosi, ovvero di un enorme periodo di crescita economica, il maggiore che l’occidente abbia conosciuto a partire dalla fine della guerra. Occorre tuttavia chiedersi se il 1973 fu davvero la fine dei trenta gloriosi.
Quella del 1973 non è stata una crisi economica in senso proprio. L’interpretazione più diffusa è quella che vede confluire in essa tre crisi parziali, che insieme crearono una situazione di crisi diffusa.
È stata una crisi petrolifera, cioè una crisi settoriale, come era accaduto in passato con crisi agricole e industriali che avevano accompagnato lo sviluppo, senza tuttavia determinare una crisi complessiva. Così nel 1973 entrò in sofferenza un settore molto importante per l’economia, quello energetico e petrolifero. Fu anche in qualche modo una crisi economica o meglio la spia di una crisi economica, diversa tuttavia da quella del 1929. Fu un momento di passaggio e di difficoltà, perché appena due anni prima, nel 1971, c’era stata la grande svolta della fine del sistema di Bretton Woods, che aveva accompagnato complessivamente i rapporti finanziari e monetari dal dopoguerra.
Fu anche una crisi militare, infatti nel 1973 inizia la guerra del Kippur, che fu un momento di quel lungo conflitto arabo israeliano che costituisce, insieme a quello del Kashmir la più lunga dinamica di guerra presente nel mondo dopo il 1945. Sono le due aree in cui ancora oggi vi sono tensioni e conflitti. Sono anche guerre a bassa intensità rispetto ad altre, ma la loro durata nel tempo, soprattutto il conflitto arabo israeliano, ha un significato politico da tenere in considerazione.

Quali sono gli elementi importanti e significativi che precedono lo scoppio della crisi del 1973?

Oltre alla fine degli accordi di Bretton Woods nell’agosto del ‘71, dal punto di vista economico vi sono almeno tre elementi da prendere in considerazione: la nuova spinta protezionistica degli Stati Uniti, i rapporti che si fanno più conflittuali tra stati Uniti e Europa e il fatto che siamo a ridosso della grande apertura con la Cina, come nuovo orizzonte geoeconomico.
Dal punto di vista militare, immediatamente prima della crisi del ‘73 nascono nell’area dei nuovi regimi militari, frutto di colpi di stato: la Libia (1969), il Sudan, la Siria e l’Iraq (1968). Sono quattro aree che negli anni a noi più vicini sono gli epicentri di maggiore crisi, fatta eccezione per l’Afghanistan che arriverà successivamente. Si tratta di un elemento importante per cercare di capire il lungo periodo. Il fatto che ancora oggi in queste aree vi siano tensioni e conflitti non vuol dire necessariamente che vi sia un legame causale tra le crisi di allora e le crisi di oggi, ma certamente vanno valutate nel lungo periodo le modalità di comprensione e di percezione di quei colpi di stato. All’epoca questi rovesciamenti politici in gran parte sono stati visti dalla sinistra con atteggiamento positivo, perché significavano la fine di regimi vecchi, arretrati e monarchici e quindi, benché fossero colpi di stato, si presumeva che fossero di stampo progressista. È un elemento importante da considerare, perché in tempi lunghi si può osservare che certi fallimenti di questi nuovi regimi apriranno le porte a un nuovo grande tema, che è quello della rinascita e della presenza nuova dell’Islam, con la rivoluzione iraniana del 1979. Non bisogna poi dimenticare che nel 1972, un anno prima della guerra del Kippur, c’è stato l’episodio nuovo e dirompente alle Olimpiadi di Monaco in cui un commando di terroristi dell’organizzazione palestinese Settembre Nero prese in ostaggio e uccise alcuni atleti israeliani.

Qual è il rapporto tra la guerra e la crisi petrolifera?

È opportuno valutare anche quale legame esiste tra la crisi militare e quella petrolifera, per vedere se la prima produce, crea e favorisce la crisi petrolifera oppure se è la crisi petrolifera che precede, che crea le basi per questo conflitto.
Sicuramente la crisi petrolifera viene utilizzata nel corso del conflitto, perché l’uso politico del prezzo del petrolio costituisce un elemento importante che accompagna le vicende militari. Occorre tuttavia vedere chi trae vantaggio prevalentemente da questa crisi petrolifera, se i paesi ricchi, i paesi produttori o le multinazionali. Su questo ci sono risposte abbastanza diverse. Anche dal punto di vista militare occorre valutare se ne trae vantaggio Israele o i paesi arabi. Spesso in questo lungo conflitto si è visto che chi vince militarmente perde politicamente. Era stato certamente così nel ’56, forse non nel ’67, forse è così ora, questa è un’altra questione da affrontare.
Le interpretazioni su questo punto sono molteplici e diverse; alcuni sostengono che non vi è un legame tra guerra e crisi petrolifera, perché è la pressione occidentale verso i paesi produttori quello che costituisce il dato di continuità rispetto alla crisi petrolifera. Altri sostengono che non c’è un legame forte, anche se la guerra è un’occasione per poter passare, rispetto al petrolio, da un pieno controllo occidentale a una maggiore autonomia dei paesi produttori, come effettivamente accadde, di cui la guerra sarebbe quindi l’occasione e non la causa o l’effetto. Qualcuno dice invece che c’è un legame molto forte perché il desiderio di guadagno dei paesi dell’Opec spinge a legare fortemente la crisi petrolifera con l’occasione della guerra. Altri evidenziano che il fulcro della crisi petrolifera si colloca nel 1970-71, nel grande confronto con la Libia che, con il nuovo regime, pone nuove condizione, determinando un nuovo assetto dei rapporti di forza tra le “Sette sorelle”; questo ci fa vedere come all’interno dell’Opec ci fossero divisioni tra i paesi più moderati e quelli più radicali. Altri sostengono che il petrolio è l’arma principale utilizzata nel corso della guerra, più importante per gli effetti che avrà, anche nei rapporti di potere nell’area, dei risultati militari. Quindi ragionare sul rapporto guerra-petrolio è assai importante, cercando di tenere un po’ insieme le diverse interpretazioni, per capire quanti elementi diversi di causalità siano presenti in questo evento.

Quali sono gli effetti della crisi?

È interessante vedere gli effetti di lungo periodo della crisi, ovvero valutare se questa “quasi crisi” avrà effetti molto profondi, anche se non eclatanti, negli anni successivi.
Dal punto di vista economico gli anni successivi saranno quelli della grande inflazione, della contrazione dei consumi, della recessione, di quella che sarà chiamata stagflazione.
Sul terreno petrolifero si verifica un aumento dei prezzi e anche dei profitti in maniera un po’ differenziata. Ci saranno soprattutto nuovi accordi, da cui deriveranno effetti di breve e lungo periodo. Occorrerà porsi la questione di chi ci guadagnerà, se l’Opec o le “Sette sorelle” o entrambi, perché spesso dietro ai giudizi su quanto accadde si trova uno sguardo più ideologico che economico.
Da un punto di vista militare, cinque anni dopo vi furono gli accordi di Camp David che sembrarono allora una grande speranza e un’opportunità nuova per porre fine al conflitto arabo-israeliano, che invece poi farà diventare cronica la questione palestinese in modo diverso.
Altri effetti di lungo periodo sono da mettere in evidenza: a partire da questa crisi comincia in occidente il processo di terziarizzazione e di delocalizzazione, soprattutto delle strutture industriali, qualcosa che sarà molto più chiaro successivamente negli anni Ottanta; è appena all’inizio, in quegli anni, il processo di informatizzazione. È negli anni Settanta infatti che nasce l’information technology.

Quando finisce la crisi?

È una domanda importante, che ci permette di capire se sia stata una crisi oppure no. La crisi petrolifera finisce negli anni Ottanta. Se davvero è così, forse più che una crisi è stato un evento dirompente che ha avuto effetti importanti come un sasso nello stagno, con effetti diversi nel breve, nel medio e nel lungo periodo. E quindi forse è qualcosa di diverso da una crisi ciclica.

Note didattiche

La prima cosa da sottolineare è l’importanza di soffermarsi sul lessico per trovare parole chiave, come stagflazione che è sicuramente uno dei termini nuovi che troviamo in questo contesto.
La seconda questione è quella della comparazione, assai efficace ed utile sul piano sincronico, ma molto più complicata sul piano diacronico, ovvero provare a comparare le tre crisi del 1929, del 1973 e del 2008.
E infine il discorso della necessità di una nuova vulgata, di una nuova narrazione. Per quello che riguarda la crisi del ’73, si può essere abbastanza soddisfatti delle narrazioni che ci sono state, anche in passato. Sicuramente invece le sintesi manualistiche sono lacunose se vogliamo affrontare la crisi del 1973 in una dimensione storica più ampia.

Il contesto internazionale della crisi politico-economica del 1973

La percezione della crisi: “Crisis? what crisis?”

Crisi 1973 corriere della sera

Prima pagina del Corriere della Sera durante la crisi energetica del 1973

“Crisis? what crisis?”, sono le parole che James Callaghan, primo ministro inglese, disse nel 1979 a un giornalista che lo intervistava sulla crisi. Dopo pochi mesi Callaghan fu sostituito da Margareth Thatcher. Soprattutto in Gran Bretagna gli anni Settanta sono stati vissuti e percepiti fortemente come un momento di crisi: dell’occupazione, del lavoro, del ruolo internazionale della Gran Bretagna. Questa affermazione del primo ministro laburista era un po’ il segnale della forte incomprensione e separatezza esistente fra la classe politica e la realtà. La Thatcher sfruttò ampiamente la sua capacità di ricollegarsi almeno con una parte della società inglese, che si era sentita incompresa in questo periodo di crisi.
La crisi fu percepita allora in maniera molto forte, probabilmente superiore rispetto alla sua reale dimensione, perché fu in gran parte una crisi delle classi medie e di quei settori della popolazione che avevano la speranza di continuare nella loro ascesa sociale e che si trovarono invece fermi. Rispetto alla capacità di risparmio, il decennio Settanta fu il peggiore per la classe media, escludendo ovviamente quello della Prima guerra mondiale. Fu un trauma per le classi medie che, negli anni della crisi del ’29, avevano migliorato le proprie posizioni e la capacità di risparmio. Il crollo delle classi medie negli anni Settanta avviene in un momento in cui inizia la terziarizzazione, con un aumento quantitativo notevole degli appartenenti a questa classe. E siccome il fenomeno della terziarizzazione avviene in maniera massiccia prima negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, l’impatto sulla percezione in questi paesi è maggiore.

Crisi 1973 italiani in bicicletta

Cittadini bolognesi in bicicletta durante la crisi energetica del 1973

Anche in Italia vi è una forte percezione della crisi. Si parlava allora di austerità. Le foto di città prive di automobili e popolate da ciclisti, così come gli articoli di giornale sull’austerità si sono ripetuti per mesi; tuttavia guardando l’andamento e la crescita della disoccupazione (vedi tabelle successive), ci si accorge che non era così forte come nella crisi attuale, anche se effettivamente la disoccupazione era aumentata. C’erano attese con forti interrogativi sul futuro, ma nello stesso tempo ci si rendeva conto che a parte la domenica in cui si andava in bicicletta, invece che in macchina, tutto sommato la vita continuava nello stesso modo. Non è un caso che già pochi anni dopo, con l’emergere in Italia, per esempio, del terrorismo e della violenza, la crisi del ’73 abbia perso centralità nei ricordi complessivi del decennio.

Crisi economica

Gli anni Settanta sono caratterizzati dall’inflazione, che è la più alta del dopoguerra. In Gran Bretagna è più alta che negli altri paesi e questo ci permette di capire perché la percezione della crisi sia molto più forte che altrove. Del resto anche in Italia l’inflazione è stata altissima in quegli anni, tuttavia era mediamente più bassa che nella Gran Bretagna. È vero che sono anni in cui c’è un declino del Pil, però se si fa una comparazione, il declino è forte in confronto agli anni Sessanta, che erano stati un decennio di sviluppo formidabile dell’economia. Negli anni Ottanta, che noi non siamo abituati a vedere e ricordare come un periodo di grande crisi economica, il declino del Pil sarà ancora maggiore. La recessione del 1980-81, che in qualche modo fu anche il risultato della seconda crisi petrolifera, fu infatti certamente peggiore di quella della metà degli anni Settanta.
Se vogliamo fare una comparazione, e proviamo ad aprire lo sguardo ad altri continenti, ci accorgiamo che, per l’Asia e per l’America Latina, gli anni Settanta dal punto di vista economico sono certamente migliori degli anni Sessanta. Così come gli anni Settanta sono migliori degli anni Ottanta per tutto il mondo, tranne che per l’Asia orientale, perché quello sarà il decennio in cui ci sarà il boom delle tigri asiatiche. Quindi cercare di analizzare la storia economica è complicato, perché i dati che noi troviamo più facilmente riguardano l’Italia, l’Europa o il mondo occidentale; se però partiamo dal presupposto che proprio negli anni Settanta inizia la spinta alla globalizzazione – che poi sarà accelerata in maniera formidabile negli anni Novanta, con la fine della guerra fredda – allora dobbiamo cominciare ad interessarci ad altre zone del mondo a cui in genere si guarda poco quando si fa storia politica.
Negli anni Settanta in Cile e in Perù c’è il default statale che costituisce il prodromo di quella crisi economica degli stati che nei due decenni successivi colpirà diverse economie, non soltanto in Sud America, ma in tanti altri paesi come la Russia. Il Cile e il Perù hanno il crollo della produzione superiore al 10%, il che vuol dire che se in tutti gli altri paesi ci fu una diminuzione notevole del Pil, soprattutto con gli occhi di oggi possiamo tranquillamente dire che non c’è stata una crisi economica, così come non ci sono state crisi bancarie, se non limitate.

Tabella indici economici 1960-1980

Tabella indici economici 1960-1980

I tassi di crescita del Pil (GDPgrowth) diminuiscono negli anni Settanta: in Italia il tasso si dimezza e anche il Giappone ha un grave calo. Oggi nessuno penserebbe che quello è un periodo di stagnazione se consideriamo che il peggiore risultato di allora, la Gran Bretagna con il 2,3% di crescita, è il miglior risultato oggi, che spetta alla Germania. C’è invece una enorme impennata dell’inflazione (CPI change) che costituisce, nella percezione delle classi medie, di chi risparmia, di chi ha necessità di salvaguardare, con azioni o obbligazioni, il proprio patrimonio, un segnale di allarme e di crisi. Sono i due meccanismi, stagnazione e inflazione, che messi insieme hanno portato al termine nuovo stagflazione, per definire quanto avvenne negli anni Settanta. La stagflazione che secondo la teoria keynesiana era impossibile perché inflazione e disoccupazione non potevano coesistere, costituisce invece una novità reale sulla cui base le nuove teorie monetariste conosceranno la loro fortuna, una fortuna in parte momentanea, ma in parte anche duratura. Milton Friedman diceva che la stagflazione è «troppo denaro alla caccia di pochi beni», e quindi il problema era di governare il denaro e non i beni, da cui ha origine la spinta alle logiche monetariste.
Ugualmente importante, anche se minore di quello che ci si potrebbe aspettare rispetto a quanto si legge nei manuali, è la crescita della disoccupazione (Unemployment), che è sicuramente forte e che viene percepita come molto più pesante, perchè è legata anche all’inflazione e quindi da questo punto di vista c’è un impoverimento complessivo della capacità di acquisto da parte non solo delle classi medie, ma di tutti quanti.

La crisi petrolifera

Se si guarda l‘andamento della produzione petrolifera, ci si accorge che la produzione degli anni Settanta ha conosciuto un grande picco, una crescita continua che poi avrà un calo negli anni Ottanta e poi ci sarà una ripresa. Se si osserva dal punto di vista di oggi, si può dire che la crisi degli anni Settanta non fu così drammatica, neppure rispetto al petrolio. Tuttavia è interessante osservare la percentuale di aumento della produzione dei paesi che non appartengono all’Opec. Nel corso degli anni Settanta c’è una enorme corsa a cercare di far produrre di più gli altri paesi. Gli Usa per esempio sono quelli che riescono molto più dell’Europa a liberarsi dalla paura di avere poco petrolio, perché lo prendono dal Venezuela, riuscendo a fare a meno di una buona parte della produzione del Golfo, di cui invece l’Europa continua ad avere un enorme bisogno.

Tabella produzione petrolio

Tabella sulla produzione del petrolio

Dunque, mentre nella prima crisi petrolifera c’è la paura che si possa davvero rimanere senza fonti energetiche e si diffonde il panico tra i paesi non produttori e totalmente dipendenti dal petrolio, con uno sforzo enorme dei paesi non Opec per produrre petrolio in più, nelle crisi successive, anche grazie alle altre fonti energetiche, si capisce che, nonostante i paesi produttori possano giocare sulla produzione, la situazione non è così drammatica e la reazione sarà diversa.
Quando, negli anni Ottanta, per esempio, ci sarà la guerra tra Iran e Iraq, crolla enormemente la produzione di petrolio in quell’area, eppure non saranno particolarmente significativi gli effetti che questo avrà successivamente.
Negli anni Settanta c’è un’enorme rialzo del prezzo del petrolio e quindi una forte crescita dei guadagni dei paesi dell’Opec, soprattutto rispetto al decennio precedente, durante il quale il prezzo del petrolio era molto basso. La crisi successiva degli anni Ottanta, invece, riporta in basso il prezzo del petrolio. L’andamento del prezzo del petrolio è un indicatore assai importante non solo da un punto di vista economico, ma ci può fornire informazioni anche da un punto di vista politico.

Prezzo petrolio 1936-2006

Tabella sul prezzo del petrolio nel periodo 1936-2006

Negli anni che vanno dal 1984 al 1990 il prezzo del petrolio scende di molto. Uno dei motivi, certamente non l’unico e certamente non il più importante, del fallimento della politica di Gorbaciov in Unione Sovietica fu proprio il crollo del prezzo del petrolio. La vittoria di Yeltsin, successivamente, sarà rafforzata proprio perché riuscirà a rialzare il prezzo del petrolio. E sarà Putin che ne approfitterà di più perché a partire dal ‘90 il costo salirà di nuovo. Se ci fosse stato un andamento vero l’alto del prezzo del petrolio, Gorbaciov non avrebbe dovuto affrontare la lacerante crisi economica a cui fu in gran parte incapace di dare una risposta. Infatti, nei periodi precedenti, la stagnazione dell’epoca di Breznev era stata risolta in realtà grazie alle vendite di petrolio con le quali si comprava la tecnologia occidentale di penultima generazione, anche se in quegli anni in profondità il divario fra l’Unione sovietica e l’occidente aumentò enormemente. Paradossalmente dunque, più di dieci anni dopo in Unione sovietica una crisi petrolifera, determinata da un andamento del mercato che porta al ribasso i prezzi del petrolio, produce effetti molto più devastanti di quello che abbiamo visto rispetto alla crisi del 73.
Nel 1972, prima quindi della crisi petrolifera e dell’inizio dell’inflazione, in tutto il Sud America, in particolare in Perù, ci fu una crisi devastante della pesca delle acciughe. Perché erano così importanti? Perché le acciughe costituivano una delle componenti fondamentali del mangime delle mandrie e quindi quel crollo costituì per tutto il mondo della zootecnologia una crisi maggiore di quella del petrolio e ebbe effetti anche formidabili a livello complessivo e fu una delle cause dell’inflazione.

La crisi politica

Le dimissioni del presidente degli Stati Uniti in seguito al Watergate sono un tassello importante della crisi politica che ovviamente non si identifica con quelle dimissioni, ma che in qualche modo diventa simbolo di una crisi politica dell’intero sistema occidentale. Accanto a questo si colloca la sconfitta definitiva degli americani in Vietnam. La debolezza degli Stati Uniti, provati da questi due eventi, spinge Breznev a decidere di voler cercare, nella seconda metà degli anni Settanta, di modificare i rapporti di forza che da Yalta si erano stabiliti fra le due super potenze. Erano rapporti basati sulla rigida separazione delle aree di influenza, all’interno delle quali non vi era alcuna intromissione dell’altro fronte, tra cui la possibilità di intervenire in maniera non troppo forte, in quello che allora si chiamava Terzo Mondo, per conquistare posizioni. L’Unione Sovietica deciderà invece nel 1979 di intervenire in maniera pesante direttamente in Afganistan, che costituiva una roccaforte pura e assoluta di questo modello. L’idea di Breznev era che la debolezza americana politica e militare (Watergate e Vietnam) avrebbe permesso all’Unione Sovietica di raggiungere una nuova posizione di vantaggio. Tuttavia proprio la scarsa lungimiranza politica di Breznev fa si che due anni dopo sarà Reagan ad approfittarne, per rilanciare quella che all’epoca sembrava, ed era, una battaglia ideologica antiquata: la lotta contro l’impero del male e il comunismo. Era una battaglia che però serviva proprio a Reagan a far ripartire il senso di orgoglio americano, avvilito dalle sconfitte e che si ritorse contro la stessa Unione Sovietica che rapidamente stava scivolando verso una profonda crisi.

La crisi sociale 

Estratto video: la crisi sociale

Temi come l’aborto, la criminalità, la droga, il razzismo, negli anni Settanta divengono aspetti assai rilevanti da un punto di vista sociale. Sono temi trasversali da un punto di vista storiografico e in larga parte nuovi. Anche un tema certamente non nuovo, come il razzismo negli Stati Uniti, assume tuttavia connotazioni diverse. I grandi saccheggi delle metropoli negli anni Settanta costituiscono una svolta e una rottura rispetto al razzismo che c’era stato prima, non solo quello contro cui combatteva Martin Luther King con le battaglie per i diritti civili, ma anche quello che segue l’approvazione del Civil Right Act, la legge che nel 1964 sancisce la fine di ogni discriminazione.
La droga negli anni 70 diventa un fenomeno mondiale di portata tale che non solo modifica le strutture della criminalità organizzata, ma anche la vita delle città e dei giovani di tutto il mondo. Chi non vede quegli anni come l’inizio di tutto questo, tende tutto sommato a pensare che ci sia sempre stato un rapporto con la droga e la criminalità analogo e magari anche minore. Quindi il decennio va analizzato tenendo anche in considerazioni questi aspetti sociali di grande rilievo.
Perciò se vogliamo leggere il decennio in chiave di crisi in generale, questi sono aspetti di una crisi molto profonda che riguarda le relazioni primarie di vita e forse sono quelli in cui è anche più interessante e più utile fare un lavoro didattico.

Le crisi internazionali

Sono numerosissime le crisi internazionali degli anni Settanta: Bangladesh, Monaco, Cile, Libano, Irlanda, Etiopia, Vietnam, Cambogia, Argentina, Iran, Afghanistan e altre.
Su ognuna di queste si potrebbe fare un ciclo di lezioni. Come sempre da un punto di vista didattico è complicato fare delle scelte. Abbiamo l’inizio del terrorismo internazionale. Abbiamo con il Bangaldesh una delle più gravi e drammatiche crisi umanitarie che cambia il rapporto con le crisi umanitarie a livello internazionale e cambia anche la geografia politica del continente asiatico. La crisi cilena che sfocerà nel colpo di stato di Pinochet, nel settembre del 1973, è molto importante non solo per il Cile, ma soprattutto se la collochiamo nell’ambito del racconto di ciò che accade negli anni Settanta in America Latina. Sono il decennio in cui tutto il continente diviene una grande dittatura militate, anche per quei paesi come l’Uruguay che non avevano mai conosciuto nella loro storia una dittatura, ma erano sempre rimasti democratici. Il decennio successivo invece sarà quello della grande riconquista della democrazia, anche per quei paesi come il Paraguay che non avevano mai conosciuto la democrazia. Mettersi dal punto di vista dell’America Latina cambia completamente la visione. E certamente quanto avviene in Cile immediatamente prima della crisi petrolifera è molto significativo perché radicalizzerà le posizioni delle opposizioni e la spinta alla guerriglia, anche dove questa non aveva né solide basi, né capacità e possibilità di radicarsi e metterà in piedi soprattutto quel grande meccanismo di difesa che troverà poi nel piano Condor e nel ruolo degli Usa nell’appoggio ai regimi dittatoriali, un elemento estremamente importante.
Gli anni Settanta sono da un punto di vista, non di valori assoluti, ma relativi, il decennio più violento di tutta la storia dopo la guerra mondiale, perché la percentuale dei morti rispetto ai conflitti è dello 0,07, mentre negli altri decenni è 0,05 o al massimo 0,06. Questo naturalmente può significare poco perché bisogna vedere dove erano i conflitti e quanti ce n’erano. Complessivamente negli anni Settanta c’era un totale di 35 conflitti (7 guerra interstatali, 3 coloniali, 25 guerre civili). La maggior parte sono guerre civili e questo è un elemento importante perché da questo punto di vista gli anni Settanta aprono una nuova stagione, che è ancora quella attuale dove le guerre civili non sono più il 70%, ma il 90% dei conflitti,. Inoltre è il decennio in cui aumenta il numero dei civili morti nei conflitti. E’ un altro aspetto da tenere presente, non tanto per una eventuale o possibile correlazione con la crisi in generale, quanto perché il decennio che noi possiamo considerare un po’ di transizione tra il grande ordine postbellico e il nuovo mondo, che è quello globalizzato che conosciamo oggi, sia anche un periodo di grande violenza e di grandi conflitti.

Estratto video: le crisi internazionali

L’Europa occidentale conosce in questo decennio finalmente la vittoria piena della democrazia, perché i tre grandi paesi dove non c’era, Portogallo, Spagna e Grecia, tornano alla democrazia. Per quanto riguardo i diritti politici e civili, nel decennio Settanta la situazione migliora in 28 paesi, ma peggiora in 24 e quello delle libertà civili migliora in 24 e peggiora in 30. Quindi, paradossalmente, mentre noi diciamo che finalmente l’Europa conosce la sua piena democrazia, se ampliamo lo sguardo per vedere cosa succede nel resto del mondo (tutto il continente sud americano diventa una dittatura) ci accorgiamo che c’è un peggioramento complessivamente rispetto soprattutto agli anni ‘60.
In questo decennio avviene la fine completa del colonialismo, e questo è di estrema importanza anche da un punto di vista didattico. Intanto perché fa capire come il colonialismo sia penetrato a lungo nella società del dopoguerra, tanto che a distanza di trenta anni dalla fine della guerra ancora c’erano paesi coloniali e paesi colonizzati. Ma soprattutto perché mette in evidenza un discorso di mentalità, di nascita di una visione nuova del ruolo autonomo e indipendente che acquisiscono questi paesi.
Un altro elemento che fa capire come questo decennio Settanta sia stato tremendo e terribile, è quello dei colpi di stato. Negli anni Ottanta ce ne saranno più che negli anni 70, soprattutto in Africa. Però malgrado e accanto a questa virulenza dei colpi di stato e a questo espandersi della violenza, a partire dalla conferenza di Helsinki del 1975 c’è una grande ripresa del tema dei diritti umani. Un tema che, anche se viene ripreso, non ha una ricaduta immediata. Paradossalmente gli effetti migliori e più positivi di Helsinki sono nel fatto che la conferenza spinge i gruppi di opposizione a uscire allo scoperto nei paesi del blocco comunista. Gli accordi di Helsinki erano stati sottoscritti anche dall’Unione Sovietica che attuerà, nei confronti di questi gruppi, una forte repressione, che è un po’ il prodromo della crisi e del crollo stesso del sistema comunista. Però se questo lo possiamo vedere in modo ottimista in paesi come la Cecoslovacchia e la Polonia in cui la repressione c’è stata, ma non i maniera cosi terribile dal punto di vista numerico, se rivolgiamo lo sguardo a situazioni come quella della Cambogia per esempio, la questione diventa drammatica e tragica, non solo per quello che succede, ma per il modo in cui all’epoca viene vissuto da tutto il mondo e dall’occidente. La reazione al genocidio che Pol Pot mise in atto tra il 1975 e il 1979, fu in parte di incredulità e in parte di ricerca di giustificazioni in modi e forme diverse. Tanto che fino al 1991 sia gli Usa che la Cina continueranno a difendere la presenza alle Nazioni Unite del governo di Pol Pot. È solamente nel ’91 che il nuovo governo cambogiano riesce ad ottenere il suo posto. Ma è soprattutto un massacro che viene visto o come qualcosa che appartiene a un altro mondo o come qualcosa che appartiene alla necessità di una dura battaglia in nome di un comunismo integrale. Ma soprattutto ci si interrogherà sul fatto che verrà posto termine al genocidio cambogiano dall’intervento vietnamita, che verrà condannato da molti compreso il governo italiano. Si parlerà del primo conflitto intersocialista della storia e della crisi del socialismo, non perché il regime socialista ha ammazzato un milione di persone, ma perché c’è un conflitto tra due stati socialisti che invece dovrebbero essere in pace tra loro. Questo paradosso del modo di ragionare di allora fa capire come si fosse ancora prigionieri di schemi ideologici, che erano tutti all’interno della guerra fredda e quindi il discorso dei diritti umani avviene in modo discontinuo e contraddittorio, come sarà del resto negli anni ’90, quando riprenderà con forza dopo la fine della guerra fredda e sarà anche accompagnato dalle vicende della Yugloslavia e dal Ruanda.

“The me decade”

Gli anni Settanta sono quelli che lo scrittore e giornalista Tom Wolf nel 1976 chiamerà “the me decade”. In questo articolo sul New York Magazine, l’autore racconta di una di quelle sedute psicologiche di qualche guru che insegna come riscoprire la propria interiorità e descrive questa cultura del concentrarsi su se stessi. Lo fa in maniera critica e polemica raccontando questo nuovo individualismo, che assume però la forma di una attività da svolgere collettivamente. Infatti si mantiene in qualche modo quella dimensione collettiva che si era imposta negli anni 60, ma l’obiettivo finale non è trasformare qualcosa fuori, ma trasformare se stessi, prendere possesso di se stessi, guardarsi dentro, stare meglio ecc.
Un grande saggista e storico dello stesso periodo è Christopher Lasch che nel suo volume La cultura del narcisismo, «offre una severa e corrosiva analisi dei modelli culturali dominanti nella società americana dagli anni Settanta in avanti, condizionata da un individualismo esasperato che si diffonde a livelli di massa e trasforma stili e comportamenti della vita quotidiana… La diffusa caduta della tensione politica, l’esasperata pratica dell’autocoscienza, il culto del corpo, l’ossessione della vecchiaia e della morte, la liberalizzazione sessuale sono le manifestazioni più importanti dell’edonismo statunitense», come scrive l’editore Bompiani nella quarta di copertina della traduzione italiana.
Sicuramente Lasch è uno dei primi a cogliere in modo profondo quanto stava avvenendo. Le critiche vennero soprattutto dalla sinistra, come se Lasch volesse negare le conquiste collettive degli anni 70. Aveva sempre avuto una posizione critica sulla modernità, cercando di vedere i problemi che portava con sé, non abbracciandola acriticamente. Coglieva profondamente questo nuovo atteggiamento mentale, soprattutto delle classi medie occidentali.
Come storico se dovessi dire quel è il fenomeno più grande a livello mondiale negli anni Settanta direi il femminismo. Spesso è visto più sul piano culturale che sociale e politico, che però ha un impatto di lunga durata con effetti anche sul piano sociale enorme. È qualcosa che è estraneo ai dibattiti politici dell’epoca, estraneo al modo di vedere gli anni Settanta attraverso le guerre e le crisi. Il terrorismo è u altro aspetto che soprattutto per l’Italia è molto importante.

Conclusioni

Estratto video: conclusioni

Per Charles Maier la crisi degli anni Settanta è una crisi sistemica, come quella degli anni ‘10 e degli anni ‘30, quindi una crisi complessiva. È una interpretazione significativa che dal punto di vista didattico è anche difficile da utilizzare. È anche una crisi che ci fa vedere degli aspetti diversi della società industriale (Daniel Bell), è una crisi demografica (Club di Roma), è anche una crisi ecologica. Per la Trilateral, e questo sembrerà paradossale, è una crisi della democrazia, che è incapace di affrontare una società in cambiamento come quella degli anni Settanta.
Tuttavia la percezione che si ha è che ci si sia trovati di fronte a una crisi di carattere globale, tanto è vero che nel momento della crisi petrolifera nessuno pensa che sia una crisi che finisca lì. E in tutto il decennio si ha questa idea di una crisi di cui non si capiscono bene tutti gli elementi, ma che è vista come una crisi globale.
Nel 1974 c’è il primo G6, perché gli stati sono consapevoli di una nuova interdipendenza tra di loro e quindi di una nuova fase di globalizzazione, come la chiamiamo oggi, che nasce e in parte è dovuta alla fine del sistema di Bretton Woods, che costringe gli stati a ridefinire i rapporti tra di loro. Questa è l’interpretazione di Niall Ferguson: «in quell’epoca furono soprattutto gettati i germi delle crisi future. Il vero trauma globale fu che la liberalizzazione dei mercati del capitale internazionale avrebbe aumentato il tasso di crescita dell’economia mondiale, ma il permanere della sovranità nazionale del mondo della politica monetaria avrebbe aumentato la frequenza delle crisi finanziarie. Questo fu il paradosso della globalizzazione: più l’economia mondiale si ottimizzava, più il sistema diventava complesso ed incline alla crisi». Mi sembra una sintesi estremamente efficace delle cose che abbiamo visto anche perché è in questo decennio che inizia quella fase di divaricazione sempre più forte tra i paesi ricchi e i paesi poveri. Certo se la paragoniamo con quello che avverrà negli anni Ottanta e poi negli anni Novanta sembra poca roba, ma comincia ora, in modo estremamente preciso, questo trend di crescita delle divergenze, delle possibilità delle risorse, la crescita delle disuguaglianze, sia all’interno dei singoli paesi, sia all’interno di blocchi di paesi.

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Dati articolo

Autore:
Titolo: La crisi del 1973
DOI: 10.12977/nov30
Parole chiave: , , , ,
Numero della rivista: n. 2, giugno 2014
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, La crisi del 1973, in Novecento.org, n. 2, 2014. DOI: 10.12977/nov30

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