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Ausmerzen: l’Aktion T4 a scuola

Ausmerzen: l’Aktion T4 a scuola

Fotogramma dello spettacolo “Ausmerzen” di Marco Paolini trasmesso su La7.
Tratto da https://youtu.be/mg3tEQiuSbw

Abstract

L’Aktion T4 è un argomento che rimane spesso a latere, almeno nelle aule scolastiche, della trattazione sui temi della Shoah. Attraverso l’approccio storico e puntuale, ma al tempo stesso empatico, che il teatro civile di Marco Paolini fornisce, questo intervento si propone – proprio a partire dall’orazione civile Ausmerzen – di ripercorrere la storia di una vicenda che dall’eugenetica razzista conduce alla sterilizzazione forzata fuori e dentro i confini tedeschi, fino allo sterminio sistematico dei disabili, cioè delle «vite indegne di essere vissute».
L’articolo termina aprendo a spunti di approfondimento e di attualizzazione, atti a stimolare il dibattito in classe e fruibili anche in un percorso di cittadinanza attiva e costituzione.

Lo spettacolo teatrale di Marco Paolini

Nel corso dell’anno scolastico 2018-2019 e nell’ambito del progetto Guerra ai civili – che curo da 9 anni – ho svolto nella mia classe quinta Liceo Linguistico un percorso didattico di 4 ore dal titolo L’Aktion T4 attraverso il teatro, al cui interno un percorso è dedicato alla didattica della Shoah.

Al centro del ragionamento sta l’orazione civile che l’artista Marco Paolini ha portato in scena nel 2011 e che s’intitola Ausmerzen: termine che traduce letteralmente le locuzioni «da eliminare», «da sopprimere». Sulla base di fonti di archivio, diari clinici, interviste, testimonianze, incontri con psichiatri, saggi storici ed atti di convegni, l’autore ha redatto un taccuino di lavoro sulla base del quale ha costruito il suo spettacolo teatrale dedicato, appunto, all’Aktion T4 e ambientato in un manicomio dismesso, con la sola scenografia di abiti lisi e consunti appesi alle pareti (quelli dei pazienti scomparsi, che vogliono creare lo stesso stupito sgomento delle cataste di scarpe di Auschwitz) e alla presenza di un’attrice che, impassibile e con tono monocorde, restando in secondo piano, declama in tedesco gli atti ufficiali.

Ausmerzen (disponibile in DVD+ libro, editi da Feltrinelli) dura circa due ore, e, senza mai cadere nel patetico, traccia l’intera storia dello sterminio dei disabili.

 

Guardare alla storia: una proposta di testo didattico

1. L’Aktion T4 e La sterilizzazione forzata

La decisione di uccidere i bambini nati con delle malformazioni fu presa nell’agosto 1939 dall’organizzazione della T4 (il termine deriva dal luogo in cui ciò avvenne: la villa berlinese di un banchiere ebreo nella Tiergartenstrasse 4) che fu affidata a Viktor Brack.

Tuttavia la sterilizzazione di massa di persone considerate inferiori è un’idea più remota. Fu la teoria dell’evoluzione di Charles Darwin a influenzare il pensiero di quanti promuovevano i principi di igiene della razza. Un progetto di miglioramento della popolazione umana attraverso una comprensione dell’ereditarietà dei caratteri, incoraggiata da un buon «allevamento», venne originariamente sviluppata durante gli Anni Sessanta del XIX secolo dall’antropologo, sociologo e psicologo britannico Francis Galton (cugino di Darwin) che teorizzò il miglioramento progressivo della razza secondo criteri analoghi a quelli dell’evoluzione biologica.[1]

Nel 1883, un anno dopo la morte del cugino naturalista, Galton diede alla sua ricerca un nome preciso: eugenetica. Lungi dall’essere confinata in una ristretta cerchia di scienziati, la dottrina eugenetica si diffuse gradualmente fino al grande pubblico. Essa divenne presto una disciplina accademica in molti istituti universitari e cominciò a ricevere ampi finanziamenti.

Tra il 1921 e il 1932 si tennero tre «Conferenze internazionali di eugenetica» a Londra e New York. Nel corso degli anni Venti e poi degli anni Trenta, la politica eugenetica di sterilizzazione obbligatoria di alcuni pazienti mentali venne implementata anche in vari paesi tra cui il Belgio,[2] il Brasile,[3] il Canada,[4] il Giappone e la Svezia. E tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo vennero emanate in Europa e USA leggi che vietavano il matrimonio ai malati di mente e li costringevano alla sterilizzazione, al fine di evitare «transmission of insanity, idiocy, imbecility, epilepsy and crime». Negli Stati Uniti il momento più importante della sterilizzazione eugenetica degli «insane fu tra il 1927 e il 1963, quando circa 64.000 persone vennero forzatamente sterilizzate».

Ecco le stime riguardanti i casi di sterilizzazioni nei periodi indicati fra parentesi:[5]

  • Germania (1933-1941): oltre 400.000.
  • Stati Uniti (1899-1979): circa 65.000.
  • Svezia (1934-1976): 62.888.
  • Finlandia (1935-1970): 58.000.
  • Norvegia (1934-1977): 40.891.
  • Danimarca (1929-1967): 11.000.
  • Canada (1928-1972): circa 3.000.
  • Svizzera (1928-1985): meno di 1.000.

Criminali recidivi, colpevoli di stupro, pazienti epilettici o con disturbi mentali o affetti da «idiotismo e mongolismo»[6] e talvolta alcolizzati o tossicodipendenti rimasero sottomessi a queste leggi di sterilizzazione.

Adolf Hitler aveva elogiato le idee eugenetiche già a partire dal 1925 e le aveva incorporate nel suo Mein Kampf; poi, una volta assunto il potere nel 1933, emulò la legislazione eugenetica volta alla sterilizzazione dei «difettosi», di cui gli Stati Uniti erano stati i pionieri. Alcuni tra i metodi più comuni degli studi eugenetici nazisti miravano all’individuazione e alla classificazione – dei singoli individui e delle loro famiglie – di malati mentali, nati ciechi e sordi, prostitute, omosessuali e alcuni gruppi razziali come rom ed ebrei. Tutti questi esseri umani, etichettati come inadeguati o degenerati «Untermenschen», furono presto condotti alla segregazione forzata, all’internamento negli ospedali psichiatrici, alla sterilizzazione obbligatoria, alla «eutanasia», fino agli omicidi di massa.

2. Dalla legge sulla sterilizzazione allo sterminio dei disabili nella Germania nazista

Insieme alla legge per la protezione del sangue e dell’onore tedesco (Legge sulla sterilizzazione), nel 1935 si diede il via a un’intensa attività di propaganda contro i malati psichici. «Necessari sacrifici» dovevano essere compiuti per salvaguardare la «unità della razza», inclusa l’uccisione di uomini che erano stati dichiarati «minorati biologici» o esseri con «vite indegne di essere vissute» – letteralmente «Lebensunwerten Lebens» – o «vite prive di valore».

Gli ideali di «igiene della razza» venivano diffusi in particolari corsi di addestramento (uno di questi si teneva a Sachsenhausen, presso Oranienburg nei dintorni di Berlino), ma anche a mezzo stampa. La modalità cui si ricorreva più di frequente era la pubblicazione di fotografie ripugnanti; un’altra era il riferimento a presunte conseguenze di ordine economico causata dalla presa in carico da parte delle strutture pubbliche della cura e del mantenimento e del ricovero di malati non guaribili. In occasione dei congressi di partito del Reich svoltisi a Norimberga nel 1934 e nel 1936, Gerhard Wagner enumerò le somme enormi che venivano sottratte al popolo tedesco per la cura di persone affette da malattie ereditarie.[7] Inoltre lo sterminio dei disabili veniva celebrato in toni sentimentali quale «liberazione» dei malati dalle loro pene. Nei centri di eutanasia si affermava che i malati venissero «curati» e, per la loro morte, erano solite formule come «liberato dall’immensa sofferenza», «morti pietose», «sollievo dalla sofferenza», letteralmente «Gnadentod» (morte di grazia in analogia con «colpo di grazia»).[8]

Fu coinvolta anche la produzione cinematografica; nel film Io accuso (Wolfgang Liebeneiner, 1941), girato per volontà di Heinrich Himmler, è messa in scena la storia kitsch e strappalacrime di un omicidio: un marito uccide la moglie affetta da un male incurabile, ma, proprio la particolare situazione della vittima, rende possibile accogliere il gesto del marito come un atto comprensibile, accolto dalla commozione e dall’approvazione di tutti.

La definizione «vita indegna di essere vissuta» cominciò a circolare in Europa a sostegno di pratiche di eutanasia attiva, per iniziativa di due autori di lingua tedesca, Karl Binding e Alfred Hoche, che nel 1920 pubblicarono uno studio dal titolo agghiacciante: Il permesso di annientare vite indegne di essere vissute e che contiene due termini che il nazismo avrebbe fatto propri: «Vernichtung» (annientamento) e «Lebensunwerten Lebens» (vite indegne di essere vissute).[9]

Per descrivere le categorie degli indegni da sopprimere potevano essere usati anche altri termini: deboli, parassiti del popolo, nemici dello stato, «mangiatori inutili», vite senza valore, «esistenze-zavorra».

Nel testo i due autori suggeriscono un metodo indolore e «pulito» per risolvere la questione e che consisteva nel provocare una «lenta e graduale asfissia mediante gas mortali». Le loro tesi vennero purtroppo discusse abbastanza serenamente in tutta Europa.

Per quanto riguarda l’Italia l’onorevole psichiatra Enrico Morselli pubblicò nel 1923 un libro dal titolo L’uccisione pietosa, l’eutanasia, in rapporto con la medicina, la morale e l’eugenetica.

Alla fine della Seconda guerra mondiale il Direttore dell’ospedale psichiatrico di Harr, dichiarò durante un interrogatorio:

I pazienti idonei per l’eutanasia erano quelli per cui non c’era nessuna speranza di miglioramento: schizofrenici non trattabili, condizioni di grave idiozia e casi di psicosi organica. Questi soggetti erano individuati come incurabili, poiché incapaci di prendersi cura di sé e bisognosi di costante cura professionale. Noi psichiatri ci riferivamo a questi come asociali.[10]

E ancora, nel 1945, il dottor Valentin Falthauser aveva scritto:

Le mie azioni non erano tese a perpetrare un crimine, bensì commesse per pietà verso creature infelici, con l’intento di liberarle dalla sofferenza laddove non c’era metodo conosciuto per salvarle o per dare loro sollievo agendo come un medico leale e coscienzioso […] L’eutanasia non è un’offesa contro l’umanità, piuttosto il contrario.[11]

Questi esempi mostrano che gli psichiatri smisero di vedere i pazienti come tali. Li svalutavano, il rendevano unwert (indegni di esistere) per essere eliminati. Non agivano come medici ma sopprimevano «vite indegne».

3. L’Aktion T4

Nel settembre 1939 Hitler firmò il seguente documento:

Il Reichsleiter Bouhler e il Dr. Med. Karl Brandt sono incaricati, sotto la propria responsabilità, di estendere le competenze di alcuni medici da loro nominati, autorizzandoli a concedere la morte per grazia ai malati incurabili secondo l’umano giudizio, previa valutazione critica del loro stato di malattia.[12]

Per attuare tale decreto del Führer venne attuata la sopraccitata Aktion T4, che ebbe ufficialmente inizio il 9 ottobre 1939. I direttori degli ospedali psichiatrici furono convocati a Berlino e informati del contenuto e delle procedure pratiche. Fu loro richiesto di inviare le schede di ogni paziente e di identificare coloro che:

  1. avevano disordini mentali specifici e non potevano lavorare o potevano svolgere solo compiti meccanici;
  2. avevano trascorso con continuità almeno 5 anni in un manicomio;
  3. erano tenuti in custodia come pazzi criminali;
  4. non avevano la cittadinanza tedesca o simile, nel qual caso ne andavano specificata razza e cittadinanza.

Le schede furono consegnate a 54 psichiatri scelti – l’élite della psichiatria tedesca – direttori di ospedali e docenti universitari. Essi dovevano decidere se un certo degente ricadeva in un gruppo da «liquidare», segnando sulla scheda: «sì», «no» o «dubbio». Il comitato nazionale inseriva i selezionati in liste poi inviate agli ospedali, con il mandato di preparare i pazienti «per la trasferta». Un’organizzazione di trasporti creata ad hoc conduceva i «prescelti» in sei istituti psichiatrici, sgomberati dai ricoverati precedenti, in cui erano stati installati camere a gas e inceneritori. Al loro arrivo, i pazienti erano subito svestiti e mostrati a un medico che doveva prendere la decisione finale sulla base delle schede, delle cartelle cliniche e della propria impressione. Quelli per i quali veniva ordinata l’eutanasia venivano subito fotografati e scortati nelle camere a gas, sale attrezzate con false docce, dove dei tubi portavano il monossido di carbonio. Una volta che i pazienti vi erano stati radunati, il medico preposto apriva il gas per 10-15 minuti e osservava gli effetti attraverso una finestrella, fino a che gli sembrava che fossero tutti morti. Dopo circa un’ora i cadaveri erano caricati e portati negli inceneritori.

In una fase successiva si procedeva ad avvisare le famiglie: venivano inviati degli annunci mortuari e delle urne contenenti le ceneri (che però appartenevano ad altri morti e non al congiunto), insieme a commoventi lettere di condoglianze nelle quali chi scriveva si lasciava spesso sfuggire errori sulle cause del decesso che facevano sorgere non pochi sospetti nei familiari poiché risultavano incompatibili con lo stato clinico dei loro parenti.[13] Poteva capitare, ad esempio, che venisse indicata come causa del decesso una «appendicite» in una persona cui l’appendice era già stata asportata in precedenza.

E proprio il programma di gassificazione attuato nei sei istituti psichiatrici citati fu all’origine della scelta di utilizzare la medesima procedura per l’annientamento del popolo ebraico: il T4 fu prodromo della Shoah, che ne riprese alcuni metodi come la selezione delle vittime, l’uso del gas e dei forni crematori, e ne utilizzò il personale.[14]

Riguardo a come si svolgevano tali operazioni nella struttura di Kaufbeuren, importante è la testimonianza dell’infermiera R. che faceva parte di un ordine religioso e che nel 1948 così testimoniò:

Fino all’agosto 1940 i pazienti erano rispettati […] All’improvviso tutto cambiò; 11 dei miei pazienti, quando tornai dalle vacanze, non c’erano più, ma nessuno sapeva dove fossero stati portati […] ma quando l’8 novembre sparì un secondo gruppo di donne e ci vedemmo riconsegnare la loro biancheria in condizioni pietose, diventammo sospettose. Il terzo trasporto di donne ebbe luogo il 9 dicembre 1940. Fu particolarmente difficile per noi infermiere consegnare queste pazienti […] come fossero bestie destinate ad una morte quasi certa. Gli addetti ai trasporti venivano da Berlino ed erano donne e uomini rudi e spaventosi. […] Avevo l’impressione che fossero SS mascherate. Le ambulanze non si presentavano all’entrata principale, ma arrivavano prima dell’alba al cortile interno. […] I pazienti cominciarono a capire cosa stava loro per succedere e piangevano, a volte urlavano anche. La selezione si basava su liste dell’ufficio dell’ispettore.[15]

Negli ospedali di sterminio, il personale, composto da medici e infermieri, era obbligato a prestare servizio. Anche a loro era imposta la massima segretezza; erano inoltre pagati molto bene ed erano esonerati dal servizio militare. È possibile che questi siano stati ulteriori incentivi a convincerli ad assumersi di buon grado l’incarico loro affidato.

Per mantenere il massimo riserbo erano usati nomi falsi per indicare i medici responsabili, ma anche i servizi in cui avvenivano le esecuzioni, ad esempio «Fondazione pubblica per la cura degli ospedali», «Comunità di lavoro per gli ospedali psichiatrici e di cura». Il trasferimento dei malati selezionati per lo sterminio avveniva in autobus grigi dalle tendine tirate e venivano eseguiti da una società pubblica per il trasporto dei malati, appositamente fondata.[16] Nonostante l’ordine di mantenere segrete le operazioni, qualche indiscrezione era trapelata, in particolar modo nelle vicinanze degli ospedali, e ciò aveva dato adito a voci nonché a un sentimento di crescente indignazione. Ci furono prese di posizioni contrarie, proteste da parte dei parenti delle vittime, di esponenti della Chiesa protestante ma anche di membri del partito nazista. I responsabili degli istituti religiosi che non erano alle dipendenze dello stato ebbero molto prima sospetti al riguardo e furono in grado di impedire l’iniziativa «eutanasia» nei loro istituti. Per questo alcuni preti cattolici e protestanti che dirigevano gli istituti finirono nei campi di concentramento e lì furono assassinati.

Un celebre esempio di religioso oppostosi coraggiosamente alla T4 è Clemens August von Galen, vescovo cattolico di Münster, il quale il 3 agosto1941 scrisse un’omelia contro il programma Aktion T4 per l’eliminazione di disabili psichici e fisici, malati lungodegenti e terminali, descritto come contrario al quinto comandamento biblico «non uccidere».

Martin Bormann chiese l’impiccagione di von Galen, ma Joseph Goebbels convinse Hitler ad attendere la vittoria finale per pareggiare i conti. Himmler, messo al corrente delle voci e del crescente sdegno che serpeggiava tra la popolazione, e soprattutto fra i parenti delle vittime, temendo che la morale di guerra ne potesse risentire, fece approvare da Hitler la sospensione provvisoria delle procedure di gassificazione.

La temporanea sospensione della gassificazione è uno dei pochi successi ottenuti grazie alla disapprovazione semipubblica dei cittadini tedeschi.

4. La seconda fase dell’Aktion T4

Nella prima fase, appena descritta, dell’Aktion T4 furono uccisi 74.000 pazienti. Nell’istituto di Hadamar si tenne addirittura una celebrazione per la cremazione numero 10.000.

Il T4 cessò ufficialmente nel 1941. I centri di sterminio furono smantellati e i trasporti sospesi nel mese di agosto, ma gli edifici non furono chiusi e la prosecuzione dei programmi di soppressione dei malati di mente fu attuata nei manicomi. Dopo l’abolizione dell’eliminazione con il gas (si usava quello della IG Farben di Ludwigshafen), nell’agosto del 1941 in alcuni istituti si continuò a uccidere con i farmaci o per fame.[17]

Il direttore del manicomio di Kaufbeuren, in una riunione presso il dipartimento della Salute, presentò con successo la «dieta priva di grassi e di vitamine». Nel suo manicomio, infatti, faceva somministrare una dieta priva di grassi ai degenti che precedentemente erano stati selezionati per l’eutanasia: entro tre mesi morivano di fame. Il segretario dell’interno dispose allora l’introduzione di questa «dieta della fame» in tutti i manicomi.

Questo regime dietetico era chiamato «dieta E» e fu introdotta nel 1943. Prevedeva: caffè nero o tè a colazione, verdure bollite (per esempio ortica, spinaci, cavolo o patate) a pranzo e cena. A intervalli regolari i pazienti potevano mangiare abbondantemente:[18]

[…] noi infermieri dicevamo che sarebbero stati nutriti meglio se il cibo fosse stato distribuito in maniera più regolare. Ma era prescritto che ai pazienti in dieta si dovesse far prima soffrire la fame e poi sovraccaricare lo stomaco all’improvviso, in modo che fossero colpiti non solo dall’insufficienza di cibo, ma anche da un’alimentazione irregolare. Noi sospettavamo che questo sistema intendesse provocare la morte dei pazienti.[19]

In effetti la Dieta E, portata avanti fino alla fine della guerra, fece aumentare in maniera esponenziale il tasso di mortalità negli ospedali. I letti lasciati liberi dai deceduti venivano occupati dai cosiddetti «pazienti dell’est»: russi, polacchi, baltici che avevano contratto malattie mentali nei campi di lavoro forzato in cui erano stati internati. Una direttiva da Berlino prevedeva che i direttori interrompessero ogni trattamento se il paziente era incapace di tornare al lavoro entro 4 settimane.[20] Dal 1944 fu introdotta una nuova forma di eutanasia: i pazienti ricevevano Luninal o Veronal e a volte Trional in pillole e anche Luminal e morfina-scopolamina in forma liquida. L’infermiera che ha, senza traccia di pentimento, testimoniato in proposito di queste somministrazioni ha dichiarato:

Iniziavo con 0,3 di Luminal in pillole al giorno e aumentavo il dosaggio secondo l’andamento della malattia, Il risultato finale era un sonno profondo, di piombo, da cui i pazienti non si risvegliavano più. La morte poteva arrivare molto velocemente, già al primo giorno; nella maggior parte dei casi, il secondo o il terzo giorno.[21]

In molti ospedali psichiatrici furono istituiti reparti speciali in cui trasferire i bambini affetti per lo più da handicap mentali, che venivano eliminati con iniezione di oppiacei e barbiturici.

In questa fase furono uccisi circa 110.000 pazienti: fra il 1939 e il 1945 il numero totale delle vittime raggiunse le 170.000 unità.

5. L’Aktion T4 al di fuori della Germania

L’Aktion T4 si diffuse presto non solo in Germania ma anche nelle nazioni da essa occupate, specialmente in Polonia, Cecoslovacchia e Austria, con sconfinamenti a Strasburgo (dove funzionarono due reparti psichiatrici in cui si somministravano farmaci in dosi mortali) e a Leopoli (con una struttura analoga). Anche nella Francia di Vichy si registrò un numero elevatissimo di morti nei manicomi: 40.000, forse 50.000, ricoverati morirono in pochi mesi con un picco di mortalità innaturale.

In Italia l’unico caso che costituisce la coda dell’Aktion T4 riguarda i bambini disabili dell’Alto Adige che furono mandati a Kaufbeuren: alcuni furono soppressi con l’eutanasia, altri usati come cavie umane. Tuttavia dopo l’8 settembre 1943 anche all’interno di alcuni manicomi italiani accaddero episodi che meritano attenzione, ma che differiscono dall’Aktion T4, sia per la mancata complicità dei medici, sia perché gli omicidi facevano parte della campagna di sterminio degli ebrei. La vicenda più rilevante è quella dei ricoverati nell’ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana in provincia di Trento. Altri drammatici episodi coinvolsero gli ospedali psichiatrici di Trieste, Venezia e Treviso. Si trattava dei prelevamenti forzati di ebrei ricoverati in quegli ospedali da parte di militari tedeschi comandati da Franz Stangl, ufficiale di polizia austriaco che nel 1940 era stato assegnato al castello di Hartheim, uno dei 6 centri di eutanasia, sotto il cui comando furono uccise e poi bruciate oltre 18.000 persone.

Nel settembre 1943 Stangl fu trasferito a Trieste e impiegato alla Risiera di San Sabba nell’ambito dell’Adriatisches Küstenland, l’area dell’Italia nord-orientale direttamente controllata dalla Germania, per la repressione dei partigiani e la deportazione degli ebrei, per esempio a Venezia.[22] Stangl sapeva come scovare gli ebrei sani ricoverati nei manicomi per sfuggire alla cattura, o coloro che avevano realmente qualche malattia mentale. All’ospedale psichiatrico San Giovanni arrivò il 28 marzo 1944, su 39 cartelle cliniche venne scritto nella colonna riservata alle cause di dimissione «prelevato manu militari da una formazione delle SS; parte per una destinazione ignota». A Treviso, il 7 aprile, furono 4 le persone che vennero portate via. Quando a ottobre Strangl si sposta a Venezia, prelievi di pazienti accadono nell’ospedale cittadino di San Clemente e di San Servolo.

Stangl fu catturato alla fine della guerra dal controspionaggio statunitense e rinchiuso in carcere senza che nessuno si rendesse conto di chi fosse in realtà.

Alla fine dell’estate 1947 gli austriaci chiesero che venisse loro consegnato per i fatti di Hartheim. Prima di essere processato raggiunse il nord d’Italia e poi Roma, dove fu aiutato da alti prelati del Vaticano come molti altri criminali nazisti. Ottenne un passaporto della Croce Rossa per la Siria, dove lo raggiunse la famiglia con la quale si trasferì in Brasile, paese in cui Stangl trascorse lunghi anni sereni mantenendo sempre il proprio nome senza bisogno di nascondersi.

6. E dopo l’Aktion T4?

In Germania, il primo luglio 1945, due mesi dopo la fine della guerra, al quartier generale delle forze americane a Kaufbeuren arrivò la richiesta di effettuare un controllo nel locale ospedale psichiatrico. L’indomani tre ufficiali e un fotografo si avviarono verso la struttura. Per strada, chiesero a un ragazzino dove si trovasse l’edificio, e quello rispose: «È là, dove uccidono». I quattro uomini si fecero accompagnare nell’ufficio del vicedirettore, poiché il direttore Valentin Falthauser era agli arresti domiciliari per via della sua appartenenza al partito nazista. Quando aprirono la porta, lo trovarono impiccato: era stato informato dell’arrivo degli ufficiali. Nella clinica si trovavano molti cadaveri insepolti, nudi, scheletrici. Si apprese che fino a pochi giorni prima erano stati uccisi dei pazienti.

Gli ufficiali misero Falthauser in stato di accusa e, nel luglio del 1948, l’ex direttore fu condannato a tre anni di carcere per «concorso in omicidio in almeno trecento casi». Non fu però incarcerato perché le sue condizioni furono giudicate incompatibili con lo stato di detenzione, e la pensione da funzionario dello stato, che gli era stata tolta, gli venne nuovamente concessa.

Non c’è stata, dunque, nessuna cesura con il passato. Se si guarda ai nomi scelti per dirigere le cliniche psichiatriche bavaresi alla fine della guerra, la continuità è evidente. Solo alla fine degli Anni Sessanta alcuni giornalisti si fecero internare in una struttura per malati mentali e ne raccontarono la terribile esperienza. Il parlamento tedesco dispose allora una commissione di inchiesta i cui risultati, discussi nel 1975, posero le basi per l’avvio di una riforma; ma ci vollero ancora anni perché i Länder attuassero dei piani concreti di rinnovamento.[23]

Solo negli anni Ottanta la Psichiatria democratica decise di fare i conti con il passato e anche in Germania esplosero i dibattiti sul tema della psichiatria ai tempi del nazismo.[24] Solamente nel biennio 1979-80 molti sopravvissuti iniziarono a scrivere. A partire dal 1983 si formò in Germania un gruppo di lavoro finalizzato a portare avanti l’analisi della eutanasia nazista.

Uno dei protagonisti della rimozione della reticenza di quanto era avvenuto negli ospedali psichiatrici non solo in epoca nazista ma anche, con una certa continuità, in quella successiva è Michael von Cranach. Nel maggio 1980 gli fu assegnata la direzione dell’ospedale di Kaufbeuren, senza che egli conoscesse il passato di quell’istituto:

I primi giorni a Kaufbeuren furono deprimenti. Rimasi sconvolto dalle condizioni dei mille pazienti dell’ospedale. Quasi tutti vivevano lì da anni, vestiti in uniformi da lungodegenti, alloggiati in reparti spesso chiusi, senza nessuna apertura verso il mondo esterno, vittime di povertà, violenze e sfruttamento: i medici si facevano lavare da loro le macchine, mentre le mogli dei dottori impiegavano pazienti donne come domestiche non retribuite. Sconcertanti erano anche i modi di comunicazione tra personale e ricoverati, il divario di potere, la dipendenza estrema dei degenti e il loro vivere senza alcuna prospettiva. Soffrivo pure per l’estrema gerarchia che regnava nell’istituto […] Ebbi la sensazione che il tempo si fosse fermato: mi resi conto che la riforma psichiatrica non sarebbe mai potuta avvenire senza prima chiarire cosa fosse successo là dentro. La mia segretaria […] mi parlò di quello che era successo nell’ospedale durante la guerra e mi consegnò una serie di documenti. Era il punto di partenza per la nostra rielaborazione della storia e delle sue conseguenze.[25]

Nel 1986 i pazienti vittime dal programma di sterilizzazione coatta e i parenti delle vittime del progetto eutanasia trovarono la forza di riunirsi e organizzarsi in un’associazione e di creare gruppi di dibattito in tutte le città tedesche; iniziarono a lottare in ambito politico per ottenere il riconoscimento anche da parte del governo di Bonn. Nel 1987 il Parlamento federale prese la decisione per cui i crimini perpetrati dai nazisti sui pazienti psichiatrici vennero riconosciuti come una tipica ingiustizia (non crimine) e vennero quindi condannati; successivamente, attraverso l’emanazione di direttive, si rese possibile la concessione dei relativi indennizzi, e tuttavia fino a oggi non si è riusciti a ottenere un’equiparazione giuridica con i perseguitati razziali, politici e religiosi.

 

L’AKTION T4: Riflessioni, finalità, spunti didattici

1. Teatro e cinema

Un’adeguata preparazione degli studenti sulla storia dell’Aktion T4 è il presupposto di metodo indispensabile per accedere alla visione dello spettacolo di Marco Paolini che può essere anche utilizzato per avviare la comparazione con altre pièce teatrali. Il vicario di Rolf Hochhuth del 1963 (rappresentata una sola volta in Italia nel 1965 e subito censurata), ad esempio, è stata lo spunto per la trasposizione filmica Amen di Costa-Gravas (2002).

Già solo la visione dei primi venti minuti del film permette di contestualizzare il tema dei rapporti fra Vaticano e nazismo e quello del silenzio di Papa Pio XII sulla Shoah (nell’opera la gassazione di alcuni bambini disabili, viene interrotta per intervento del vescovo Von Galen).

Molto proficua è anche la visione del film Nebbia di Agosto di Kai Wessel (2016), dall’omonimo libro di Robert Domes, il quale indaga scrupolosamente lo sterminio dei disabili attuato nell’ospedale psichiatrico di Kaufbeuren, a seguito delle ricerche condotte da Michael Von Cranach, divenuto direttore di quell’ospedale nel 1980. Il film è incentrato sulla vicenda di Ernst Lossa, un ragazzo Jenisch di 14 anni. Dapprima messo in orfanotrofio ad Augusta, poiché ai genitori viene tolta la patria podestà in quanto «zingari e venditori ambulanti» (la madre muore quando il figlio ha 4 anni, il padre è deportato dapprima a Dachau e poi a Flossenbürg dove viene ucciso), cresciuto senza una guida affettiva, è ritenuto un bambino difficile, irrequieto, «irrecuperabile e predisposto di natura ad avere turbe psicologiche perché zingaro».

Dopo un periodo di internamento nel riformatorio di Dachau, viene mandato nell’istituto psichiatrico di Kaufbeuren, e a Irsee ucciso con iniezione letale a soli 14 anni. Dagli infermieri era considerato gentile e altruista (ad esempio rubava del cibo per darlo ai più bisognosi), per cui cercarono di procrastinarne la morte il più possibile. Il giorno prima dell’iniezione di morfina e scopolamina, lasciò una sua foto a un infermiere con la dedica “in memoria”.

La vicenda di Ernst Lossa è utile anche per lavorare sugli stereotipi: Ernst Lossa finisce ricoverato (e poi ucciso) a Kaufbeuren perché era uno Jenisch (terza popolazione nomade in Europa dopo i Sinti e i Rom), quindi ritenuto dalla politica razziale nazista persona con tendenza all’asocialità, al nomadismo, ai furti.

2. Letteratura

Un interessante spunto didattico in ambito letterario potrebbe offrirlo il romanzo-verità di Helga Schneider Il piccolo Adolf non aveva le ciglia (Rizzoli, Milano, 1998), che nasce da un’intervista raccolta dall’autrice in Germania nell’autunno del 1966. Il nome della protagonista, Grete, è fittizio, ma la storia è vera. Nel 1997 l’ottuagenaria protagonista ripercorre la sua vita dal 1940 a Berlino, quando da piccolo-borghese figlia di bottegai, aveva fatto il grande salto sociale sposando un SS, Gregor, di nobile origine, avvenente, amante dell’arte e della musica di Wagner, insomma l’ «ariano perfetto» che ricopre importanti mansioni riguardanti la questione ebraica. Grete apre gli occhi sugli orrori del nazismo e prende le distanze dagli ideali hitleriani in cui ella stessa aveva creduto, quando il marito le sottrae e fa sopprimere il figlio, il neonato Adolf, colpevole di essere nato imperfetto. Ella si stacca dal marito ma il suo destino resta amaramente segnato poiché proprio l’inflessibile coniuge la fa ricoverare nella costruzione «mascherata da clinica psichiatrica» che Grete capisce essere un luogo apprestato per l’eliminazione delle «esistenze indegne di vivere, dei pesi morti della nazione».

«Sappi che approvo pienamente il programma di eutanasia del Reich – le aveva detto Gregor – che elimina i pesi morti della nazione e le esistenze non degne di vivere. Trovo che sia una disposizione estremamente progressista che in futuro sarà imitata da molti altri Paesi».
Grete si salva, sebbene tra peripezie strazianti, si risposa, ha figli e nipoti ma non potrà mai rimuovere del tutto il volto del figlio soppresso e smettere di chiedersi «che vita sarebbe stata la sua, se fosse vissuto».
«L’ultimo bambino vittima del programma di eutanasia nazista – scrive in appendice la Schneider – venne ucciso il 29 maggio del 1945, malgrado le truppe americane stazionassero ormai da trentatré giorni su quel territorio» e prosegue: «il programma di eutanasia costò la vita a più di settantamila persone del Terzo Reich». «Anziché proteggere i più deboli, il governo di Hitler perpetuò il loro sistematico sterminio. Al contrario, la Germania nazista promulgò una severa legge, contro la vivisezione e l’uccisione delle specie animali protette».

3. Obbedire all’autorità

Perché medici e infermieri non solo non si sono sottratti agli ordini dell’operazione, ma talvolta li hanno condivisi? Su questo quesito si possono impostare diversi percorsi sull’obbedienza all’autorità.

Un punto di partenza può essere il concetto dello stato eteronomico, di cui tratta Stanley Milgram in Obbedienza alla autorità. Uno sguardo sperimentale (2003). Nell’esperimento dello psicologo sociale a 40 persone scelte secondo criteri sperimentali fu detto che avrebbero partecipato ad una ricerca su memoria e apprendimento, strutturata come un gioco a quiz. Seguendo le istruzioni ricevute, queste persone avrebbero dovuto «punire» le risposte sbagliate degli altri concorrenti con scariche elettriche (così pensavano) di intensità crescente, da 15 a 450 volt. La maggior parte dei soggetti coinvolti, per manifestando disagio, si lasciò guidare fino a emettere la scarica massima.

Analogamente si può affrontare il tema dello stato eteronomico spiegando l’esperimento della prigione di Stanford condotto da Philip Zimbardo nel 1971.[26]

Zimbardo scelse, fra i 75 studenti universitari che risposero a un annuncio di richiesta di volontari per una ricerca, 24 maschi di ceto medio fra i più equilibrati, maturi, e meno attratti da comportamenti devianti; poi assegnò loro casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie. I prigionieri furono obbligati a indossare divise sulle quali era applicato un numero, un berretto di plastica, e una catena a una caviglia; dovevano inoltre attenersi a una rigida serie di regole. Le guardie indossavano uniformi color kaki, occhiali da sole riflettenti che impedivano ai prigionieri di guardare loro negli occhi – ciò che un paio di anni dopo accade realmente durante il colpo di stato di Augusto Pinochet – ed erano dotate di manganello, fischietto e manette. Tale abbigliamento poneva entrambi i gruppi in una condizione di «deindividuazione».

I risultati di questo esperimento sono andati molto al di là delle previsioni degli sperimentatori, dimostrandosi particolarmente drammatici. Dopo solo due giorni si verificarono i primi episodi di violenza. Al quinto giorno i prigionieri mostrarono sintomi evidenti di disgregazione individuale e collettiva: il loro comportamento era docile e passivo, compromesso da seri disturbi emotivi, mentre per contro le guardie continuavano a comportarsi in modo vessatorio e sadico. A questo punto i ricercatori interruppero l’esperimento.

L’esperimento dimostra le teorie di Le Bon, secondo cui il processo di «deindividuazione» induce una perdita di responsabilità personale, la ridotta considerazione delle conseguenze delle proprie azioni indebolisce i controlli basati sul senso di colpa, la vergogna, la paura, così come quelli che inibiscono l’espressione di comportamenti distruttivi. La «deindividuazione» implica perciò una diminuita consapevolezza di sé, e un’aumentata identificazione e sensitività agli scopi e alle azioni intraprese dal gruppo.

Per attualizzare e confermare l’esperimento di Zimbardo si possono, ad esempio, far ricercare agli studenti le notizie riguardanti le torture cui furono sottoposti i prigionieri iracheni nella prigione di Abu Ghraib a opera di militari statunitensi, durante l’occupazione militare dell’Iraq nel 2003. Le immagini che ritraggono le sevizie e le umiliazioni subite dai prigionieri, risultano drammaticamente simili a quelle prodotte durante l’esperimento dell’Università di Stanford.

4. Lavorare sull’attualizzazione

Per attualizzare sarà necessario utilizzare la storia discriminatoria nei confronti di tutto ciò che era considerato «devianza» da parte dei nazisti, per provare ad analizzare la realtà di oggi e le prospettive per il futuro. Nella logica di spingere il discorso sull’attualizzazione potrebbe essere utile organizzare un debate attorno al tema delle conquiste di civili realizzate nel nostro Paese negli anni Settanta (cfr. Legge Basaglia), in cui i due gruppi di studenti potrebbero rappresentare i punti di vista divergenti di Mario Tobino e di Franco Basaglia.

L’idea è quella di arrivare a una riflessione sull’attuale inadeguatezza di strutture diurne e residenziali, sulle lunghe liste di attesa per accedere ai servizi, sul dibattito attorno alla questione della domiciliarità.

Come non pensare, oggi, in piena emergenza sanitaria per il Covid-19, alle vicende di alcune residenze sanitarie per anziani che si sono trasformate da luoghi di cura a ghetti infetti, nei quali portare a morire coloro che erano stati toccati dalla malattia. In tempi passati, come oggi, non solo era in gioco il principio del valore assoluto della vita, a qualsiasi età: lo storico non può fare a meno di rilevare il capovolgimento del valore della senectus, del suo senso, da elemento da rispettare in quanto cumulo di saperi ed esperienze da trasmettere alle nuove generazioni, a peso insostenibile di una società che si domanda perché prolungare la vita di persone che tanto hanno vissuto.

Nell’ambito di un possibile PCTO gli studenti potrebbero essere avviati a un’attività presso centri diurni, cooperative sociali ed enti di volontariato non solo per sensibilizzarsi di fronte a certe tematiche, ma anche per redigere una sorta di pagella di valutazione del nostro sistema sanitario nei confronti della disabilità.

La conoscenza dell’Aktion T4 apre una proficua discussione anche sulla differenza fra il concetto odierno di «eutanasia» e la cosiddetta «morte pietosa» reclamizzata dai nazisti: l’eutanasia, su cui oggi si dibatte così accesamente, non riguarda certo l’eugenetica o l’appartenenza etnica ed è una scelta volontaria e cosciente di chi la richiede. Di qui si può discutere sulla liceità o illiceità, esigenza o opportunità (dopo espressa richiesta volontaria da parte di un soggetto capace di intendere e di volere) di interrompere le cure per malati terminali e anche la nutrizione assistita o artificiale o forzata, il cosiddetto «accanimento terapeutico».

Gli studenti potrebbero essere invitati a compiere una ricerca sulle discussioni parlamentari che, a partire dal caso Englaro, si sono succeduti su questo tema e sui quali impostare un debate.

Un punto di partenza per lo studio delle fonti sul tema dei diritti umani negli ultimi 300 anni potrebbe avvenire da un confronto con la Dichiarazione universale dei diritti umani (1948), dalla quale tracciare una sintetica linea di scoperta e valorizzazione dei diritti umani inalienabili, per cui nessuna vita è indegna di essere vissuta.

Più approfonditamente, per quanto riguarda i disabili, si può richiamare la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. Il 13 dicembre 2006, durante la sessantunesima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, viene adottata la risoluzione A/RES/61/106 la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, il cui scopo è promuovere, proteggere e assicurare il pieno ed eguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali.[27]

Una proposta di lavoro potrebbe essere quella di far svolgere ai ragazzi una ricerca per il confronto dei testi della Dichiarazione del 1948 con quelli del Bill of Rights del Parlamento inglese del 1689, della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776, della Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen della Rivoluzione francese del 1789.

Un altro spunto è approfondire i dettagli dello stigma ancora oggi molto diffuso sulle persone con disabilità e disturbi psichiatrici,[28]per arrivare a impostare una riflessione sul concetto di «qualità della vita». Non di rado, ad esempio, è difficile distinguere la pietà che si prova per chi patisce, dal fastidio, dal turbamento, dalle difficoltà che ci provoca il suo patire.


NOTE

[1] P. J. Bowler, Evolution: The History of an Idea, 3rd Ed., University of California Press, 2003, pp. 308–310.

[2] The national office of Eugenetics in Belgium, in Science, vol. 57, n° 1463, 12 Gennaio 1923.

[3] S. A. Dos Santos, L. Hallewell,Historical Roots of the “Whitening of Brazil, in Latin American Perspectives, vol. 29, nº 1, Gennaio 2002.

[4] A.McLaren, Our Own Master Race: Eugenics in Canada, 1885–1945, Toronto, Oxford University Press, 1990.

[5] Modello di legge del 1914, applicato nel 1924 in 12 stati americani, cit. in.P. Lombardo, EugenicSterilizationLaws, essay on Eugenics Archive, consultato il 12 marzo 2020.

[6] https://web.archive.org/web/20120717042520/http://www.istoreto.it/amis/schede.asp?id=6&idsch=22 consultato il 13 marzo.

[7] G. Sereny, Into the Darkness : From Mercy Killing to Mass Murder, Random House, London 1974 [trad. It. In quelletenebre, Adelphi, Milano 1975].

[8] A. Mitscherlich, F. Mielke (a cura di) MedixinohneMenschlichkeit :Dokumente des NuembergAerzeprozessen, Fischer Buecherei, Frankfurt am Main 1962 [trad. it. Medicina disumana. Documenti del Processo ai medici di Norimberga, Feltrinelli, Milano 1967].

[9] K. Binding, A. Hoche, Die Freigabe der VernichtunglebensunwertenLebens, ihr Mass und ihre Form, Leipzig 1920.

[10] M. Paolini, M. Signori, Taccuino di lavoro, Einaudi, Torino 2012, pp. 105-106.

[11] Paolini, Signori, 2012, p. 10.

[12] Hitler e l’eutanasia in www.dalrifugioall’inganno.it consultato il 10 marzo 2020 e M. Von Cranach, L’uccisione dei pazienti psichiatrici nella Germania nazista fra il 1939 e il 1945 in Israel Journal of Psichiatry, Gefen Publishing House, Jerusalem 2003, vol. 40, n°1, pp. 8-18.

[13] aktion-t4-leugenetica-nazista in www.abilitychannel.it consultato l’11 marzo 2020 e Paolini, Signori, 2012, p. 10.

[14] A. Ricciardi von Platen, Lecreazione dell’uomo perfetto: Il tentativo nazionalsocialista di stermino dei «minorati psichici» in Atti del convegno Follia e pulizia etnica in Alto Adige. Bolzano 10 marzo 1995. Collana fogli di informazione n° 20, Centro di Documentazione di Pistoia editrice, Pistoia 1998.

[15] Paolini, Signori, 2012, pp. 64-65.

[16] Paolini, Signori, 2012, p. 99.

[17] Paolini, Signori, 2012, p. 100.

[18] Paolini, Signori, 2012, pp. 100-102.

[19] Paolini, Signori, 2012, p. 103.

[20]/www.olokaustos.org/argomenti/eutanasia/eutanasia10.htm consultato il 7 maggio 2020 e A. Pirella, Psichiatria europea, “eutanasia” e sterminio, in B. Norcio, L. Toresini, Psichiatria e nazismo, in Collana Fogli di Informazione n°10, Centro Documentazione di Pistoia Editrice, Pistoia 1994.

[21] Paolini, Signori, 2012, p. 104.

[22] A. Lallo, L. Torresi, La deportazione ebraica dagli ospedali di Venezia nell’ottobre 1944, in Atti del convegno di San Servolo (Venezia) 9 ottobre 1988, Collana fogli di informazione n° 191, Centro di documentazione di Pistoia editrice, Pistoia 2002.

[23] M. Von Cranach, L’elaborazione degli omicidi dei malati a Kaufbeuren-Irsee dal 1945 a oggi. Un resoconto personale, (trad. It. N. Brenner, M. Brunzin) in AA. VV. Den OpfernihreNamengeben. NS “Euthanansie”, Verbrechen, historisch-politische und Erinnerungskultur, Klemm+Oelschlaeger, Muenster 2011.

[24] S. Levis Sullam, I carnefici italiani. Storia del genocidio degli ebrei, 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 2014, p.75 e K. Doener, Le ricerche degli anni Ottanta sulle deportazioni psichiatriche negli ospedali psichiatrici tedeschi. Il significato rispetto alla revisione critica della coscienza di un popolo, in Atti del convegno “Follia e pulizia etnica in Alto Adige”, Collana Fogli di Informazione n°20, Centro di documentazione di Pistoia Editrice, Pistoia 1998.

[25] Paolini, Signori, 2012, p. 106.

[26] Ph. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008. Si può lavorare anche a partire dall’opera teatrale del 2010 Effetto Lucifero, pièce teatrale a cura della compagnia Oyes, drammaturgia di Dario Merlini o dal recente film Effetto Lucifero (The Stanford Prison Experiment), di Kyle Patrick Alvarez, del 2015.

[27] Convenzione_diritti_persone_disabili.pdf in www.unicef.it/Allegati/Convenzione_diritti_persone_disabili.pdf

[28] Nella mia classe ho deciso di somministrare un questionario anonimo e analizzarne i risultati. In allegato, fornisco una copia di un questionario creato dal Dipartimento di sociologia dell’università di Firenze e di quello di Muenster (Germania), in partnership con il centro di ricerca poiein.lab, già somministrato in scuole italiane e tedesche di secondo grado. Ovviamente il questionario dovrebbe essere adattato al progetto didattico svolto in classe. La visione dei tre video citati si riferisce al trailer del film Due piedi sinistri (sul tema della disabilità), allo spot Mai più un banco vuoto (relativo al bullismo) e al «test della bambola» del dr. Kenneth Clark del 1954, ripetuto a distanza di oltre cinquant’anni da Kiri Davi (sul tema del razzismo).