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Vademecum sull’identità (e dintorni)… Tradizione, Cultura, Civiltà, Frontiera, Relativismo

Vademecum sull’identità (e dintorni)… Tradizione, Cultura, Civiltà, Frontiera, Relativismo
Abstract

Mai come in questi ultimi decenni il tema dell’identità è stato così sentito e al centro dell’attenzione mediatica e politica. Le dinamiche della globalizzazione e la moltiplicazione di interazioni, dovuta ai fenomeni migratori, con individui di culture e fedi religiose diverse hanno spesso acuito il timore per una minaccia che graverebbe sul patrimonio culturale a fondamento dell’identità occidentale. Questo articolo, strutturato come un vademecum in due puntate (questa la seconda), si ripromette di analizzare criticamente la sfera dell’identità, passando in rassegna una serie di termini e concetti – identità, etnia, nazione, radici, tradizione, cultura, civiltà, frontiera, relativismo – ad essa associate e non di rado utilizzate con estrema disinvoltura e scarso discernimento nel dibattito pubblico.
I rimandi bibliografici in nota consentiranno ulteriori approfondimenti.

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Never in recent decades has the theme of identity been so keenly felt and at the centre of media and political attention. The dynamics of globalisation and the multiplication of interactions, due to migratory phenomena, with individuals of different cultures and religious faiths have often heightened the fear of a threat to the cultural heritage underpinning Western identity. This article, structured as a guide in two parts (this being the second), aims to critically analyse the sphere of identity, reviewing a series of terms and concepts—identity, ethnicity, nation, roots, tradition, culture, civilisation, frontier, relativism—associated with it and often used with great ease and little discernment in public debate.
The bibliographic references in the notes will allow for further exploration.

Tradizione

a) Tortellini e carne di pollo

Ingredienti per il ripieno dei tortellini alla bolognese? Midollo di manzo e petto di pollo arrosto. Sacrilegio! Sgomenti e indignati, buongustai felsinei e di mezza Italia saranno pronti a elevare la loro protesta per un simile affronto: la ricetta dei tortellini, si sa, prevede rigorosamente la carne di maiale, non certo il pollo. Chi lo attesta? La tradizione, ovviamente. Ne siamo così certi? Chi prendesse in mano Apicio moderno, libro di cucina compilato da Francesco Leonardi[1], edito nel 1790 e ristampato nel 1807, farebbe una sorprendente scoperta: i tortellini richiedevano la carne di pollo e tale ricetta compariva anche nel Talismano della felicità, fortunato manuale di cucina, pubblicato nel 1929 e più volte ristampato, destinato a divenire un classico regalo per le spose italiane[2]. Nel corso di un breve arco temporale la tradizione è venuta a mutare e ciò che ieri risultava tradizionale ha cessato di esserlo oggi e viceversa.  

Derivato dal verbo tradere (“consegnare”) e significante, in ambito giuridico, il trasferimento del possesso di un bene, “tradizione” indica la trasmissione nel corso del tempo di usi, costumi, norme, memorie atte a regolare e indirizzare la vita di una società.  Preziosa risorsa per conservare i retaggi del passato e preservarne valori e insegnamenti, la tradizione è abitualmente associata a una fonte sapienziale cui attingere proficuamente per non perdere la rotta e compromettere il sicuro cammino.

La fedeltà alla tradizione come garanzia, quindi, del mantenimento dell’identità, sempre più sottoposta a minacce e processi erosivi nell’attuale fase storica segnata dai fenomeni della globalizzazione. Non sorprende allora la chiamata alle armi in difesa della tradizione, in quanto a essere in pericolo sarebbero la nostra stessa identità, sistema di vita, modello di società.

Ma cosa è la tradizione? Quale il criterio discriminante? La storia si incarica di risponderci, mostrandoci come tradizione sia ciò che gli uomini, in un certo tempo e in una certa cultura, hanno continuato a ritenere tale. Il che significa, specularmente, che una tradizione può cessare di esserlo nel momento in cui quegli stessi uomini decidano di interromperla, superarla, modificarla. Se in passato certe controversie si risolvevano sfidandosi a duello, oggi ci si affida al giudizio di un tribunale. In passato si faceva affidamento su rituali magici per i problemi di salute, oggi ci si rivolge al medico specialista. La gonna al giorno d’oggi non è più d’obbligo per le donne e gli insegnanti non infliggono più punizioni corporali ai loro studenti. Era tradizione, non lo è più.

Nel corso del tempo le tradizioni possono persistere e conservarsi, oppure modificarsi e cessare di esistere, a seconda delle esigenze e convenienze degli uomini: nessuna garanzia assoluta e metastorica è posta a fondamento di esse.

b) Tradizioni poco tradizionali

Tradizioni soggette a mutamento, tradizioni inventate. E’ ormai assodato dalla ricerca storiografica come svariate tradizioni rivelino in realtà origini molto recenti, dettate da precise finalità politiche volte a legittimare rivendicazioni di stampo identitario[3]. Il medioevo, da questo punto di vista, si è rivelato essenziale per tutti quei politici e ideologi che, attingendo a piene mani tra castelli e carrocci, cattedrali e spade, hanno rievocato un mitico passato, opportunamente ricostruito e interpretato, quale pezza d’appoggio per le loro mire. Di medievalismo polimorfico, funzionale alle politiche identitarie, ha parlato Tommaso di Carpegna Falconieri, mostrando l’uso militante di cui è stata fatta oggetto questa fase storica[4]. Emblematico, in merito all’invenzione delle tradizioni, è il kilt, costume scozzese per eccellenza, divenuto il simbolo del fiero indipendentismo del popolo delle Highlands. Come hanno dimostrato gli storici, fu grazie all’intuizione dello scrittore Walter Scott, fautore del nazionalismo scozzese, se quel capo da lavoro, introdotto nel XVIII secolo da un imprenditore inglese, venne tramutato nel tradizionale gonnellino, conosciuto in tutto il mondo[5]. Nessuno stupore, quindi, se in Braveheart, film di successo del 1995 diretto e interpretato da Mel Gibson, i personaggi della vicenda, ambientata in Scozia tra i secoli XIII e XIV, sfoggiano e vanno in battaglia con l’immancabile kilt.

c) Postilla

Le tradizioni mutano al mutare dei tempi ma talvolta siamo noi a non rendercene conto, restando pervicacemente convinti del contrario. Significativo è un aneddoto, riferito all’antropologo Marco Aime da don Piero Gallo, parroco di San Salvario, quartiere multietnico di Torino:

in una scuola materna del rione un giorno le maestre preparano il couscous, secondo la ricetta tradizionale, sperando di fare cosa gradita ai loro giovani studenti. Alla domanda se il piatto fosse piaciuto, un piccolo marocchino ha risposto ha risposto: “quello di mia mamma è più buono perché mette uno strato di couscous e uno di tortellini, uno di couscous…”[6]

 

Cultura

a) Un razzismo senza razza

Di razze, per fortuna, non si parla più. Tranne deprecabili eccezioni e lapsus imbarazzanti (ma rivelatori?)[7], nessuno al giorno d’oggi sostiene l’esistenza di razze differenti e consequenziali gerarchie. Persino gli odierni neofascisti e neonazisti (e galassie limitrofe) si peritano di rigettare pubblicamente, a beneficio di telecamera e taccuino, ogni accusa di razzismo. Del resto “non sono razzista ma…” è l’incipit ben noto di chi vuole premunirsi da una accusa ritenuta inaccettabile e squalificante. Grazie alla genetica novecentesca tutti noi ormai sappiamo di discendere dall’Homo Sapiens e di condividere lo stesso DNA e forte è la consapevolezza di quanti siano stati, nel corso dei secoli, gli orrori derivanti dalle teorie e pratiche razziste[8]. Un nefasto capitolo della storia sembrerebbe essersi definitivamente chiuso. Non è così.

Per individuare l’assassino bisogna disporre del giusto identikit e per combattere le odierne forme di razzismo è necessario, parimenti, saper individuare le nuove sembianze da esso assunte: il razzismo, infatti, muta pelle come un serpente e l’eclissi del suo paradigma otto/novecentesco non comporta, purtroppo, la sua definitiva scomparsa[9]. Ciò che è stato cacciato dalla porta può rientrare dalla finestra. Al concetto di razza, ormai definitivamente screditato, e relative tassonomie, rischia di subentrare surrettiziamente un concetto di cultura connotato da quelle stesse caratteristiche – fissità, immutabilità, impermeabilità – già attribuite alle razze.

Un razzismo senza razza, un razzismo differenzialista, apparentemente attento e rispettoso delle diversità culturali, ma nei fatti strenuo avversario della società meticcia e multietnica in nome di un modello che implicitamente si richiama all’apartheid e che propugna la logica pseudo-umanitaria dello “aiutiamoli a casa loro”[10].

Anzitutto va tenuto presente che “cultura”, dal latino colere (“coltivare”), è un concetto passibile di molteplici definizioni e talmente problematico e ambiguo da indurre affermati antropologi a diffidarne[11]. Esso, inoltre, viene talora impiegato come comodo passepartout per la comprensione di qualsiasi fenomeno: basta tirare in ballo l’Islam ed ecco spiegato, in un colpo solo, la condizione di inferiorità della donna, il velo, le mutilazioni genitali femminili, il fondamentalismo religioso, il terrorismo, il ritardo economico, la violenza nelle banlieue e ogni altro aspetto riguardante le condizioni di vita di quasi due miliardi di persone.

b) La gabbia delle culture

Se in passato era la razza a determinare inequivocabilmente non solo colore della pelle e fattezze fisiche del singolo, ma anche le sue attitudini morali, intellettuali e stili di vita, nell’era della globalizzazione la cultura sembra ereditarne sempre più il ruolo. Dimmi a che cultura appartieni e ti dirò chi sei: intesa in senso essenzialistico e statico, sorta di Idea dell’Iperuranio di Platone, la cultura rischia di divenire una gabbia per l’individuo, un’etichetta permanente e non modificabile, un dispositivo funzionale a incasellare le persone, una volta per tutte, entro un recinto fatto di stereotipi, pregiudizi, proiezioni mentali. Pensare alla cultura come a un blocco monolitico e perfettamente compiuto, significa disconoscere la storia e ignorare volutamente come ogni cultura sia sempre stata (e sarà) il frutto di contatti, scambi, incontri, scontri, influenze, imitazioni, prestiti, adattamenti, ibridazioni, innesti, resistenze, negoziazioni, innovazioni, trasformazioni. L’esatto contrario, insomma, di una concezione imperniata sulla “purezza” e “integrità”[12], in grado di suscitare e incentivare pulsioni xenofobe e mixofobiche. «La cultura che non cambia più – osserva Tzetan Todorov – è proprio una cultura morta»[13].

c) L’autenticità inautentica

E quando mai è esistita una cultura autentica? La storia si fa beffe della concezione granitica e immutabile della cultura, mostrando come molti supposti indicatori di autenticità si rivelino in realtà quale frutto del contatto tra europei e popolazioni di altri continenti. Come sarebbero andati a cavallo i pellerossa delle praterie americane senza l’arrivo degli spagnoli, che nel XVI secolo importarono quei quadrupedi nel Nuovo Mondo? E che ne sarebbe della nostra pizza, piatto italiano per eccellenza, senza i pomodori provenienti dall’America? Ignorare le vicende storiche, prescindere dal contesto, isolare l’arco temporale privilegiato sono le operazioni necessarie per poter attribuire con disinvoltura patenti di autenticità culturale.

Un’ultima osservazione. Quando si declina al singolare una cultura già si incappa in una generalizzazione e semplificazione, essendo di per sé ogni cultura multiculturale, in quanto composta da persone differenti per genere, età, condizione sociale, idee politiche, fede religiosa ecc. Una cultura è sempre un insieme di molte culture, come un grande fiume è il risultato dell’apporto di tutti i suoi affluenti.

Mercati variopinti, vocianti e anche un poco caotici sono le culture, non certo asettici laboratori o ordinati padiglioni museali.

 

CIVILTÀ

a) Molte culture, una sola civiltà

Le culture sono molte, la civiltà una. Quella umana.

Ogni cultura è la risposta alle sfide dell’ambiente fornita da un gruppo umano in un determinato periodo storico. Come ha affermato Clifford Geertz «i problemi, essendo esistenziali, sono universali, le loro soluzioni, essendo umane, sono diverse»[14]. Assurdo, alla luce di tale assunto, stabilire graduatorie, gerarchie, percorsi evolutivi obbligati: alla sopravvivenza nel deserto del Kalahari si addice tanto la cultura tecnologica di un newyorkese quanto quella di un San per districarsi nell’ora di punta a Manhattan.

La civiltà – scrive Todorov – è un orizzonte a cui tendere, la barbarie è un precipizio da cui allontanarsi; nessuna può dirsi specifica di alcuni individui in particolare. Sono gli atti e gli atteggiamenti a denotare barbarie o civiltà, non gli individui o i popoli.[15]

Nessuna cultura, allora, può arrogarsi il primato della piena e definitiva civilizzazione o venir bollata, al contrario, come irrimediabilmente barbara, perché «tutti possono passare da una condizione all’altra. E’ una caratteristica della specie umana»[16].

b) Scontro inevitabile?

 Il termine “civiltà” evoca in molti l’idea dello scontro, associazione mentale veicolata dal titolo di un celebre libro del politologo americano Samuel Huntington uscito alla fine degli anni Novanta[17]. Huntington, nel declinare al plurale il sostantivo, individuava otto civiltà – cinese, giapponese, indù, musulmana, ortodossa, occidentale, latinoamericana, africana – i cui irriducibili e inconciliabili principi avrebbero portato, a suo dire, a un inevitabile clash, a una collisione violenta su scala mondiale. Influenzato da una filosofia della storia di stampo splengeriano, l’autore concepiva le diverse culture come organismi viventi colti nel loro arco vitale e presumeva di poterne identificare, una volta per tutte, l’immutabile essenza, in cui il fattore religioso avrebbe giocato un ruolo decisivo.

A prescindere dai criteri discutibili e non univoci – ora la religione, ora la lingua, ora la geografia, ora gli interessi geopolitici – utilizzati per identificare una civiltà e da genericità di scarso valore euristico – come si può, per fare un solo esempio, ricondurre a una supposta omogenea “civiltà africana” tutte le genti e nazioni di un intero, immenso continente? -, un simile modo di argomentare non tiene conto dell’insegnamento della storia, che ci mostra come le culture possano evolvere nel tempo e come il loro incontro, lungi dallo sfociare necessariamente nello scontro e nel conflitto, possa favorire lo scambio reciproco e lo sviluppo.

Per Todorov «non sono le identità in quanto tali a causare i conflitti, ma i conflitti a rendere le identità pericolose»[18], rovesciamento di prospettiva su cui si dovrebbe riflettere a fondo. Senza mai dimenticare che «a esistere di fatto non è la cultura, ma sono individui che producono cultura»[19] e che a scontrarsi non sono mai astratte categorie culturali ma persone concrete all’interno di esse.

 

FRONTIERA

a) Unire separando

Giochi senza frontiere era il titolo di un fortunato programma televisivo, andato in onda dal 1965 al 1999, che vedeva i rappresentanti di diverse nazioni europee sfidarsi, a ogni puntata, in una serie di prove di abilità: un format con la finalità di unire maggiormente le nazioni del continente facenti parte del primo nucleo dell’allora Comunità europea, rafforzare lo spirito europeistico e superare, appunto, frontiere e divisioni. “Frontiera” e “confine” normalmente vengono utilizzati come sinonimi, benché esista una significativa differenza tra i due termini: mentre il confine sancisce ufficialmente la linea di separazione tra due stati, la frontiera, in ambito storiografico e antropologico, assume una connotazione che rimanda all’idea di un territorio, più o meno definito, in grado di mettere in relazione due gruppi umani. Se il confine divide, la frontiera unisce nel momento stesso in cui separa.

La frontiera, termine comparso nel XVIII secolo[20], si pone come una sorta di terra di nessuno tra due aree contigue, favorendo l’incontro, il contatto, i processi di scambio tra società differenti. Un significativo esempio di questa funzione di spazio d’interazione ci viene fornito dallo storico americano Owen Lattimore, il cui studio sulla frontiera tra agricoltori cinesi e pastori mongoli ha messo in luce come, in quello specifico contesto, gli allevatori di cavalli e cammelli mongoli tendessero ad assumere modelli di vita più simili a quelli dei contadini cinesi e viceversa: la rilevanza socio-culturale della frontiera si rivelava nettamente superiore a quella del confine ufficiale[21]. La frontiera, quindi, come fattore di ibridazione, sincretismo, meticciamento, pur in presenza di possibili squilibri di potere.

b) Dinamismo di frontiera

A differenza della fissità del confine, la frontiera si contraddistingue altresì per l’intrinseco dinamismo: le sue linee possono avanzare sia in senso geografico, basti pensare alla Conquista del West suffragata dall’ideologia americana del “destino manifesto”[22], sia in senso ideale, come nel caso della “nuova frontiera” kennediana, tesa al perseguimento di nobili obiettivi politici, o delle nuove frontiere della scienza e della ricerca.

Frontiere naturali? Lo studioso di geopolitica Manlio Graziano smentisce questa supposizione, osservando come questo concetto non corrisponda mai a un dato oggettivo e incontrovertibile, essendo piuttosto il riflesso di ben determinate ideologie, mire politiche, vicissitudini della storia[23]. «Ristabilire la visibilità delle frontiere – ha scritto il geografo e saggista francese Michel Foucher – placa l’ansia culturale, a volte immaginaria, di fronte ai rumori e ai furori del mondo»[24], ansia di cui può essere un chiaro segno rivelatore la realizzazione in Europa di 172 km di nuovi confini ufficiali per ogni chilometro di Muro di Berlino abbattuto. Configuratisi storicamente come un’imposizione dei vincitori sui vinti, i confini politici rivelano, come sottolinea Anna Rita Calabrò, un carattere effimero a dispetto dei loro netti tracciamenti, essendo sempre stati soggetti a cambiamenti, ridefinizioni, cancellazioni[25].

Quanto al loro attraversamento, i confini possono risultare più o meno (o per nulla) valicabili a seconda della cittadinanza toccata in sorte: il passaporto giapponese consente il libero accesso in 190 Paesi su 227, quello afghano o iracheno solo in una trentina; un norvegese può stabilirsi e lavorare senza alcun problema nei 41 paesi più ricchi del mondo, un bielorusso solo in 5 di essi[26]. Quando si dice la lotteria della nascita.

 

RELATIVISMO

a) Tutto è lecito, tutto si equivale?

Giunti a questo punto potrebbe sorgere un terribile dubbio. Dopo aver decostruito le supposte identità, radici, tradizioni, culture alla luce dell’evidenza storica e constatato l’incontrovertibile realtà di una società sempre più multietnica e meticcia, non si corre forse il rischio, in nome della tolleranza e del rispetto altrui, di accettare qualsiasi concezione e pratica di vita, abdicando ai propri principi e convinzioni?

Il relativismo, inquietante elemento della post-modernità, sembrerebbe far la sua comparsa, spianando la strada al nichilismo e all’anomìa: sulla scia di Nietzsche, cantore della morte di Dio e negatore di ogni valore meta-storico, questo fenomeno parrebbe spargere un esiziale contagio in grado di affievolire le nostre difese e di predisporci alla resa, perché se non c’è nulla in cui credere veramente allora non val la pena di combattere. Il relativismo, quindi, sarebbe il responsabile della «decadenza e dissoluzione della ragione e dei principi della legge morale naturale», secondo l’affermazione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, futuro Benedetto XVI, contenuta nella Nota dottrinale del 2002. Una visione fosca e foriera di un rozzo manicheismo – o con noi o contro di noi – frutto però di un profondo fraintendimento dello stesso concetto chiamato sul banco degli imputati.

b) Già Erodoto…

Sebbene il termine sia stato coniato nel 1906 dal sociologo americano William Graham Sumner, che lo definiva «una concezione per la quale il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa, e tutti gli altri sono classificati e valutati in rapporto a esso», cosa fosse e comportasse l’etnocentrismo era già ben chiaro a Erodoto, per il quale:

se uno facesse a tutti gli uomini una proposta invitandoli a scegliere le usanze migliori di tutte, dopo avere ben considerato ognuno sceglierebbe le proprie: a tal punto ciascuno è convinto che le sue proprie usanze sono di gran lunga le migliori di tutte.[27]

Celeberrima è l’affermazione di Montaigne, secondo il quale:

ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa.[28]

E Montesquieu, nelle Lettere persiane, non si diceva sorpreso del fatto che «i negri dipingano il diavolo di un candore abbagliante e i loro dèi neri come il carbone», per poi sottolineare che «se i triangoli si facessero un dio, gli darebbero tre lati»[29]. Da sempre, è risaputo, ogni gruppo umano ha avuto la tendenza a pensarsi come ombelico del mondo, ritenendosi l’incarnazione stessa della ragione, del giusto, del sensato, del conveniente.

c) Il relativismo ben inteso

Essere consapevoli della diversità di costumi e credenze e della superbia insita negli sprezzanti giudizi verso ciò che si discosta, poco o tanto, dai nostri parametri, non comporta di abdicare ai nostri valori basilari. Riconoscere le differenze culturali non significa, come osserva Marco Aime, accettare aprioristicamente e necessariamente qualsiasi pratica e consuetudine, né ritenere monolitiche e immutabili culture diverse dalla nostra. Secondo il sociologo Franco Cassano «chi sostiene oggi il relativismo non è un relativista assoluto né un nemico assoluto della verità», ma soltanto una persona convinta che «l’Occidente non possa pretendere per sé il monopolio della verità e il conseguente diritto alla colonizzazione del pianeta»[30]. Non una fede, né un’ideologia, il relativismo si rivela come l’abito mentale di chi «sa aderire a un’idea senza restarne succube» (Claudio Magris), di chi opera le proprie scelte e afferma le proprie opinioni senza pretenderne l’assolutezza. Alla luce di tali considerazioni e del presupposto, richiamato da Gustavo Zagrebelsky, per cui la democrazia è sempre relativistica, mai assolutistica Marco Aime afferma che:

la differenza tra universalisti e relativisti non sta nella spesso banalizzata contrapposizione tra chi ha dei valori e chi non ne ha, tra chi ha forti principi etici e chi, affermando agnosticamente che ‘tutto è relativo’, accetta le usanze ‘barbariche’ degli altri, ma tra coloro che vogliono imporre agli altri la propria forma di vita e quanti invece ritengono che il rispetto dell’altro non permetta di farlo.[31]

Una prospettiva che viene a cozzare contro ogni fondamentalismo, oscurantismo, fanatismo.

«Il fanatico – ha scritto il grande romanziere israeliano Amos Oz – in fondo è uno che sa contare solo fino a uno […] è un punto esclamativo ambulante»[32]. Impariamo a contare e a porci qualche domanda.

 


Note:

[1] Nel libro è riprodotto il frontespizio del libro e la citata ricetta (M. Bettini, Hai sbagliato foresta. Il furore dell’identità, il Mulino, Bologna 2020, pp. 24, 25). L’autore accenna alla veemente polemica, scoppiata a Bologna nel 2019, in occasione della decisione del Comitato per le celebrazioni di San Petronio di offrire tortellini con il pollo alla popolazione per non escludere dalla festa i musulmani.

[2] Il ricettario, realizzato da Ada Boni, è divenuto un manuale di riferimento per una moltitudine di famiglie italiane.

[3] Cfr. E.J. Hobsbawm, T. Ranger (a c. di), L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 2002; B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma 2009.

[4] T. di Carpegna Falconieri, Medioevo militante. La politica di oggi alle prese con barbari e crociati, Einaudi, Torino 2011. Dello stesso autore si veda anche Nel labirinto del passato. 10 modi di riscrivere la storia, Laterza, Roma-Bari 2020, pp. 143-162.

[5] La pubblicazione, nel corso dell’Ottocento, del Vestiarium Scoticum, antico manoscritto – rivelatosi poi un falso –  contenente la descrizione dei tartan dei clan delle famiglie scozzesi, avrebbe corroborato la credenza nel tradizionale capo di abbigliamento

[6] M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004, p. 136.

[7] “Non possiamo accettare tutti gli immigrati che arrivano: dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o devono essere cancellate”, dichiarazione resa nel gennaio 2018 dall’allora sindaco di Varese e attuale presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana.

[8] Sulla storia del razzismo mi limito a indicare G.L. Mosse, Il razzismo in Europa. Dalle origini all’Olocausto, Laterza, Roma-Bari 2007; F. Bethencourt, Razzismi. Dalle crociate al XX secolo, il Mulino, Bologna 2013; G.M. Fredrickson, Breve storia del razzismo, Donzelli, Roma 2005.

[9] Cfr. M. Aime, Classificare, separare, escludere. Razzismi e identità, Einaudi, Torino 2020.

[10] Per una riflessione ad ampio raggio sul razzismo cfr. P.A. Taguieff, La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull’antirazzismo, il Mulino, Bologna 1994.

[11] Nel 1952 gli antropologi americani Alfred L. Kroeber e Clyde Kluckhohn hanno raccolto oltre duecento definizioni di cultura, concetto che per James Clifford equivale a “impiccio”, “imbroglio” (cfr. U. Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Carocci, Roma 2020, p. 104).

[12] Cfr. M. Douglas, Purezza e pericolo, il Mulino, Bologna 1993.

[13] Todorov, La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2009, p. 81.

[14] C. Geertz, Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1987, p. 342.

[15] Todorov, 2009, p. 36.

[16] Todorov, 2009, p. 74.

[17] S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000.

[18] Todorov, 2009, p. 131.

[19] M. Aime, Cultura, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 18.

[20] Cfr. M. Graziano, Frontiere, il Mulino, Bologna 2017.

[21] Cfr. Fabietti, 2020, pp. 134-35.

[22] L’espressione venne coniata nel 1845 dal giornalista John L. O’Sullivan. Su questo tema cfr. A. Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Feltrinelli, Milano 2004. Per una rappresentazione allegorica del “destino manifesto” si veda il quadro di John Gast Progresso Americano (1872).

[23] M. Graziano, Geopolitica. Orientarsi nel grande disordine internazionale, il Mulino, Bologna 2019.

[24] Graziano, 2019, p. 173.

[25] A. R. Calabrò (a c. di), Disegnare, attraversare, cancellare i confini.  Una prospettiva interdisciplinare, Giappichelli, Torino 2018.

[26] Cfr. D. Kochenov, Cittadinanza, il Mulino, Bologna 2020.

[27] Erodoto, Storie, Rizzoli, Milano 1984, II, 53-54.

[28] Montaigne, Saggi, Libro I, XXXI (Adelphi, Milano1996, vol. I, p. 272)

[19] Montesquieu, Lettere persiane, Rizzoli, Milano 2000, p. 141.

[30] Cit. in M. Aime, Gli specchi di Gulliver, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 69.

[32] Aime, 2013, p. 105.

[32] A. Oz, Cari fanatici, Feltrinelli, Milano 2017, pp. 22, 36.