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Memoria e identità in Europa: questioni e problemi in Europa orientale

Spunti di riflessione dal 9° Convegno europeo sulla memoria pubblica.

Veduta di Tallinn. Foto dell’autore

Abstract

La promozione della memoria pubblica in Europa è ormai uno dei terreni più arati dalla ricerca storica e dalla pratica della cosiddetta public history. Le iniziative prese dai governi, dai centri di ricerca, dalle ONG e dalle fondazioni sono ormai innumerevoli. In questo articolo diamo conto di un convegno che si è tenuto a Tallin nell’ottobre scorso. In quella sede operatori e ricercatori per lo più provenienti dai paesi europei che si trovavano un tempo “oltre cortina” si sono interrogati sui temi dell’identità europea, del suo significato visto dallo spazio un tempo sotto l’influenza sovietica e sull’interpretazione storiografica dell’anno 1989 come anno periodizzante della storia europea e mondiale. Le considerazioni riportate cercano di fornire spunti alla riflessione dei docenti che devono insegnare questi aspetti della storia recente.

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The promotion of public memory in Europe is now one of the most ploughed grounds for historical research and the practice of so-called public history. The initiatives taken by governments, research centres, NGOs and foundations are now countless. In this article we report on a conference held in Tallinn last October. There, practitioners and researchers, mostly from European countries that were once ‘behind the curtain’, discussed the issues of European identity, its meaning as seen from the space that was once under Soviet influence, and the historiographical interpretation of the year 1989 as a periodizing year in European and world history. These considerations seek to provide food for thought for teachers who have to teach these aspects of recent history.

Alla ricerca del sentire comune europeo

Cosa significa essere europei oggi? È ancora possibile sperare in una coscienza comune europea? Ha senso porsi questa domanda in un periodo in cui molti competono per il controllo pubblico delle memorie storiche, spesso in senso neo-nazionalistico? Quale relazione c’è fra questa competizione per la memoria e l’esigenza, la speranza o il desiderio di costruire una coscienza civica europea? Può una memoria storica fondata per lo più sul ricordo delle vittime, del Nazismo, del Comunismo, del Fascismo, essere sufficiente a formare l’identità collettiva degli europei del XXI secolo?

Queste sono solo alcune delle domande poste dal nono European Remebrance Symposium, tenutosi a Tallin (Estonia) dal 26 al 28 ottobre 2021. Gli organizzatori (European Network Remembrance and Solidarity e Estonian Institute of Historical Memory[1]) hanno riunito storici e studiosi della memoria, curatori di musei e professionisti legati a centri di ricerca, fondazioni e organizzazioni no profit, tra cui Euroclio[2], per discutere essenzialmente cosa voglia dire oggi sentirsi o essere europei.

È un luogo comune affermare che, sempre che esista, il sentire comune europeo consisterebbe nella ricerca di un’unità che riconosca allo stesso tempo le differenze. L’Unione Europea include 27 stati membri, lo Spazio Economico Europeo 29, 34 con i membri candidati, e infine 47 sono gli stati del Consiglio d’Europa, compresa la Russia che, molto probabilmente, non sarà ammessa o associata in nessuna forma all’Unione Europea, almeno nell’immediato. In questi paesi si parlano decine di lingue, si praticano molte religioni e si manifestano i fenomeni culturali più svariati. Cos’hanno in comune tutti questi stati e i loro cittadini? Molto. Tuttavia, quando si tratta di definire cosa questo “molto” sia, non si sa mai esattamente cosa dire e, se si giunge a qualche affermazione significativa, non si raggiunge mai un consenso generale. Com’è noto, non c’è nemmeno un accordo su cosa si debba intendere con “Europa” dal punto di vista geografico e dunque, forse anche per questo, i tratti comuni della cultura europea non possono che essere oggetto di continuo dibattito.

 

Realizzare l’Europa unita

Eppure, qualcosa di concretamente riconoscibile, che possiamo chiamare distintamente “europeo” esiste: l’Unione Europea, l’euro, un diritto dell’Unione, una Carta dei diritti individuali condivisa, una vasta rete di organismi e di associazioni che promuovono la cooperazione dentro e fuori dall’Unione e un sistema di trattati che costringe, spesso controvoglia, i paesi che ne fanno parte a prendere decisioni comuni, non sempre efficaci, non sempre comprensibili dai cittadini, ma comuni.

All’inizio di questo secolo un giornalista olandese, interrogandosi sul recente passato dell’Europa e dunque sul suo futuro, concludeva il suo bel libro con queste parole:

La debolezza dell’Europa, le sue molte differenze interne, rappresenta anche la sua più grande forza. Il processo di pacificazione in Europa [dopo la Seconda Guerra Mondiale] è stato uno strepitoso successo e anche l’unificazione economica dell’Europa è sulla buona strada. Tuttavia, il progetto europeo fallirà sicuramente se uno spazio politico, culturale e soprattutto democratico non verrà presto creato insieme al resto. Non dobbiamo dimenticare che l’Europa ha una sola chance di realizzazione.[3]

A trent’anni dalla fine del blocco sovietico che ne è stato di quella chance? Oggi si può cominciare a rispondere in termini storici. Ne va della pace e del benessere di un continente anomalo che in parte invecchia spaventato dal futuro e si rinchiude in sé stesso e in parte non vuole sottrarsi al vortice della storia globale nel quale è stato coinvolto così intensamente soprattutto nell’ultimo secolo.

 

La cortina di ferro

Il primo dato che è emerso durante il convegno è che le linee di frattura disegnate dalla guerra fredda sono in qualche modo ancora presenti, pienamente visibili soprattutto dalla prospettiva dell’Europa orientale. Da quelle parti, infatti, ci si chiede come mai l’Europa occidentale stenti a riconoscerne le peculiarità. Sembra quasi che la fine del blocco sovietico, dal punto di vista occidentale, sia stata interpretata come un’assimilazione dell’Est da parte dell’Ovest, non una riunificazione del continente. Insomma, negli ex-paesi europei satelliti dell’Unione Sovietica l’opinione pubblica si sente incompresa, come se tra il 1945 e il 1991 non fosse successo niente, o come se il fallimento degli stati europei nati fra le due guerre non fosse anche un problema generale europeo invece che un problema di semplice storia locale.

Oggi, dunque, la frattura tra le due Europe non è più causata dalla cortina di ferro, ma dalla cortina della memoria. Nei paesi fondatori dell’Unione Europea si fatica ad ammettere la natura “coloniale” del controllo sovietico sull’Europa centrale e orientale. D’altra parte, invece, la storia pubblica fatica a studiare la partecipazione attiva allo sviluppo mondiale delle società dell’est, preferendo concentrarsi sul racconto delle persecuzioni e sul paradigma del vittimismo storico.

 

La storia pubblica nell’Europa post-sovietica

Proprio per superare queste fratture, interne ed esterne alla coscienza storica dell’Europa post-sovietica, la ricerca di un’identità europea (per multi-stratificata che sia), di una coscienza comune europea, di un atteggiamento comune o condiviso sulla memoria pubblica del Novecento è sembrata a tutti i partecipanti una necessità. Per ovvie ragioni, inerenti alla natura stessa del tema, nessuno dei partecipanti ha sostenuto posizioni neo-nazionaliste o anti-europee di principio, anche se non sono mancati, come era giusto che fosse, osservazioni e spunti di riflessione, anche critici, sull’Europa di oggi, su cosa avrebbe potuto essere ieri e cosa potrebbe essere nel futuro. Innanzitutto, è stato ribadito che bisogna aprire o riaprire il dialogo fra la ricerca storica e gli enti e le istituzioni che agiscono nel teatro della storia pubblica, che organizzano e promuovono la memoria collettiva. Il caso specifico sembra particolarmente importante perché, quanto più la storiografia si fa complessa e articolata, tanto più la tendenza di alcuni governi e istituzioni europee orientali sembra essere quella della semplificazione.

Ecco perché appare un compito ineludibile della storia pubblica parlare della memoria di cose complicate con un linguaggio semplice. Un compito per il quale bisogna trovare codici, narrazioni, tecniche e fondi. Non solo questo aiuterebbe la formazione di una coscienza critica in generale, ma anche, in ultima analisi, la formazione di una coscienza collettiva europea, che o è critica o non è. La storia dell’Europa orientale tra 1945 e 1991 non può essere raccontata come una malattia passeggera, terminata la quale tutto è tornato come prima, dove quel “prima”, senza l’Armata Rossa, avrebbe portato ad uno sviluppo convergente del tutto assimilabile a quello dei paesi dell’Europa occidentale.

 

Il bisogno di complessità

Questa lettura della storia del Novecento naturalmente non regge alla prova dei fatti. L’opinione pubblica e la memoria collettiva dell’Europa orientale, come abbiamo notato più volte durante il convegno, tendono a identificarsi con la memoria delle vittime del totalitarismo (Nazismo e Comunismo sovietico, comprese le loro variazioni nazionali), ma certo vi sono stati strati più o meno ampi di quelle popolazioni che hanno cooperato o con l’uno o con l’altro degli occupanti, un fatto che le memorie pubbliche negano o sminuiscono, talvolta anche per mezzo di leggi apposite.[4] Certo senza l’Armata rossa i regimi “popolari” non sarebbero nati, ma la loro storia deve essere compresa anche attraverso i fattori interni che ne hanno diretto le singole e particolari conformazioni sociali. Senza il crollo del muro di Berlino il collasso del sistema sovietico non sarebbe avvenuto così rapidamente, ma i processi che si sono sviluppati prima e dopo gli eventi del 1989 hanno una storia di lungo e medio termine che va indagata. Uno degli obiettivi culturali che la divulgazione storica dovrebbe porsi negli ex paesi della cortina di ferro è proprio quello di studiare e approfondire con serietà la storia e la memoria pubblica più recente, superando la dicotomia vittime=noi, perpetratori=gli altri (i Russi/Comunisti), non dipingendo a tutto tondo un periodo di oppressione e di colonizzazione, verso cui le società civili di quei paesi non hanno mai smesso di opporre resistenza morale, politica e talvolta anche militare o insurrezionale, ma anche cercando ci capire le ragioni di chi con quel regime ha cooperato, più o meno volontariamente.

 

Reciproca comprensione e multiprospettività

Le istituzioni dell’Unione Europea fanno lo sforzo politico necessario alla reciproca comprensione delle prospettive storiografiche e memorialistiche dei paesi membri? Dal punto di vista del convegno di Tallin sembra di no. La prospettiva di chi si sente per lo più vittima è difficilmente compatibile con quella di chi, da questa parte del Muro, ha sempre creduto di “avere ragione”, di avere, in ultima analisi, “vinto”. Per superare l’impasse è stato più volte evocato il concetto di multiprospettività[5]. Occorre trovare il modo di far passare nel discorso pubblico racconti del passato accurati e plurali, veri anche se per qualche aspetto alternativi, solo così sarà possibile sperare che il dibattito sulla memoria pubblica tenda ad includere, o, almeno, a delineare in cosa consistano chiaramente le fratture che attraversano lo spazio pubblico della memoria e come possano essere ricomposte, quando possibile.

Insomma, tutti i partecipanti al convegno hanno convenuto sul fatto che le istituzioni europee dovrebbero finanziare di più la ricerca storica comune e le reti di diffusione della memoria pubblica in modo tale che buone pratiche e narrazioni, fondate scientificamente, raggiungano il grande pubblico al posto delle sciocchezze semplificatorie, che spesso vengono veicolate tramite i social media. Da questo punto di vista la multiprospettività e il metodo comparativo tipico della ricerca storiografica dovrebbero diventare sempre di più parti del discorso pubblico.

Ciò può forse avvenire oggi meglio di ieri anche grazie alle TIC (Tecnologie per l’informazione e la comunicazione). Le tecnologie più aggiornate possono servire sia come canali di diffusione dell’informazione qualificata, sia come mezzi al servizio della ricerca, la raccolta e la catalogazione della memoria e della domanda di storia delle comunità. Vanno però usate con saggezza poiché in esse si annidano pericoli di cui ormai tutti ci rendiamo conto. Se si cade nella trappola di una comunicazione tossica[6], il dialogo invece di ampliarsi rischia di restringersi e anche la promozione di buona storia e buona memoria pubblica finirebbe per trasmettersi all’interno di “bolle” di utenti che trovano nelle interazioni virtuali solo la conferma dei loro pregiudizi.

 

Comunità locali e minoranze nella storia nazionale ed europea

Per questo motivo le organizzazioni non governative multinazionali o transnazionali sono così importanti e andrebbero finanziate di più e meglio. Gli stati nazionali hanno certo il diritto e il dovere di promuovere le loro istituzioni specifiche in campo storico, ma l’Unione Europea, se vuole evitare la diffusione di falsità o di prospettive non inclusive, dovrebbe impegnarsi di più per una storia e una memoria pubblica europea complessiva; non certo per eliminare le prospettive nazionali, ma per comprenderle meglio nel grande quadro della storia continentale. Un atteggiamento multiprospettico consentirebbe anche di sfumare e rendere inclusive anche le storie nazionali dell’Europa orientale. Solo così, infatti, si possono raccontare anche le vicende delle minoranze, alcune delle quali, come ad esempio i russofoni dei paesi baltici, sono talvolta visti e sentiti come corpi estranei alla storia dei luoghi in cui vivono, un lascito del nemico occupante, piuttosto che come comunità appartenenti in ogni senso allo stato di cui sono cittadini.

 

Qualcuno, infatti, ha fatto notare che la storia di queste minoranze escluse si comprende solo inquadrandola nei processi più generali che hanno attraversato il secolo scorso. I russi emigrati nei paesi baltici durante il periodo sovietico, ad esempio, erano spesso operai della grande fabbrica taylorista, minatori, lavoratori delle grandi fattorie collettive, insomma facevano parte di un mondo che non esiste più, almeno in Europa. Doppiamente sradicati, vittime della trasformazione del sistema produttivo e cittadini di paesi in cui la loro lingua e cultura è diventata di minoranza, essi rappresentano quei “perdenti” della globalizzazione che agitano in tutti i continenti i cosiddetti “populismi”. Sul versante opposto, questa situazione scatena le manifestazioni “identitarie” promosse nel conflitto sociale da rappresentanti dei gruppi appartenenti alle “maggioranze” linguistiche dei vari paesi.

 

Il 1989 come punto di svolta

Che la prospettiva multipla e transnazionale permetta di comprendere meglio la storia dell’Europa orientale e centrale, prima e subito dopo la caduta del Muro di Berlino, appare particolarmente evidente, come abbiamo già notato, dalle ultime ricerche sul 1989 come anno fatale.

Si possono prendere a paradigma due libri che, pur se molto diversi fra di loro, concordano su questo punto. Uno dei volumi si intitola significativamente “1989, l’autunno delle nazioni[7] dove la stagione indica il periodo dell’anno nel quale si è verificata la maggior parte degli eventi, ma anche il fatto che le esperienze statali dei paesi sotto l’influenza della sfera sovietica erano giunte per più di un aspetto alla fine della loro stagione vitale. Se il comunismo sovietico, con tutte le sue contraddizioni, è stato un fenomeno mondiale, secondo la periodizzazione del Novecento proposta da Hobsbawm[8], il suo collasso nell’Europa centro-orientale non può che essere letto a sua volta come un fenomeno planetario. La sua declinazione e i dettagli del suo mettersi in pratica differiscono da paese a paese, ma l’incapacità del blocco sovietico di competere a livello globale ha avuto rilevanza mondiale non solo effetti locali.

Il secondo annuncia con il suo titolo: 1989 una storia globale dell’Europa orientale,[9] l’intento che lo guida. Il comunismo sovietico crolla non solo e non tanto perché l’occidente lo fa crollare, ma piuttosto perché il processo di globalizzazione seguito alla fine dei “trenta gloriosi”, costringe le élite filo-sovietiche a promuovere riforme che alla fine hanno eroso il Muro dalle sue fondamenta. Risulta ormai chiaro che gli stessi leader comunisti dell’Europa orientale erano in larga misura convinti, come ammise il generale Jaruzelski nel 1989, che “la superiorità della civiltà occidentale era diventata ovvia per tutti”[10].

Il 1989 fu l’implosione di un mondo più che la sua conquista da parte di un altro; le trasformazioni di entrambi hanno portato ai cambiamenti di fine Novecento. La fine del blocco sovietico non fu, o non fu solo, la liberazione di molti popoli dal dominio coloniale russo, non fu semplicemente il ricongiungimento dell’Europa orientale con il resto dell’Europa, fu un fenomeno complesso e articolato dopo il quale la storia del Novecento lascia in eredità al XXI secolo vecchi miti e nuovi problemi.

 

Dal 1989 a oggi: nazionalismi e xenofobia

Oggi nei paesi dell’ex blocco sovietico spira un vento di neonazionalismo con tratti xenofobi che forse nel 1989 non era prevedibile o forse covava sotto la cenere del risentimento per il “tradimento” della Conferenza di Monaco e del patto Molotov-Ribbentrop. Forse il vittimismo della memoria pubblica, un altro fenomeno globale, che in Europa orientale tende a concentrarsi intorno alle conseguenze del 1939 e alle aspettative non realizzate dal 1989, finisce per marginalizzare, a dare per scontato il collasso del blocco sovietico come l’effetto inevitabile di una putrefazione politica piuttosto che come un processo storico dotato di attori principali e di comprimari di secondo piano. In ogni caso,

durante gli ultimi trent’anni, molti Europei dell’est non si sono conformati alla narrazione di una inevitabile convergenza che sarebbe condivisa dagli Occidentali e dalle loro élite liberali… La narrativa liberale non è mai stata interamente pervasiva all’Est, Trent’anni dopo è diventata marginale[11].

I modi e i tempi della trasformazione iniziata nel 1989 forse possono farci comprendere qualcosa di questa marginalità.

 

Conclusioni

Quel che è certo, e che è emerso dai lavori presentati nel convegno, è la visione secondo la quale la caduta del Muro e la fine del blocco sovietico, anche se possono essere studiate attraverso le singole prospettive nazionali, sono veramente comprensibili solo nel contesto del Secondo Novecento globale.

Una riflessione di questo tipo nasce anche dal confronto con altri filoni storiografici. Se esiste una narrazione “colonialista” della storia dell’Europa orientale, con l’URSS nel ruolo della potenza colonizzatrice, lo si deve anche all’influenza degli studi post-coloniali che ormai da tempo ci hanno insegnato nuovi modi di leggere la storia dell’espansione europea negli altri continenti. Ma se la storia europea e lo sforzo di derivarne una coscienza comune vuole essere veramente inclusivo, qualcuno ha notato che occorrerebbe in qualche modo includere nella ricerca anche paesi come la Turchia e la Russia, che certamente non esauriscono la loro azione nello spazio storico e geo-politico europeo, ma che vi interagiscono da secoli e in modo particolare nel XX secolo.[12] Del resto la “questione orientale” è sicuramente uno dei modi con cui affrontare la storia dell’intera Europa, oggi come ieri. Per quello che abbiamo potuto comprendere però, i paesi dell’Europa orientale stanno cercando di capire prima la loro storia per riuscire a confrontarsi con quella dei loro ingombranti vicini.

 

Bibliografia (tutti i testi citati sono in inglese tradotti da chi scrive)
  • A. Burakowski, A. Gubrynowicz, P. Ukielski (eds.), 1989 The Autumn of Nations Poland and Central Europe in the 20th Century, Natolin European Centre, Warsaw 2020.
  • D. Diner, Raccontare il Novecento Una storia politica,, Garzanti, Milano 2001.
  • G. Mak, In Europe, Travels through the Twentieth Century, Harvill Secker, Kindle edition, London 2004.
  • J. Mark, C. B. Iacob, T. Rupprecht, L. Spaskova, A Global History of Eastern Europe, Cambridge University Press, 2019.

 

Sitografia

 


Note:

[1] Per avere un’idea sugli enti organizzatori del convegno consultare: https://enrs.eu/ e https://mnemosyne.ee/en/

[2] Le nuove e interessanti opportunità didattiche offerte da Euroclio in remoto possono essere raggiunte a partire dal sito: https://www.euroclio.eu/

[3] G. Mak, In Europe, Travels through the Twentieth Century, Harvill Secker, Kindle edition, London 2004.

[4] Si veda ad esempio una discussione tecnica sulla legge polacca di riforma dell’Istituto della memoria nazionale: https://www.diritticomparati.it/la-controversia-sui-campi-di-sterminio-polacchi-e-la-legge-del-primo-febbraio-2018-fra-costruzione-della-verita-e-protezione-della-reputazione-della-repubblica-di-polonia/

[5] Si veda l’introduzione al concetto di Robert Strandling: https://rm.coe.int/0900001680493c9e, ma anche le ricerche sempre più approfondite di Bjorn Wansink https://www.uu.nl/staff/BGJWansink/Profile

[6] La comunicazione tossica può essere intesa come quell’insieme di casi in cui il messaggio, la sua organizzazione, la sua viralizzazione e le dinamiche di gruppo nei social network, determinano da un lato una falsa percezione del consenso, e dall’altro tendono a una vera e propria manipolazione, della realtà e delle persone.

[7] A. Burakowski, A. Gubrynowicz, P. Ukielski (eds.), 1989 The Autumn of Nations Poland and Central Europe in the 20th Century, Natolin European Centre, Warsaw 2020.

[8] E. Hobsbawm, Il secolo breve: 1914-1991, Rizzoli, Milano 1995.

[9] J. Mark, C. B. Iacob, T. Rupprecht, L. Spaskova, A Global History of Eastern Europe, Cambridge University Press, 2019

[10] Mark, Jacob, Rupprecht, Spaskova, 2019, p. 10.

[11] Mark, Jacob, Rupprecht, Spaskova, 2019, p. 309.

[12] Una prospettiva interessante in questo senso mi pare quella del libro di D. Diner, 2001.