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Se solo il mio cuore fosse pietra

Se solo il mio cuore fosse pietra

La copertina del volume

Titti Marrone
Se solo il mio cuore fosse pietra
Feltrinelli, Milano 2022, 24 pp.

Il titolo è una citazione da La strada, romanzo post apocalittico dello scrittore statunitense Cormac McCarthy pubblicato nel 2006. L’autrice riprende il filone saggistico-narrativo iniziato nel 2003 con Meglio non sapere e continuato nel 2018 con Noi bambine ad Auschwitz, attraverso il quale le vicende delle sorelle Tatiana e Andrea Bucci – e anche quelle dello sfortunato cuginetto Sergio de Simone – sono state raccontate ai lettori.

Alice Goldberg

L’autrice rievoca le vicende dei 25 bambini tra i 4 e i 15 anni accolti e accuditi grazie all’iniziativa e alla determinazione di Anna Freud – figlia di Sigmund – e di Alice Goldberg a Lingfield, nel la villa di campagna del filantropo Benjamin Drage che nel 1945 diventa una residenza per i piccoli reduci dai campi di sterminio. Grazie anche all’aiuto della comunità ebraica londinese e ai finanziamenti del Foster Parent’s Plan for War Children di New York, quello di Lingfield diventa subito una casa per orfani modello.

Nel ricostruire la storia diversa, terribile e speciale di ciascun bambino, l’autrice si è avvalsa in particolare di tre risorse: il saggio di Sarah Moskovitz Love despite Hate,[1] che costituisce una accurata raccolta delle testimonianze, rese da adulti, di 24 dei bambini di Lingfield; vari materiali contenuti in archivi on line, in primis quelli della United States Holocaust Memorial Museum di Washington, fra cui anche gli Alice Goldberg Papers; le Opere di Anna Freud riguardanti l’esperienza di Lingfield e il problema delle adozioni.

Nel romanzo il narratore è esterno, la focalizzazione interna su Alice Goldberger, direttrice di Lingfield che accoglie e riporta alla vita i 25 bambini. La vita di Alice è solo tratteggiata di scorcio nel corso della narrazione, attraverso qualche breve flashback: nel 1936 inizia a lavorare a Berlino come direttrice del centro per bambini svantaggiati fondato da Anna Freud e continua «fino a quando non erano stati più concessi fondi per far funzionare l’istituto e non ne era stata decisa la chiusura»;[2] nel 1939, dovendo abbandonare il suo paese, va in Inghilterra dove però viene chiusa in un campo di prigionia sull’isola di Man poiché tedesca, quindi straniera potenzialmente nemica degli Inglesi. Anche lì non resta comunque inattiva, aprendo una scuola. Nel 1942, rilasciata per intercessione di Anna Freud, si traferisce a Londra, dove con la stessa Anna fonda la Hamstead War Nurserires e poi, a Windermere, il primo centro ebraico inglese di accoglienza per piccoli sopravvissuti alla Shoah.

Il romanzo

La narrazione si snoda prevalentemente secondo l’intreccio: benché infatti il racconto inizi con l’arrivo dei primi bambini e si concluda con la loro vita da adulti, i flashback sono piuttosto frequenti. Il romanzo si apre con un’atmosfera onirica, nella quale viene ricostruito l’arrivo dei primi ospiti a Lingfield.

Questi bambini, provenienti tutti da Terezin, vengono chiamati a Lingfield «i bambini del cucchiaio», perché arrivati con un cucchiaio di latta nascosto sotto i vestiti: «a Terezin il cucchiaio era stato per tutti l’unico oggetto posseduto, quello che faceva la differenza tra mangiare o digiunare, tra sopravvivere oppure morire di fame».[3] Il loro difficile rapporto con il cibo si manifesta anche nella paura che sia avvelenato o nella tendenza all’accumulo, dettata dalla inopia passata: «all’inizio i bambini non facevano che afferrare il pane, lo accumulavano, nascondevano, bisticciando tra loro anche se a tavola ce ne era in abbondanza».[4]

Insieme ai bambini del cucchiaio giungono anche 4 bambini di 5 anni, tutti provenienti da un loro personale inferno: chi dai lager, chi da orfanotrofi, chi da conventi o da nascondigli dove i genitori li hanno lasciati durante la guerra, nell’estremo tentativo di salvar loro la vita.

L’ultimo gruppo di bambini arriva a Lingfield nell’aprile del 1946. Sono 12 e «hanno provenienze e storie molto diverse»: 5 vengono da Auschwitz, gli altri «erano stati nascosti dai genitori in casa di conoscenti o affidati a estranei pagati per tenerli con sé», tutti «sono stati per più di un anno in un orfanotrofio della Croce Rossa di Praga».[5]

Con il loro arrivo «la grande casa ormai era al completo con i suoi 25 bambini e quasi altrettanti adulti, ospiti fissi o impegnati part-time tra psicoanaliste, assistenti, insegnanti, infermieri, giardinieri e inservienti vari».[6]

Sin dal momento in cui scendono dal furgone, i bambini mostrano di essere fortemente traumatizzati: urlano, scappano dagli adulti e si tengono stretti l’un altro. I loro traumi emergono anche nella incapacità di giocare (all’inizio ignorano cosa siano i giocattoli) o nel simulare, per gioco, la vita nel lager, i cui ricordi emergono all’improvviso nella tranquilla vita nel cottage.

Alice e la sua équipe, sotto la supervisione di Anna Freud, lottano per restituire loro l’infanzia, dando vita per oltre un decennio a un centro dove le più recenti acquisizioni della psicologia infantile, della pedagogia, della psicoanalisi vengono messe al servizio delle necessità dei piccoli ospiti. Alice regista tutti i piccoli progressi dei bambini e, solo quando capisce che si è guadagnata la loro fiducia, inizia con loro la cura psicoterapica vera e propria, principalmente cercando di far recuperare, anche attraverso i disegni e l’interpretazione dei sogni, frammenti del loro passato, per poter progressivamente sciogliere i nodi più stretti e avviarli verso una nuova vita. Il percorso non è lineare, «a volte senza un apparente ragione per molti di loro tornavano le giornate nere».[7] La psicoterapeuta si mostra molto attenta verso i bisogni più intimi e inespressi dei bambini, ad esempio il trauma di avere il numero tatuato sul braccio, che risolve sottoponendo a una chirurgia estetica Esther e Shana, quello di Sylvia di aver i denti marci, che scompare finanziando le spese per il dentista, quello della zoppia di Fritz, causata dalla poliomielite, che viene assai ridotta attraverso operazioni chirurgiche e fisioterapia tanto da renderlo un adulto capace di giocare a tennis.La narrazione sa cogliere le peculiarità e il carattere in continua evoluzione dei bambini che segue fino ai primi passi nella società o in una famiglia adottiva o di ricongiungimento con i genitori (in questo aiutati dalla Croce Rossa internazionale).

Il tema, delicatissimo, delle adozioni costituisce la seconda parte del libro. Non tutte vanno a buon fine (ci si sofferma sulle vicende di Mirjam e di Denny), o almeno non subito, talvolta per problemi burocratici, come nel caso di Samuel, o di intromissioni del comitato ebraico, come nel caso di Zdenka. Altre, invece, vanno a buon fine, come quella di Gadi e quella di Leah.

Dopo aver seguito la vita da adolescenti e adulti degli ex bambini di Lingfield (l’ultimo capitolo si intitola, infatti, «da grandi») il romanzo si avvia alla conclusione attraverso la ricostruzione dello spostamento nel 1948 da Lingfield a un’area periferica di Londra, dove vanno a vivere anche i ragazzi che non avevano ottenuto adozione. Il gruppo dei ragazzi al completo si ritroverà con Alice in un programma televisivo americano: This is Your Life. Non l’hanno mai dimenticata e la vedono come una sorta di zia.

Il romanzo si chiude con un’Alice ormai 67 anni, sofferente di artrite, che va a trovare in Israele Magda, Hedi, Ervin Julius e Fritz, il quale, divenuto fisioterapista, «le pratica un massaggio sulla schiena più accurato, delicato e ritemprante che si potesse desiderare. Fu una piccola restituzione, tenue e leggera come una carezza di ringraziamento.»[8]

Fonti e pedagogia

L’autrice ha scavato nella Storia, ha aperto gli archivi, incrociato documenti, foto, diari e lettere per trasporre in un romanzo la coraggiosa e commovente esperienza di Lingfield che non racconta come una favola, ma con seria coerenza con la realtà.

La scrittura è scorrevole e la storia delicata ed avvincente, molto adatta alla lettura nella scuola secondaria di primo e secondo grado.

La moderna pedagogia e l’esperienza didattica internazionale hanno, infatti, individuato, per ragazzi delle scuole secondarie di primo grado, modalità di approccio graduali e non traumatiche, che privilegino vicende in cui i protagonisti si salvano, testimoniando valori positivi di speranza e fiducia negli altri e nella vita; per gli alunni della scuola secondaria di secondo grado, un insegnamento “a spirale”, in cui i temi non si esauriscano, ma ritornino, affrontati con diversi tagli e approfondimenti a seconda delle circostanze e delle motivazioni, così da evitare il rischio della ripetitività e della stanchezza, stimolando nuove curiosità e campi d’indagine.[9]

Particolarmente interessante è il fatto che l’autrice, come pochi fanno, si soffermi sul “dopo Shoah”, sul ritorno alla vita, proprio come consiglia anche la pedagogia dello Yad Vashem.[10] Le guide lines di questa istituzione sottolineano, infatti, come la storia della Shoah sia spesso ridotta al durante, quasi dimenticando che è esistito un prima, ma anche un dopo.

Un altro fondamentale principio didattico sta nella centralità dell’uomo nella narrazione storica. La storia della Shoah è una storia umana, fatta da individui, e ogni vittima va sottratta all’anonimato dei grandi numeri,[11] cosa che Titti Marrone fa sapientemente, disegnando a tutto tondo le figure dei bambini di Lingfield e accompagnandoli fino all’età adulta.

 


Note:

[1] S. Moskovitz, Love despite Hate. Chil Survivors of the Holocaust and Their Adult Life, New York, Schocken Books, 1983

[2] T. Marrone, Se solo il mio cuore fosse pietra, Feltrinelli, Milano 2022, p. 81

[3] Marrone, 2022, p. 47

[4] Marrone, 2022, p. 65

[5] Marrone, 2022, p. 80

[6] Marrone, 2022, p. 116

[7] Marrone, 2022, p. 160

[8] Marrone, 2022, p. 231

[9] https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/Linee+guida+nazionali+per+una+didattica+della+Shoah+a+scuola.pdf/98d90ec7-0e36-40cf-ba67-4d79836186a8?version=1.0&t=1531153062490 consultato il 15 gennaio 2023

[10] https://www.yadvashem.org/education/other-languages/italian/approach.html consultato il 16 marzo 2022

[11] Nadia Olivieri, Chiara Nencioni e Elena Mastretta, Formarsi sulla didattica della Shoah: un ventaglio di esperienze, Novecento.org, n.. 13, febbraio 2020. DOI: 10.12977/nov311.