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Nazionalismi, memorie, usi politici della storia. Intervista a Guido Crainz

Nazionalismi, memorie, usi politici della storia. Intervista a Guido Crainz

Guido Crainz.
Fotografia a schermo fatta dall’autrice.

Abstract

Quale Europa studiamo? Di quale Europa siamo parte? Lungo il corso del tempo l’idea d’Europa ha assunto particolari fisionomie. La complessità dei diversi punti di vista, che hanno contribuito a formarla, rivela ingenuità, errori, disattenzioni, ma anche usi distorti della storia e delle memorie a ricomporre un’immagine dissonante e in crisi del Vecchio Continente. Un’idea rinnovata della storia d’Europa è quella che indica Guido Crainz, come storico e come docente di Storia contemporanea; le sue analisi richiamano la cultura all’impegno e al senso di responsabilità che anche scuola e università non possono ignorare. Da qui prende le mosse la nostra conversazione con lui, a partire dal suo recente volume Ombre d’Europa. Nazionalismi, memorie, usi politici della storia (Donzelli, Roma 2022), e per questo lo ringraziamo molto.

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Which Europe do we study? Which Europe are we part of? Over the course of time, the idea of Europe has taken on particular physiognomies. The complexity of the different points of view, which have contributed to forming it, reveals naivety, mistakes, carelessness, but also distorted uses of history and memories to recompose a dissonant and crisis-ridden image of the Old Continent. A renewed idea of the history of Europe is what Guido Crainz indicates, as a historian and as a lecturer in contemporary history; his analyses call culture to commitment and a sense of responsibility that even schools and universities cannot ignore. This is the starting point for our conversation with him, beginning with his recent volume Ombre d’Europa. Nazionalismi, memorie, usi politici della storia (Donzelli, Rome 2022), and for this we thank him very much.

Partiamo dalla fine della sua analisi, che però si capisce essere per lei il cuore della questione europea, un invito e allo stesso tempo una preoccupazione: la formazione delle giovani generazioni. Siamo ad un punto in cui i nodi critici sembrano essersi accumulati fino a far esplodere un “senso tragico” della storia nel Vecchio Continente, proiettando un lungo cono d’ombra sul presente che allarma e preoccupa: eppure l’Europa alcune soluzioni le potrebbe trovare se solo guardasse di più al piano culturale, incentivando la creazione di un senso comune finora trascurato, a vantaggio di ottiche eminentemente economiche e giuridiche? Ripensare l’Europa è, dunque, assumere una nuova prospettiva (culturale)? La formazione delle nuove generazioni dovrebbe ripartire da qui e con rinnovata centralità?

Insegnare in Europa è il titolo dell’ultimo paragrafo del libro ed è la conclusione di un filo che scorre attraverso tutte le pagine. Un filo rafforzato dall’analisi delle politiche dei partiti nazionalisti, o sovranisti, che hanno ben presente una massima di Orwell: «chi controlla il passato controlla il futuro, e chi controlla il presente controlla il passato».[1] Con l’invasione dell’Ucraina molti hanno scoperto l’uso distorto della storia da parte di Putin, ma era l’approdo di un percorso iniziato più di vent’anni fa. Un percorso che ha avuto nell’insegnamento della storia un terreno privilegiato, e Putin non si è limitato a “dettare” i contenuti dei manuali: è andato sin ai convegni degli insegnanti a “spiegare” quale storia dovevano raccontare per far crescere l’orgoglio patriottico dei ragazzi, e ha inaugurato questo anno scolastico andando di persona in una scuola elementare di Kaliningrad (la vecchia Königsberg di Kant, oggi exclave russa fra Polonia e Lituania) per tenere di persona la prima di quelle lezioni settimanali “sulle cose importanti” che ha introdotto per legge. È suicida non considerare la centralità di questo terreno.

Certo la storia è al centro di questioni non neutre; il suo utilizzo strumentale sembra riaffiorare in più luoghi, false narrazioni e ritorno a falsi miti sembrano sconfinare verso pericolose derive, come lei osserva a proposito di Putin. È forse allora lo studio della storia in una prospettiva critica e transnazionale ad assumere un valore non eludibile? La resistenza di docenti che non si allineano al racconto ufficiale di Stato o la riscrittura dei manuali scolastici quale importanza ricoprono per lei? Anche da noi questo meriterebbe più adeguate riflessioni?

Si leggono anche con emozione i saggi basati sul lavoro “in controtendenza” svolto nell’area balcanica, in condizioni difficilissime, dal Centre for Democracy and Reconciliation in Southeast Europe, e da molti altri centri culturali in differenti paesi, ed è meritorio da molti decenni il lavoro dell’Istituto Eckert (che è stato presente anche nell’area della ex Jugoslavia) e di altri ancora. E il recente manuale tedesco-polacco[2] è un segnale importantissimo per il solo fatto di esser stato realizzato, ove si pensi alle ferite che hanno lacerato quell’area. Abbiamo dato e diamo il sostegno necessario a chi si è impegnato e si impegna su questo terreno?  Mi sembra difficile sostenerlo.

Le sue pagine mostrano come il mancato sostegno a cultura e formazione in chiave europea abbia in realtà comportato gravi conseguenze in termini di disgregazione e reciproca tensione tra gli stati: può questo spiegare il rifiorire di nazionalismi, sovranismi, scontri e contese? L’UE è in grado di riempire un “vuoto” istituzionale in questo senso?

Lo deve essere, e il problema non riguarda solo i paesi ex comunisti. Un segnale d’allarme era venuto già dai referendum del 2005 che hanno bocciato la Costituzione europea in Francia e in Olanda, ed è iniziata da allora una maggiore attenzione dell’Unione Europea a questi temi (e un maggiore “investimento” in questa direzione, anche finanziario). Lo segnala un interessante documento[3] di qualche anno fa di un dirigente degli uffici culturali di Bruxelles, Markus J. Prutsch: nasce in quello scenario e in risposta ad esso, ha annotato, The Europe for Citizens Programme,[4] che comprende anche il progetto Active European Remembrance.[5]

La memoria o meglio le memorie europee se comparate tra loro rivelano una complessità che difficilmente la politica ha saputo interpretare, non trova? Lavorare sul comune terreno delle memorie (rigorosamente al plurale), nel rispetto delle diversità, quale importanza ha a suo parere? La scuola in questo può avere un ruolo e una responsabilità?

È necessario lavorare in primo luogo sul terreno della storia, anche per ridurre il peso di memorie inevitabilmente soggettive (e quindi “di parte”), e il rapporto fra Polonia e Germania, ad esempio, ce ne dice la necessità. In quel rapporto non pesa solo la guerra di sterminio condotta dal nazismo a est, ma anche – e sia pure in modo diverso – uno degli elementi più rimossi della storia europea, l’espulsione di milioni di tedeschi all’indomani della Seconda Guerra mondiale da paesi in cui avevano vissuto per secoli: 8 milioni dalla Polonia, appunto, e poi dalla Cecoslovacchia (3 milioni, in primo luogo dai Sudeti), dall’Ungheria, dalla stessa Jugoslavia, che al tempo stesso costringeva all’esodo gli italiani dell’Istria, di Fiume e la Dalmazia. È cambiata allora la fisionomia di intere parti dell’Europa centrale (è un tema su cui ho insistito sempre molto, proprio a partire da quel che ho scritto sull’Istria,[6] ed è venuto poi un libro eccellente di Antonio Ferrara e Niccolò Pianciola)[7] ma in alcuni manuali non ne troviamo ancora grandi tracce.

Possiamo però pensare altrettanto cruciale far conoscere la cultura europea sin dai banchi di scuola con un respiro ampio e profondo? In Ombre d’Europa il suo riferimento agli anni Trenta, proprio al periodo più buio d’Europa a causa di totalitarismi e autarchie, da una parte meraviglia per la lungimiranza dello scrittore austriaco da lei citato e dall’altra suggerisce l’importanza di alcuni riferimenti troppo spesso ignorati in sede didattica. Il suo richiamarsi a Stefan Zweig e alle sue parole del 1932 è forse un volersi richiamare anche ad altri esempi e altre parole? Si tratta di una punta di un iceberg di un europeismo antifascista degli anni Trenta e Quaranta, fondamentale per capire gli sviluppi successivi?

Mi hanno colpito davvero molto le conferenze su questo tema tenute negli anni Trenta da Stefan Zweig (ora raccolte con il titolo Appello agli europei),[8] sempre più angosciato da quel declino del “mondo di ieri” di cui intuiva il tragico epilogo. Non sperava in una inversione di tendenza a breve termine, pensava a preparare il futuro. Pensava a una «disintossicazione morale dell’Europa come cura a lungo termine» capace di prender avvio dall’istruzione (l’Europa non è un «sentimento primario», sottolineava, è «il frutto lentamente maturato di un pensiero elevato») e basata anche su «una nuova visione della storia». Zweig notava come in ogni paese la storia fosse insegnata in modo “nazionalistico”, dove la colpa è sempre del “nemico”: e questo è inevitabile se la storia che si studia è quella politica e militare; è evitabile invece se si insegna la storia della civiltà, frutto degli apporti dei differenti popoli. E ipotizzava anche, negli anni Trenta, una sorta di gigantesco “Erasmus” che non coinvolgesse solo gli universitari ma anche – in altre forme – studenti più giovani. Vi è poi, naturalmente, il Manifesto di Ventotene, che ha in primo luogo un valore morale – per le condizioni in cui fu pensato e scritto, per il modo in cui poi fu diffuso, e così via – ma che reca inevitabilmente il segno del tempo, e non dovremmo nascondercelo. Non mancano altre altissime testimonianze: nel 1943-‘44 all’Università di Milano Federico Chabod dedica il proprio corso proprio alla Storia dell’idea d’Europa (e riprenderà quel tema in corsi successivi, e poi in un grande libro).[9] E l’anno accademico successivo nella Parigi appena liberata è un altro grandissimo storico, Lucien Febvre, a dedicare il proprio corso all’Europa:[10] vi vedeva una tappa «nell’immensa, interminabile via delle speranze e delle disperazioni umane». E concludeva: «mi chiedo, nell’angoscia comune se questa tappa sarà segnata, domani. Segnata o bruciata». È anche la domanda dell’oggi.

Il suo saggio però aggiunge un ulteriore segno di complessità alla questione, come se alcune contraddizioni non potessero essere più sottovalutate. Il secondo dopoguerra da una parte raccoglie una simile eredità, costruendo un comune sentire e agire, che vede ad esempio nel Manifesto di Ventotene da lei richiamato e in alcune figure intellettuali del periodo tra le due guerre i tasselli di un’unità europea che, anche se faticosamente, si è in qualche modo realizzata nella parte occidentale; dall’altra però nello stesso momento si accetta la costruzione di una divisione interna, netta e terribile, concretizzata poi dal Muro di Berlino e dalla cortina di ferro che lacera l’Europa in profondità. Quanto, a suo parere, è urgente arrivare a studiare (ripensare) la storia europea in questa chiave? Promuovere cioè uno sguardo complesso sulle questioni?

La Cortina di ferro pesa, fortissimamente. «Avete vissuto per decenni con le spalle rivolte al Muro di Berlino», diceva negli anni Ottanta l’ungherese György Konrád a Timothy Garton Ash,[11] e nello stesso periodo Milan Kundera annotava: «la cortina dell’incomprensione occidentale si è sovrapposta alla cortina di ferro comunista.»[12]  In modo convergente lo storico inglese Norman Davies ha criticato «la tendenza a guardare al passato europeo esclusivamente con gli occhi dell’Occidente.»[13] Ed è difficile negarlo: da questo punto di vista il 1989 non ha segnato una radicale inversione di tendenza. Ancora all’indomani del grande allargamento a Est dell’Unione Europea Peter Schneider annotava amaramente: non viviamo affatto «un clima comparabile al grande e fecondo scambio di idee del dopoguerra democratico dell’Europa occidentale, che unì e animò intellettuali tedeschi e francesi, inglesi e italiani», per concludere «oggi sembra rimanere in piedi una sorta di Cortina di ferro senza il comunismo.»[14]

C’è da interrogarsi sugli strumenti che si hanno a disposizione. Il suo sguardo si sofferma non a caso sui manuali, che tipo di lente sono a suo parere?

Sono assolutamente rivelatori, e non solo nella Russia di Putin o nei paesi “sovranisti” e illiberali, in cui i partiti al potere fanno della “politica della storia” un asse centrale della loro politica: contrapponendo, come in Polonia, la “pedagogia dell’onore e dell’orgoglio nazionale” alla “pedagogia della vergogna” (cioè a una storia critica che riflette anche sulle responsabilità e le colpe della propria nazione). Senza dimenticare il peso della riscrittura nazionalistica del passato nelle guerre che hanno dilaniato la Jugoslavia degli anni Novanta (riscrittura il cui peso è forte ancora oggi, soprattutto in Serbia e in Croazia). O l’uso dei musei in questa stessa direzione, come è nella Ungheria di Orbán, in Polonia, nei paesi baltici e altrove. Ma non ci sono solo i paesi post-comunisti, appunto. Sono illuminanti le analisi dei manuali inglesi di una ventina d’anni fa, ancora segnati dalla curvatura antieuropea impressa dalla Thatcher: con gli occhi di oggi è facile capire che la Brexit ha trovato anche lì un terreno di coltura (o comunque non vi ha trovato quegli anticorpi che sarebbero stati necessari).

Dalla sua analisi emerge quanto sia cruciale analizzare il post 1989, abbandonando quel certo sguardo ingenuo che vede nella riunificazione della Germania un passaggio “semplice” da spiegare, per giungere ad una vera comprensione dei decenni successivi fino ai nostri giorni, delle molte tensioni e dei conflitti in atto, abbiamo inteso bene?

Io credo sia fondamentale, e mi hanno colpito anche in questo le intuizioni di intellettuali di allora. È straordinariamente profetico, ad esempio, il discorso sull’Europa tenuto nel 1990 nel senato polacco da un grande storico, e voce autorevole di Solidarność, come Bronislaw Geremek. Oggi, diceva, è giustamente diffuso un clima di euforia, ma in paesi come i nostri, che non hanno conosciuto una vera democrazia neppure prima del comunismo (con l’eccezione della Cecoslovacchia fra le due guerre) vi sono tre grandi rischi: il nazionalismo, il populismo e la tentazione di affidarsi a un uomo forte.

Nel suo libro si capisce bene proprio questo anche perché riprende più ampiamente l’analisi con cui Geremek sorregge questa straordinaria intuizione.[15]

Vi è stato poi un errore decisivo, e su questo concordano oggi studiosi molto differenti: si confuse, o si identificò, la democrazia liberale con il liberismo economico, oltretutto in anni in cui spirava forte il vento del neoliberismo. Di qui liberalizzazioni selvagge, con l’afflusso massiccio di capitali stranieri, con il diffondersi di una disoccupazione sin lì quasi sconosciuta (e una massiccia emigrazione all’estero, soprattutto di giovani) e con lo smantellamento – almeno parziale – di quel sistema di protezione sociale, pur distorto, che i precedenti regimi in qualche modo garantivano. In altri termini: se nell’Europa occidentale del dopoguerra la democrazia si è ricostituita o consolidata assieme all’affermarsi di un ampio sistema di welfare, nei paesi postcomunisti il suo affermarsi si accompagna alla drastica riduzione di esso. È facile capire perché il “sogno europeo” abbia conosciuto in quell’area un rapido declino.

A proposito di errori, la sua analisi dettagliata e profonda della storia d’Europa colpisce quando giunge all’oggettiva constatazione di un errore commesso per presunzione o ingenuità dall’Europa occidentale che davanti alla Riunificazione non si è minimamente rimessa in gioco, ma ha continuato a pensare se stessa come “Europa intera”, come modello valido e indiscutibile da estendere alla parte orientale, con l’atteggiamento spesso di chi opera un “allargamento concesso”,  piuttosto che tendere ad una piena condivisione. Si può dire che il dialogo non vi sia stato e che questa assenza abbia determinato profonde incomprensioni?

Anche su questo riflessioni acute, e inascoltate, venivano già all’indomani del 1989. Vaclav Havel, ad esempio, uno dei più decisi sostenitori del “ritorno in Europa”, annotava che le strutture allora esistenti erano strutture sostanzialmente europeo-occidentali, ed era quindi necessario «uno sforzo di entrambe le parti perché solo un’iniziativa del genere può portare all’integrazione».[16] Così non si fece: di fatto i nuovi stati membri dovettero semplicemente incorporare migliaia di pagine della legislazione europea, trasformandosi così, per dirla con Jacques Rupnik, in  “meccanismi per la fotocopiatura”. Con ricadute facilmente immaginabili ma sottovalutate, allora.

Quanto in realtà è necessario comprendere il punto di vista dell’altro? Comprendere ad esempio quello che i paesi dell’Est si sono trovati a vivere, il prezzo da loro pagato prima con la sottomissione obbligata al regime sovietico, poi con la crisi succeduta al ricongiungersi di un’Europa avvertita come schiacciante, impositiva in termini di norme e trattati?

Per certi versi, come è stato scritto, sembra quasi che le due parti d’Europa siano “eredi di due differenti Novecento”: nell’esperienza dei padri fondatori, infatti, la costruzione europea era la via per superare le tragedie dei nazionalismi, mentre i paesi comunisti usciranno poi da quarant’anni di dominazione sovietica camuffata da internazionalismo. Su questo gioca pesantemente e strumentalmente Orbán, nel suo demenziale paragonare l’homo sovieticus (il modello comunista imposto agli ungheresi e agli altri popoli dall’Urss) all’homo bruxellicus, omologato dalla globalizzazione, che l’Unione europea – in questa lettura – vorrebbe imporre. E a “due differenti Novecento” sembra alludere anche il rapporto con la Shoah e il Gulag; mi soffermo su questo in un capitolo specifico (riprendendolo poi in riferimento ai differenti paesi), perché mostra nel modo più chiaro l’importanza di comprendere anche il vissuto degli “altri”: unico modo per iniziare a superare le differenti unilateralità.

La sua lettura rintraccia proprio nelle falle di questo percorso i pericoli più gravi che si manifestano ai nostri giorni. Lei dimostra quanto sia difficile costruire una comune memoria. Viene allora da chiedersi se esiste un reale calendario civile europeo da promuovere e condividere. Potrebbe questo essere uno strumento davvero utile o rischia di semplificare, accomunare ciò che in realtà è distante e diverso?

La memoria è per sua natura soggettiva (“memoria condivisa” mi sembra una contraddizione in termini, se non un incubo orwelliano), ma è fondamentale il dialogo e il confronto fra le differenti memorie. È fondamentale, per dirla con Paul Ricoeur, «ricordare con l’aiuto delle memorie altrui», e lo storico ha il dovere di impegnarsi anche su questo terreno.  Il Calendario civile europeo che abbiamo realizzato assieme ad Angelo Bolaffi e Carmine Donzelli,[17] aveva come titolo originario Per un calendario civile europeo, voleva essere cioè solo l’inizio di un percorso. E la scelta “non scontata”, diciamo così, di molte date-simbolo voleva segnalare – in primo luogo al punto di vista occidentale – la  unilateralità dei differenti “orizzonti di memoria” e delle differenti “visioni di storia”. È il nodo cui rinviano le difficoltà del 27 gennaio ad affermarsi come data della memoria anche nell’Europa ex-comunista, così come le resistenze incontrate a occidente nel comprendere nel calendario memoriale anche il gulag (difficoltà aumentate dal modo discutibile con cui talora questo tentativo è stato fatto).

L’uso politico della storia, quindi, è sempre in agguato: si ricostruiscono immagini distorte di un passato in realtà assai complesso e sfaccettato. Il raccontarsi ognuno la storia dal proprio punto di vista – per lo più nazionale o peggio nazionalista – senza contemplare gli “altri” è un pericolo evidente. Si può sperare che la storia in questi casi al servizio della politica, di una certa politica, possa trovare in realtà nella libertà di storici e insegnanti una forza inimmaginabile?

Starei per dire, con un paradosso, che… la libertà non basta, ed è un paradosso suggeritomi da alcune osservazioni dello storico polacco Marcin Kula, seriamente impegnato nel combattere la “politica della storia” nazionalistica dei governi di Diritto e Giustizia. Costretto però ad ammettere che quella “politica della storia” corrisponde in realtà a visioni largamente diffuse nel paese. E questo rinvia a un altro nodo: dopo il 1989 nei paesi ex comunisti riemerge largamente una lettura nazionalistica (e vittimistica) del proprio passato che quei regimi avevano “proibito per legge”, ma non avevano potuto cancellare. Lettura che proprio da quei divieti aveva acquistato ulteriore e indebita credibilità. Naturalmente le realtà sono diverse nei differenti paesi ma di questo nodo è necessario tener conto.

Ripartire dagli errori commessi e insieme comprendere le diversità non è facile, davanti a semplificazioni, comunicazioni stereotipate, assenza di ascolto e di reciprocità, ma questa sembra la chiave da lei suggerita. Gli storici possono in questo ricoprire un ruolo determinante?

Io credo che sia la loro principale ragion d’essere.

Eppure la guerra in atto sembra il portato di tanti problemi irrisolti, non visti, sottovalutati di una storia europea che ci si era illusi che con il 1989 trovasse pieno e pacifico compimento. Anche gli storici hanno peccato in ingenuità sulla spinta dell’entusiasmo?

Mi sembra che sullo sfondo vi siano due questioni, strettamente intrecciate. In realtà ci siamo illusi un po’ tutti sulla “fine della storia” (anche se irridevamo  chi ne scriveva), cioè su un futuro meno tempestoso e sulla “naturale” evoluzione dei paesi dell’Europa centro-orientale verso il modello occidentale, considerato “assoluto”. Dall’altro lato abbiamo seguito con “distrazione” quel che avveniva in Russia, sottovalutando i traumi colossali che il post ‘89 aveva indotto (comprendendovi la disastrosa esperienza di Eltsin). E abbiamo letto quasi con incredulità capolavori come Tempo di seconda mano di Svetlana Aleksievič[18] che illuminavano di luce cruda le conseguenze, non solo psicologiche, di quei traumi.

Viene da chiedersi allora: quale storia dell’idea d’Europa occorrerebbe studiare?

Qualche volta mi chiedo se l’importanza di quella idea nel passato possa esser compresa realmente: è difficile ad esempio comunicare oggi la drammatica realtà dell’Europa del 1945 (descrivendola, Max Frisch evocava uno scenario di morte: «rimane l’erba che cresce nelle case, il dente di leone nelle chiese (…) un silenzio di cardi e palude, una terra senza storia, ove nessuno conta più il succedersi delle stagioni, l’alito degli anni»). Ed è fondamentale proiettare il progetto nel futuro alimentando il dialogo culturale molto di più di quel che si faccia realmente.

Per le nuove generazioni di europei la costruzione dell’appartenenza è delicata; la loro formazione dovrebbe intercettare questo come “progetto per il futuro”?

Essendo nato nel 1947 appartengo ad una generazione straordinariamente fortunata, cresciuta nel vivo del “miracolo economico dell’Occidente”: partecipe di una straordinaria ed entusiasmante trasformazione dei modi di vita, di pensare, di progettare il futuro. Una generazione per cui era naturale attraversare le frontiere: culturalmente (si pensi alla straordinaria circolazione culturale di quegli anni, a partire dalla musica) e fisicamente (a partire dall’autostop…). Certo, la circolazione culturale oggi non manca (e non penso solo all’Erasmus, che qualche volta mi è sembrato un’occasione in parte sprecata), ma gli elementi della “formazione” e della “costruzione aperta” di un progetto dovrebbero avere un peso molto più forte.

A suo parere, quindi, una vera cittadinanza europea passa attraverso lo studio della storia, della letteratura, della cultura tout court in chiave europea, più che nazionale. Oggi nel mondo interconnesso e globale rendersi conto di se stessi come europei – tra luci ed ombre – potrebbe servire a realizzare una società diversa e scongiurare errori politici, evitare conflitti e derive che in realtà minacciano da vicino il vivere civile?

Credo proprio di sì, il mio piccolo libro nasce proprio da questo.

Nella costruzione in atto di un’Europa in cerca d’identità e di futuro la scuola e l’università rappresentano per lei – se abbiamo ben inteso – la speranza. Quale consiglio si sente di poter dare ai docenti – in particolare a quelli di Storia – che oggi si trovano ad affrontare il difficile compito di “saper insegnare” e di educare i futuri cittadini e cittadine?

Dare consigli… è un pessimo mestiere, ma – da quel che ho detto sin qui – mi sembra che derivi una prima conseguenza. Se è necessario comprendere la diversità delle differenti storie e al tempo stesso lavorare alla costruzione di una rinnovata idea d’Europa, è evidente il danno gravissimo che deriva dall’insufficiente spazio riservato di fatto all’insegnamento degli ultimi decenni di storia. E c’è da chiedersi se gli attuali manuali e il modo stesso di concepirli siano realmente adeguati: non si tratta di aggiungere altre centinaia di pagine, ma di ripensarli radicalmente.


Note:

[1] G. Orwell, 1984, trad. it. di S. Manferlotti, Mondadori, Milano 2002 (1949), p. 37.

[2] I lavori iniziano nel 2007-2008 e i quattro volumi previsti escono tra il 2016 e il 2020. Cfr. https://europa-unsere-geschichte.org/

[3] M.J. Prutsch, European historical memory. Policies, challenges and perspectives, Publications Office of the European Union, 2015.

[4] https://www.europarl.europa.eu/thinktank/en/document/IPOL-CULT_NT(2012)495822

[5] https://ec.europa.eu/citizenship/sharing-experiences/active-european-remembrance/index_en.htm

[6] G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005.

[7] Niccolò Pianciola, Antonio Ferrara, L’ età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953, Il Mulino, Bologna 2012.

[8] Skira, Milano 2015. In particolare G. Crainz fa riferimento a Il pensiero europeo nella sua evoluzione storica (1932), Disintossicazione morale dell’Europa (1932) e L’unificazione dell’Europa (1934), da cui sono tratte anche le citazioni che seguono.

[9] F. Chabod, Storia dell’idea d’Europa, (Laterza, Bari 1961) ormai un classico Laterza giunto alla sua XII ristampa nel 2022 nell’edizione tascabile a cura di E. Sestan e A. Saitta.

[10] Il corso tenuto al Collège de France nel 1944-’45 è stato dato alle stampe in Italia da Donzelli nel 1999: cfr. L. Febvre, L’Europa. Storia di una civiltà, con una presentazione di Carmine Donzelli e una di Marc Ferro.

[11] T. Garton Ash, Storia del presente. Dalla caduta del Muro alle guerre nei Balcani, Mondadori, Milano 2001, p. 152.

[12] M. Kundera, Praga, la carta in fiamme, in “L’illustrazione italiana” , 10/1981, 1. Tema poi ripreso con forza da Kundera in interventi successivi.

[13] In Microcosmo. L’Europa centrale nella storia di una città, Bruno Mondadori, Milano 2005 (p. XIII)

[14] P. Schneider, Il “Muro” della nuova Europa, in “la Repubblica”, 8/1/2006.

[15] G. Crainz, Le ombre d’Europa. Nazionalismi, memorie, usi politici della storia, Donzelli, Rima 2022, pp. 13-14.

[16] Una Cecoslovacchia “antipolitica”, intervista con Václav Havel a cura di Andrzej Jagodziński, in “L’Europa ritrovata”, mag.-giu. 1990, 1, pp. 23-25.

[17] A. Bolaffi – G. Crainz (a cura di), Calendario civile europeo. I nodi storici di una costruzione difficile, Donzelli, Roma 2019.

[18] Svetlana Aleksievič ha ricevuto il Premio Nobel per la letteratura nel 2015, In Italia il suo Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo è stato pubblicato per Bompiani nel 2016.