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La “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”, tra storia e memoria

La “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”, tra storia e memoria

L’enorme colonna di soldati in rotta dopo lo sfondamento sovietico sul Don.
Foto di Sconosciuto – http://www.labassa.org/libri/alpini/alpini33.html, Pubblico dominio, Collegamento

Abstract

La legge 44/2022 ha sancito l’istituzione della Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini, fissandola al 26 gennaio. La data scelta è quella della battaglia di Nikolajewka, combattuta nel 1943 dagli alpini durante la ritirata dal fronte russo. La memoria di quella battaglia, molto cara e celebrata tra le “penne nere”, è divenuta nel dopoguerra emblematica della narrazione collettiva intorno alle guerre italiane (e fasciste) del 1940-43: la quale, commemorando i caduti solo come “vittime” (e i sopravvissuti come “eroi”), tende a produrre una memoria indulgente che elude le responsabilità del Paese in quel grande conflitto. La scelta del Parlamento di fissare la giornata commemorativa nella data di quella battaglia, contraddittoriamente giustificandola con l’impegno solidale – indiscutibile – che gli Alpini e la loro associazione hanno profuso negli ultimi decenni (e cioè in tempo di pace, non certo in guerra), appare come una scelta politica volta a rivendicare il puro valore bellico dei combattenti, alimentando una lettura revisionista, se non nostalgica, della battaglia e dell’intera guerra. Il testo ricostruisce rapidamente il percorso di istituzione della Giornata, i suoi presupposti ideologici e le perplessità ed opposizioni che ha suscitato.

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Law 44/2022 sanctioned the establishment of the National Day of Remembrance and Sacrifice of the Alpini, setting it on 26 January. The date chosen is that of the Battle of Nikolajewka, fought in 1943 by the Alpine troops during their retreat from the Russian front. The memory of that battle, much cherished and celebrated among the ‘black feathers’, has become emblematic in the post-war period of the collective narrative around the Italian (and fascist) wars of 1940-43: which, by commemorating the fallen only as ‘victims’ (and the survivors as ‘heroes’), tends to produce an indulgent memory that elides the country’s responsibilities in that great conflict. Parliament’s choice to fix the commemorative day on the date of that battle, contradictorily justifying it with the solidarity commitment – unquestionable – that the Alpini and their association have lavished in recent decades (i.e. in peacetime, certainly not in war), appears as a political choice aimed at claiming the pure war value of the combatants, fuelling a revisionist, if not nostalgic, reading of the battle and of the entire war. The text quickly reconstructs the course of the institution of the Day, its ideological assumptions and the perplexity and opposition it has aroused.

Gli Alpini tra storia e mito 

La legge n. 44 5 maggio 2022, che istituisce una Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini, con la celebrazione del ruolo degli Alpini nella giornata di Nikolajewka (26 gennaio 1943), rappresenta il culmine di due processi distinti.

Il primo, più recente, è l’affermazione, in larghi strati dell’opinione pubblica, della stampa e del mondo politico, di una memoria autoindulgente – quando non apertamente revisionista – sulla Seconda guerra mondiale e sulle responsabilità, in quel grande conflitto, degli italiani. Tale memoria è sempre stata presente, ma ha – come noto – guadagnato molta visibilità in particolare negli ultimi trent’anni, con la fine della cosiddetta Prima Repubblica.

L’altro elemento preliminare è il mito alpino. Praticamente sin dalla propria fondazione (1872), infatti, questa specialità militare è stata circonfusa di un’aura di simpatia e affetto connessa ai suoi peculiari caratteri: l’istituzione militare spingava infatti a far considerare gli Alpini – all’inizio gli unici italiani reclutati dall’esercito su base territoriale e non nazionale – alla stregua di “soldati di popolo”, montanari-soldati che anche in divisa mantenevano le pretese caratteristiche di spontaneità, frugalità, fedeltà e capacità di sopportare quasi ogni privazione. Si trattava di uno stereotipo, ma con qualche elemento di verità: rispetto ad altre armi e specialità dell’esercito del tempo, infatti, gli Alpini erano appunto reclutati su base regionale e non nazionale, per di più inizialmente in prevalenza dai territori montani (ma non mancarono, presto, gli Alpini di pianura e di città). Questo favoriva la loro riconoscibilità e la possibilità di rapportarsi con le comunità locali senza apparire come “corpi estranei”.

Il mito alpino rinviava peraltro all’inizio, dal punto di vista militare, a un impiego prettamente difensivo. La specialità nacque infatti con la funzione di vigilare sui confini settentrionali del Regno d’Italia, in particolare in funzione anti-austriaca. È vero però che le prime prove del fuoco avvennero in tutt’altro contesto, quello africano: dapprima ad Adua (1896) e poi in Libia (1911-12). Insomma, la realtà parve subito confutare il mito. La Prima guerra mondiale, però, che vide le penne nere impegnate nel proprio ambiente “naturale”, intervenne subito a corroborarlo.

Il fascismo tentò in seguito di rielaborare il mito, trasformando immagini e soprattutto impieghi concreti in senso offensivo e imperialista. Il regime impiegò infatti le penne nere in quasi tutte le principali campagne militari tra 1935 e 1943: Etiopia, Francia, Grecia-Albania, Jugoslavia, infine la Russia. Come il resto dell’esercito e delle forze armate, gli Alpini pagarono pesantemente l’impreparazione del regime, soffrendo gravissime perdite. Paradossalmente ciò alimentò di nuovo, nel secondo dopoguerra, il vecchio mito alpino, che pareva particolarmente adatto a veicolare l’immagine degli “italiani brava gente” che, facendo da contraltare ai “cattivi tedeschi”, ha permesso una rielaborazione autoindulgente delle guerre fasciste del 1940-43.

La campagna di Russia e la battaglia di Nikolajewka 

Fu in particolare la campagna di Russia ad alimentare il mito dopo il 1945.

Giunti sul fronte orientale nell’estate 1942, quando Mussolini decise l’allargamento dell’impegno italiano trasformando il più piccolo Csir (Corpo di spedizione italiano in Russia) in Armir (8ª Armata italiana in Russia), gli Alpini erano inquadrati in tre divisioni (Julia, Cuneense, Tridentina) più un reggimento di artiglieria da montagna. Le penne nere erano circa 60.000 su un totale di quasi 230.000 uomini.

All’Armir, come allo Csir in precedenza, erano affidati essenzialmente compiti difensivi, di presidio e ripulitura delle retrovie, a protezione dell’avanzata tedesca verso Stalingrado e il Caucaso. Nell’agosto 1942 l’Armir fu dislocata sul Don, avendo a ovest la 2ª Armata ungherese e ad est la 3ª Armata romena. A sinistra dell’Armir era disposto il corpo alpino, a destra le altre divisioni di fanteria, con qualche reggimento tedesco di supporto.

L’annientamento dell’ala meridionale dello schieramento tedesco, nel quale appunto erano inquadrate le unità italiane, avvenne nel contesto dell’operazione sovietica detta Piccolo Saturno, tra la metà di novembre 1942 e la fine di marzo 1943, il cui obiettivo era stroncare la controffensiva tedesca su Stalingrado. Nel corso di questa campagna, l’offensiva sul medio Don – iniziata l’11 dicembre – consentì ai sovietici di accerchiare la quasi totalità delle unità italiane. Come in maniera praticamente concorde ricostruiscono gli studi di Giorgio Rochat, le relazioni ufficiali militari e le narrazioni di Nuto Revelli o di Mario Rigoni Stern, le cause fondamentali della vittoria delle forze armate dell’Urss furono l’eccessiva ampiezza dei settori difensivi cui erano addetti gli italiani, la scarsa profondità della loro linea, la mancanza di riserve adeguate e la impressionante deficienza di materiali.

L’attacco di sfondamento iniziò il 16 dicembre 1942. Ben presto il fronte dell’Asse si sfaldò, e cominciò la precipitosa ritirata delle altre divisioni di fanteria: ma se i tedeschi si mossero prima, e con ben altri mezzi, gli Alpini italiani ricevettero il permesso di arretrare solo il 17 gennaio, quando l’accerchiamento era praticamente compiuto. La durissima marcia all’indietro, costellata di sanguinosi combattimenti, falcidiata dal gelo e dalla mancanza di rifornimenti, resa caotica dalla rottura quasi completa della catena di comando, culminò il 26 gennaio con la battaglia di Nikolajewka, quando un nucleo ristretto dei residui reparti ancora efficienti della divisione Tridentina piegò la resistenza sovietica, in quel luogo inferiore di numero, consentendo ad alcune decine di migliaia di italiani, tedeschi, ungheresi e romeni di sfuggire alla cattura o all’annientamento.

Il bilancio fu comunque catastrofico: l’8ª Armata italiana perse 114.520 uomini, di cui 84.830 caduti (inclusi i deceduti in prigionia). La metà di loro erano Alpini. Un numero imprecisato di soldati – tra 45 e 60.000 – fu catturato dai sovietici. Ne sarebbero tornati, anche a distanza di anni, poco più di 10.000.

Pace o guerra: la memoria di Nikolajewka e il ruolo dell’Ana

Perché di tutta la storia più che centocinquantenaria del corpo[1] degli Alpini, o di tutta la Seconda guerra mondiale, o anche solo della campagna di Russia sia stata scelta – da parte di chi ha voluto istituire una Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini – lo scontro (limitato, nelle dimensioni e ancor più nella rappresentatività) di Nikolajewka è difficile dire.

Si dovrebbe preliminarmente osservare che è oggetto di discussione se fra tutte le forze armate ­– il cui valore e il cui apporto alla storia nazionale è già ricordato il 4 novembre, da tempo Giorno dell’Unità nazionale e Giornata delle forze armate – si debba scegliere una sola forza armata, un solo corpo o una sola specialità. Non è un caso infatti che la decisione tutta politica (come vedremo più avanti) di isolare il Corpo degli Alpini e di intitolare ad esso un’ulteriore giornata del calendario civile e memoriale degli italiani e delle italiane ha sollevato malumori non del tutto sopiti fra i rappresentanti degli altri corpi e reparti militari, nonché delle loro associazioni di rappresentanza e combattentistiche.

In maniera altrettanto preliminare, si dovrebbe osservare che – “mito alpino” o meno – i “soldati con la penna nera” e ancor più la loro organizzazione di riferimento (l’Associazione nazionale Alpini, fondata nel 1919) sono oggi ricordati con rispetto da parte della larga maggioranza degli italiani, più che per quello bellico, per il loro impegno solidale con la popolazione civile rispettivamente in contesti di calamità naturale (a partire ad esempio dal loro impiego nel terremoto del Friuli nel 1976-77) o nella cornice del volontariato e del supporto appunto alle popolazioni (dall’eccezionale apporto alla Protezione civile al recente impiego nella pandemia da Covid-19). Il riconoscente pensiero delle italiane e degli italiani di oggi, insomma, comunque lo si giudichi, va più agli Alpini civili che a quelli combattenti. Voler stringere e costringere la memoria del “sacrificio alpino” ad un atto di guerra, e di una campagna della guerra fascista, è quindi di per sé una scelta politica.

Ciò premesso va richiamato che, ormai oltre trent’anni fa, Mario Isnenghi sottolineò come le memorie italiane della seconda guerra mondiale privilegino «l’uscita» – dalla guerra, dalla vita militare, dall’educazione fascista – piuttosto che gli eventi dei primi anni (1940-42).[2] Questo vale ovviamente anche per la campagna di Russia: da parte dei combattenti, la loro «uscita» da quel teatro bellico e spesso dalla guerra, per quanto tragica e traumatica, fu più agevole da raccontare che non i diciotto mesi precedenti. Secondo Giorgio Rochat, al successo della memoria di Russia hanno contribuito anche altri fattori: il clima visceralmente anticomunista circolante nell’Italia della prima fase della Guerra fredda; la sua funzione «consolante» rispetto al valore militare e al carattere nazionale degli italiani; e la crisi dei valori tradizionali provocata dalla ritirata, che nel ricordo ne ha fatto quasi una seconda Caporetto, con il corollario di tragicità ed epicità intrecciate che ne conseguivano.[3]

Questo era il contesto generale.

Va anche detto che, assai prima della recente legge 2022/44, come per molti altri momenti della lunga storia degli Alpini in uniforme, il ricordo della tragica ritirata di Russia – all’interno del quale viene inserito l’episodio di Nikolajewka – è stato anche frutto del lungo ed eccezionale impegno profuso in questo senso per decenni dall’Associazione nazionale Alpini (Ana), il sodalizio che riunisce gli Alpini in armi e in congedo. L’Ana, che è oggi la più affollata associazione combattentistica nazionale e forse la seconda associazione militare al mondo (350.000 iscritti nel 2022), è stata infatti centrale nella costruzione della memoria degli Alpini nel dopoguerra, forse non meno dei volumi di celebri reduci-autori come Bedeschi, Rigoni Stern e Revelli.

Nel discorso pubblico dell’Ana la memoria di Nikolajewka assunse, in particolare tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, una funzione rivendicativa: ovvero essa sembrò loro permettere di rivendicare il «valore cristallino» dei combattenti di Russia (peraltro anche a contrasto delle «miserie» dell’Italia del proprio presente). Era, in fondo, una formula retorica come tante altre, e tipica dei reducismi. Il ricordo non di tutta la campagna di Russia – incluso il suo carattere di guerra fascista di aggressione – ma solo dello scontro in fondo difensivo, in ritirata, per la vita o la morte, di Nikolajewka prendeva solo una giornata di valore bellico in una campagna persa e in una guerra fascista.

Inoltre, il ricordo selettivo della sola Nikolajewka era funzionale ad esaltare, assai più di quanto non si faccia oggi, l’eroismo puramente militare dei soldati, disposti a combattere – secondo questa memoria – sino all’ultima pallottola, ma tacendo del contesto politico generale della campagna e della guerra fascista.

Solo al principio degli anni Novanta, intorno al cinquantenario, nella stessa Ana i toni intorno a Nikolajewka si fecero finalmente più distesi, anche perché si erano nel frattempo spente le tensioni ideologiche della Guerra fredda. Non va dimenticato che, a simbolo di un superamento di una intera fase memoriale, fu proprio in questa fase che in segno di amicizia e riconciliazione col popolo russo, l’Ana promosse e realizzò la costruzione di un asilo a Rossosch (proprio dove si trovava il comando delle truppe alpine). È anche così che, di recente, all’interno dell’associazione il ricordo di Nikolajewka ha sempre più acquisito un significato solidaristico.

Ciò detto, le dinamiche che hanno portato alla 44/2022 sono state del tutto politiche e hanno strumentalizzato, trasceso e frainteso ogni intendimento dell’Ana.

Il percorso della legge 44/2022

Il percorso di istituzione della Giornata iniziò infatti l’11 maggio 2018, quando il gruppo parlamentare della “Lega per Salvini Premier”, primo firmatario il neodeputato bolognese Guglielmo Golinelli – nel 2017 coordinatore regionale del “Movimento Giovani Padani per l’Emilia” e nel 2018 deputato per la Lega nel collegio Modena-Ferrara – presentò un relativo disegno di legge (n. 622).

Il primo argomento su cui Golinelli (e la Lega) si appoggiava nella presentazione del progetto di legge era la popolarità degli Alpini tra gli italiani, in forza della funzione «difensiva» del loro ruolo militare (come abbiamo visto, uno dei cardini del mito), della notorietà delle loro adunate annuali, e del contributo che i volontari della protezione civile alpina hanno offerti in numerose occasioni. Nella relazione che accompagnava il disegno di legge tutti questi elementi erano però mescolati alla rinfusa con concetti assai diversi e distanti, come l’interesse nazionale e la «sovranità». Scriveva Golinelli:

I valori che incarnano gli Alpini nella difesa della sovranità e dell’interesse nazionale e nell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato meritano di essere celebrati e raccontati alle nuove generazioni.

Peccato però che per giustificare la scelta del 26 gennaio il valore alpino che si intendeva celebrare era invece, esplicitamente, quello militare, e non certo per difendere il territorio nazionale, bensì nella campagna di aggressione nazifascista all’Unione Sovietica: incurante della contraddizione di fondo Golinelli aggiungeva che

le forze sovietiche vennero sopraffatte dagli Alpini della divisione Tridentina, comandati dal loro eroico comandante, il generale Reverberi, che li trascinò all’attacco delle postazioni russe al grido di “Tridentina avanti!”. Come una valanga, gli Alpini travolsero la resistenza sovietica.[4]

Tali erano i presupposti della proposta di legge, poi filtrati nel testo definitivo: dove all’art. 1 ci si propone di

conservare la memoria dell’eroismo dimostrato dal Corpo d’armata alpino nella battaglia di Nikolajewka durante la seconda guerra mondiale, nonché [grassetto nostro] di promuovere i valori che incarnano gli Alpini nella difesa della sovranità e dell’interesse nazionale e nell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato.

La confusione e la giustapposizione di aspetti diversi – in ultima analisi, la riscrittura della storia – appaiono evidenti, quasi che gli Alpini in Russia avrebbero difeso una qualche supposta «sovranità» italiana, pur trovandosi a più di qualche migliaio di chilometri dalle patrie frontiere, e quasi che l’«interesse nazionale» stesse in una guerra (fascista) di aggressione.

Insomma, pur mascherata dalla retorica della «solidarietà» e del «sacrificio», la legge promuove una memoria latamente revisionista, se non nostalgica.

Ciononostante, stupisce che – in forza della diffusione universale e acritica del “mito alpino”, o del timore del ricatto politico o della distrazione culturale di gran parte dei partiti politici di governo e di opposizione, o dell’ignoranza della storia, o di tutti questi fattori assieme – la legge 44/2022 è stata votata, alla Camera come al Senato, dai rappresentanti di tutti i partiti, inclusi dunque quelli di centro-sinistra. La definitiva approvazione è giunta il 5 aprile 2022.

La norma istituisce quindi un’ulteriore data del calendario civile, peraltro a partire da un ricordo confuso e strumentale di uno scontro militare occorso durante una delle più odiose campagne della guerra fascista. Tale scelta, di per sé grave, è ulteriormente aggravata dalla data indicata, che viene a collocarsi a ridosso dell’altra più celebre data di quel calendario: il 27 gennaio. Sembra proprio quindi che la legge 44/2022 sia stata pensata, o possa essere utilizzata, per depotenziare (se non per delegittimare) l’altra legge 211/2000, istitutiva del Giorno della memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti. Non è possibile accertare l’intenzione del proponente, ma certo l’indicazione di quella data ha riscosso il plauso di chi ancora, in Italia, non ha digerito l’istituzione di quel Giorno della memoria con tutto quanto esso trascina in termini di memoria delle responsabilità del fascismo, dei fascisti e della Rsi nella persecuzione prima dei diritti e poi delle vite degli italiani ebrei.

Come si vede, plurimi sono i piani che la 44/2022 solleva e per la quale ha sollevato, sin dalla sua approvazione, preoccupazioni e proteste – persino nel campo culturale di quelle forze politiche che invece in Parlamento l’avevano approvata. I cultori della storia devono invece tenere accuratamente distinti questi vari piani.

Una memoria contesa (anche tra gli Alpini)

A dimostrazione dell’origine tutta politica del provvedimento, volto a legare a un solo partito politico l’eco positiva – comunque la si pensi – del diffuso “mito alpino”, se non quasi a considerare proprietà territoriale, “padana”, il ricordo degli Alpini, è stato osservato che all’indomani dell’approvazione in prima lettura alla Camera, nel giugno 2019, e poi dell’approvazione definitiva nel 2022, il vertice dell’Ana ha sì espresso la propria soddisfazione per il riconoscimento dell’eroismo militare e del ruolo civile contenuto nella legge, ma ha anche più volte ribadito di non aver avuto alcun ruolo di promozione della Giornata, né tantomeno di aver indicato la data – che si sapeva controversa – del 26 gennaio.

L’Ana, in effetti, fu audita dalla commissione Difesa della Camera nel febbraio 2019, quando la norma era stata, di fatto, già “confezionata” e la data già scelta. Pur difendendo la legge, però, l’associazione ha più volte ribadito la propria estraneità: una presa di distanza nella consapevolezza che neppure tra i propri iscritti la scelta della data di Nikolajewka ha riscosso unanimi consensi.

Sullo stesso giornale ufficiale L’Alpino, infatti, sono filtrati – pur rintuzzati duramente dall’allora direttore – i malumori di alcuni soci in particolare per la scelta della data, di cui non sfuggiva ovviamente la natura politica.[5] Il culmine di questo dissenso interno è stato rappresentato dalla lettera inviata da un gruppo di 39 ex ufficiali Alpini al Presidente della Repubblica, ripresa anche dalla stampa nazionale, in cui essi hanno scritto che la scelta del 26 gennaio era «profondamente errata e ingiusta», perché «a Nikolajewka e in Russia gli Alpini sono comandati in ritirata da un’aggressione a un Paese straniero». Inoltre, la celebrazione dimenticava il sacrificio dei militari di altri corpi o specialità, le cui associazioni d’arma «si sono sentite almeno dimenticate, se non addirittura avvilite» dalla nuova norma.[6]

Va osservato però che, da subito, alla scelta del 26 gennaio si sono opposti solo i professionisti della ricerca storica (peraltro mai interpellati dai proponenti durante la discussione della legge). All’indomani della definitiva approvazione, infatti, le principali società storiche che riuniscono gli studiosi contemporaneisti, modernisti e medievisti (Sissco, Sisem e Sismed) hanno inviato una lettera aperta alla presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, stigmatizzando dapprima la reiterata abitudine della Repubblica a infittire il calendario civile di giornate commemorative, «spesso con l’esito discutibile di stabilire verità di stato che nuocciono al libero esercizio della ricerca storica», e nel caso specifico contestando la data prescelta, quella di «un’impresa militare condotta all’interno di una guerra di aggressione all’Italia fascista».[7]

Obiezioni queste che, tutte insieme, indicano la divisività della scelta politica racchiusa in quella norma: che rappresenta in definitiva un’ulteriore occasione per l’affermazione di una memoria indulgente e quantomeno selettiva delle guerre italiane del 1940-43. Una memoria che ritiene al fondo gli italiani solo vittime, e quindi in definitiva tutti innocenti, completamente eludendo le responsabilità storiche collettive del Paese e non aiutandolo a conoscere la propria storia né a farvi i dovuti conti.


Note:

[1] Gli alpini sono tecnicamente una specialità (di fanteria), ma è ormai invalso l’uso della dizione “corpo” (ampiamente impiegato anche in sede scientifica), pertanto i due termini sono di fatto intercambiabili;

[2] Mario Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, il Mulino, Bologna 2005 (ed. or. 1989), pp. 251 e segg.

[3] Giorgio Rochat, Memorialistica e storiografia sulla campagna di Russia 1941-1943, in Enzo Collotti (a cura di), Gli italiani sul fronte russo, De Donato, Bari 1982, pp. 465-482.

[4] Atti parlamentari, Camera dei Deputati, XVIII leg., proposta di legge n. 622, 11 maggio 2018.

[5] Vedi ad es. Le voci di Nikolajewka, «L’Alpino», maggio 2022, p. 3; ibidem, p. 5; «L’Alpino», luglio 2022, p. 7.

[6] Concetto Vecchio, Giornata degli alpini, la protesta degli ufficiali: “Mattarella ci aiuti a cambiare la data del 26 gennaio per la nostra festa”, in “La Repubblica”, 7 maggio 2022.

[7] www.sissco.it/articoli/lettera-delle-societa-storiche-sullistituzione-della-giornata-nazionale-degli-alpini.