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Oltre il Novecento? Scuola, storia e cittadinanza oggi

Oltre il Novecento? Scuola, storia e cittadinanza oggi
Abstract

Il saggio riassume e rielabora le considerazioni svolte durante l’ultima giornata della Summer School: “Storia, un insegnamento in crisi? Tra specificità disciplinari e nuove urgenze”. Il testo segue la scansione data dalle domande poste da A. G. Salassa, ma tiene conto anche delle questioni emerse nel dibattito finale. Le questioni esaminate sono sostanzialmente le seguenti: se è corretto parlare, con riferimento alla scuola italiana dei nostri giorni, di ”insegnamento – e di insegnanti – in crisi“ e, nel caso, perché; se c’è ancora il rischio che la storia subisca un ridimensionamento nei curricula scolastici; quali tra i “nuovi” compiti che istituzioni e società civile richiedono ai docenti di storia (le varie educazioni – alla cittadinanza, al rispetto dell’ambiente, ecc. -; il fact checking; la media literacy) sono maggiormente integrabili; se l’insegnamento della storia può essere “palestra di cittadinanza” e se non c’è invece il rischio di una sua riduzione a pedagogia civile, che porti a una perdita delle sue importanti specificità disciplinari.

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The essay summarises and elaborates on the considerations made during the last day of the Summer School: “History, a teaching in crisis? Between disciplinary specificities and new urgencies”. The text follows the scansion given by the questions posed by A. G. Salassa, but also takes into account the issues that emerged in the final debate. which of the ‘new’ tasks that institutions and civil society require of history teachers (the various educations – to citizenship, respect for the environment, etc.; fact-checking; media literacy) can be better integrated; whether the teaching of history can be a ‘gymnasium of citizenship’ and whether there is not instead the risk of reducing it to civil pedagogy, leading to a loss of its important disciplinary specificities.

Quale crisi per quale storia?

IL 29 agosto, nella sessione introduttiva di questa Summer, emergeva come negli ultimi decenni l’insegnamento della storia abbia avuto fortune alterne in Europa. Nei paesi occidentali generalmente ha perso spazi, ore e importanza, mentre nei paesi dell’Est è avvenuto il contrario. Nel frattempo, il fatto stesso che nelle rilevazioni internazionali sulla qualità dell’insegnamento sia assente la storia, ha fatto apparentemente “sparire” la questione. Secondo Piero Colla, quindi, se non si può parlare di una crisi generalizzata dell’insegnamento della storia, per lo meno si deve parlare di un problema. Partiamo da qui: c’è un problema, e dobbiamo capire che tipo di problema.

Per brevità proporrei di distinguere intanto due aspetti:

  • un conto è interrogarsi sulla perdita di importanza della storia nei sistemi educativi, cioè della crisi di importanza della disciplina storica. Spesso questo tema si confonde con quello più generale della “crisi della disciplina storica” in sé. A tratti, quindi, questo dibattito si intreccia con temi complessi che attraversano la storia professionale (la storiografia), un dibattito ampio e articolato, che tocca anche nodi teorici ed epistemologici importanti;
  • un conto è interrogarsi sulla crisi delle forme di mediazione (didattica) della storia e, in particolare, sulla crisi di queste forme nella scuola pubblica, nella scuola dell’obbligo (nell’educazione formale).

Quale ruolo e quali forme di mediazione sembrano in crisi? Semplifico per fornire alcune coordinate: sin dalla seconda metà dell’Ottocento si crea nei paesi europei un certo tipo di rapporto tra scuola e saperi (discipline); all’interno di questo rapporto la storia ha un ruolo fondamentale, connesso con la costruzione della nazione (“romanzo nazionale”, “nazionalismo metodologico”) nella fase ascendente della mondialità europea (“eurocentrismo”, “ideologia del progresso”). Questo ruolo, questa importanza dell’insegnamento della storia nella scuola pubblica è il punto di partenza per capire la situazione attuale.

Almeno dalla fine del Settecento per noi europei è esistito un legame tra stato-nazione, scuola e storia, che ha accompagnato la professionalizzazione della disciplina, la scolarizzazione di massa e i processi di estensione della cittadinanza. E’ questo tipo di equilibrio che oggi vacilla, come l’intero rapporto tra società, scuola e saperi definito tra XIX e prima metà del XX secolo.[1]

La scuola italiana, che ha un impianto storicista fortissimo, risente ovviamente di questa transizione. Si può approfondire questo discorso in tante direzioni, ma qui aggiungiamo un’altra premessa, utile per comprendere le complesse dinamiche che influenzano il nostro modo di concepire l’educazione.

Abbiamo parlato sinora di due protagonisti fondamentali: la storia (professionale e insegnata) e gli stati-nazione. Gli stati-nazione – i committenti, potremmo dire – investono nella scuola dell’obbligo e legittimamente pensano al tipo di cittadino che vogliono formare. Questo fa parte delle “politiche della storia”.[2] Si tratta quindi di una questione squisitamente politica, legittimamente politica. Infatti quando si parla di insegnamento della storia nella scuola pubblica e del rapporto con le altre discipline, si accendono spesso aspre dispute pubbliche (history wars).[3] La posta in gioco è strategica: il tipo di cittadino che vogliamo sia “formato” dalla scuola dell’obbligo.

Tra XIX e XX secolo però esistono altri processi, altri attori, che contribuiscono a disegnare gli equilibri tra saperi ed educazione. Sin dalla seconda metà dell’Ottocento qualunque politica educativa ha risposto anche ad un’altra sfida: in un mondo che diventa sempre più globalizzato, la competizione tra potenze imperialiste è anche una competizione di economie. L’educazione non viene concepita solo in funzione della costruzione del cittadino ideale, ma anche in funzione dell’efficienza e competitività delle economie nazionali, cioè in funzione della qualità delle forze produttive (industrie, tecnologia, lavoro, ecc.). Sin dalla seconda metà dell’Ottocento comincia lo studio delle Best Practices, cioè si va a vedere dove funziona meglio il sistema educativo e perché. Se ne occuperà anche la Società delle Nazioni, insieme ad un primo network di organizzazioni e associazioni internazionali.

Anche in questo periodo, infine, individui e comunità guardano alla storia per elaborare il proprio rapporto col passato, che è parte fondamentale del processo di costruzione delle identità e – soprattutto – del “senso del tempo”. L’elaborazione del passato consente di pensare il cambiamento nel tempo, quindi di pensare il presente e il futuro, per dare un senso all’esperienza e all’azione concreta nella realtà. Al di là dell’educazione formale, quindi, in tanti ambiti della vita sociale e culturale viene continuamente ri-elaborato il passato. In questo contesto, il mercato dei consumi e il sistema dei media, sempre più massificati, si conquistano un posto rilevante. Sino alla situazione attuale, così bene descritta da Stefano Pasta nella seconda sessione di questa Summer:[4] l’età della comunicazione digitale e globale, l’età della mediatizzazione di ogni ambito della vita, è l’età della post-verità, in cui i fatti contano meno degli algoritmi che ci accompagnano nella quotidianità, amplificando le nostre convinzioni pregresse (senso comune) e nutrendo le emozioni del momento.

La scuola viene investita in pieno da questi processi:

  • un certo ruolo, una certa gerarchia dei saperi e della storia viene messa in discussione;
  • la centralità del testo scritto e della mediazione didattica tradizionale, concepite ormai due secoli fa, viene messa in discussione dal carattere spontaneo, emotivo, multimediale e magmatico delle forme della comunicazione popolari, in cui viviamo letteralmente immersi grazie ai nuovi media.

Nel frattempo la disciplina storica è diventata sempre più raffinata dal punto di vista epistemologico, dal punto di vista delle strategie e del metodo. Si è allargato enormemente il ventaglio di fonti, di temi, di questioni con cui misurarsi, quindi la storia come strategia della conoscenza è diventata sempre più “potente”.[5]  Negli altri ambiti – le politiche della storia, gli usi pubblici, l’industria culturale, le forme mediatizzate della socialità popolare – le finalità sono diverse: il passato viene messo al “servizio” di particolari esigenze, individuali o collettive, di carattere pubblico o privato. Che sia frutto di una forma di conoscenza sorvegliata e consapevole, conta meno. Si è allargato il gap tra approccio cognitivo (storia come strategia della conoscenza) e approccio identitario (storia come strategia della memoria).

La “crisi” dell’insegnamento della storia è inseparabile, quindi, da un insieme di processi storici che sottopongono tutta la scuola a forti pressioni, forzando gli equilibri con cui si è andata costruendo in Europa e in Italia tra XIX e XX secolo. In questo contesto una certa funzione della storia vacilla, mettendo in discussione sia il suo ruolo nella formazione pubblica, sia le forme tradizionali della sua mediazione e divulgazione. Si aprono quindi scenari diversi, dal ritorno al passato a nuovi avventurismi.

 

Storia insegnata e “nuovi” compiti

Come mai spuntano continuamente nuove educazioni e nuovi compiti per la scuola, se non perché ci si rende conto che qualcosa della sua concezione tradizionale non tiene più, non funziona più nel formare cittadini o forze produttive del XXI secolo? Se continuiamo però ad aggiungere piani su piani, su un edificio già traballante, alla fine lo faremo crollare. Quasi ogni disciplina (in Italia tutte quelle di impianto storicista), compreso l’insegnamento della storia, registra queste scosse di assestamento. Ne vogliamo una dimostrazione?

Nel 1995 viene fatta una grande indagine internazionale sul rapporto tra giovani e storia – Youth and History[6] – che includeva 27 paesi europei. Il rapporto tra giovani e storia viene indagato sotto tanti punti di vista. Una domanda è, per esempio, “qual è la tua concezione del tempo? Pensi che le cose andranno sempre meglio, le cose saranno sempre uguali, le cose andranno a peggiorare?” Nel riproporre queste domande tra 2019 e 2021 abbiamo registrato che sono ormai pochissimi i giovani che vedono il futuro come progresso, come lo vedevano le generazioni precedenti. La grande maggioranza ritiene che “non ci saranno cambiamenti”. Su altre domande del questionario (sui manuali, sui i temi, sui media, ecc.)  stiamo ancora lavorando, ma emergono altri elementi interessanti. Per quanto riguarda il rapporto con la narrazione storica nei manuali scolastici, in particolare quella dell’età contemporanea, sembra che “funzioni” fino al 1945. Ed effettivamente fino al 1945 c’è un racconto molto strutturato, molto forte, il paradigma è quello del progresso, il paradigma è quello eurocentrico, la dimensione nazionale è ben presente, gli attori fondamentali sono molto chiari, anche se il racconto si è notevolmente arricchito di inserzioni di storia sociale e culturale, ecc. Dopo il 1945 la storia manualistica funziona meno, emerge una sensazione di insoddisfazione, un maggiore disorientamento.

Il problema che questi risultati segnalano è lo stesso da cui siamo partiti: il legame tra società e storia, tra scuola e storia, trasmesso all’interno delle aspettative generali di progresso, sembra non tenere più, come le coordinate identitarie collettive costruite insieme ad esso, tra XIX e inizi del XX secolo. Un certo legame tra passato, presente e futuro scompare. Cosa rimane del “futuro” tra XIX e XX secolo, al di là della crisi della categoria di “progresso”? Come lo pensiamo?

Quando parliamo di cosa insegnare nella scuola pubblica, in definitiva, di cosa parliamo se non del futuro? Come diceva Colla, non ci stiamo occupando del passato: ogni risposta che diamo è una risposta sul futuro, una risposta su che tipo di cittadini, che tipo di lavoratori, che tipo di società vogliamo nel futuro. Quindi la partita in gioco è altissima, se vogliamo conservare una dimensione collettiva ampia e democratica. Le istituzioni pubbliche, che hanno una responsabilità particolare, l’insegnante nella scuola pubblica, che ha una responsabilità particolare, devono trovare la loro strada.

Tra XIX e XX secolo la scuola pubblica è stata un’idea futuro: il progetto era di mettere in comune identità, cioè di superare il fatto che provenivo da un paese povero, provenivo da una certa classe sociale, da un certo territorio. La scuola pubblica doveva costruire i cittadini della nazione, una grande collettività in cammino per il progresso comune. Oggi discutiamo sui caratteri di questa costruzione e sui suoi limiti, certamente, ma non possiamo negare che l’ambizione fosse questa.

Come l’insegnamento della storia può assolvere a questa stessa funzione senza asservire il passato al presente? Ce lo ha ricordato da ultimo la guerra contro l’Ucraina: asservire la storia al nazionalismo di turno (agli -ismi di turno), ci porta in un vicolo cieco. L’approccio identitario al passato può essere inteso in due modi opposti: alla Jullien,[7] oppure alla Putin. Fuor di metafora, un conto è se l’identità viene definita (per esempio) in base ai primi dodici articoli della nostra Costituzione, un altro è se scelgo due o tre pezzi del passato per “distinguere” la mia identità dagli altri. Nel primo caso l’identità collettiva viene intesa come inclusiva e aperta, nel secondo come esclusiva e chiusa, nel primo caso può unire, nel secondo è divisiva per definizione. Anche il patriottismo (la devozione ad una identità comune), di conseguenza, può essere di due tipi completamente diversi.

Fatte queste premesse si può tornare al tema delle nuove educazioni. Ogni problema del presente (di carattere culturale, economico, sociale, civile, ambientale, ecc.) pare abbia necessità di trovare una risposta introducendo una nuova educazione nelle scuole (educazione anti-xenofobia, educazione economica, educazione ambientale, educazione digitale, ecc.). Sempre più spesso, inoltre, queste nuove esigenze educative vengono definite in declaratorie internazionali. La maggiore novità nelle politiche educative tra XX e XXI secolo è costituita – infatti – dalla crescente importanza di alcuni forum internazionali, pur rimanendo cruciale il ruolo degli Stati nazionali. Si tratta di cercare una risposta a questa sfida: che significa educare cittadini o lavoratori dopo la fine dell’età dell’oro, nell’età della seconda globalizzazione e della “società della conoscenza”, della rivoluzione finanziaria e digitale?

La risposta a questa sfida si comincia a costruire tra anni Settanta e Novanta del Novecento, col contributo di varie organizzazioni internazionali. Tutti sappiamo, ad esempio, che alcune delle principali politiche educative sono state elaborate nello spazio comune europeo (l’OCSE in primis). Anche l’Unione Europea, dagli anni 90 in poi, da Maastricht in poi, sceglie come stare in questa sfida. Da qui provengono, per brevità, le varie filosofie delle competenze, le gerarchie delle rilevazioni INVALSI, il romanzo della caduta e della rinascita dell’Europa (politiche della memoria). Ne parleremo nella terza parte, dedicata alle nuove forme della pedagogia civile.

Esiste un rapporto possibile tra queste nuove educazioni e insegnamento della storia? Tra nuove esigenze educative e insegnamento della storia? Come per la scuola, se si tratta di aggiungere sempre più schede e box ai manuali o alle lezioni di storia, l’impalcatura non reggerà. La via più semplice e più efficace rimane quella proposta dalle maggiori scuole di ricerca sulla didattica della storia: l’insegnamento della storia deve soprattutto insegnare a pensare storicamente. Questo approccio ci consente di comprendere quanto le nuove esigenze educative e i nuovi compiti non siano in realtà poi così nuovi.

Insegnare a pensare storicamente significa non limitarsi a mediare i contenuti della conoscenza storica, ma guidare gli studenti nel maneggiare la cassetta degli attrezzi dello storico, aiutarli a capire come questa forma di conoscenza del passato viene costruita. Uno degli esempi più chiari ed efficaci, da questo punto di vista, è quello dello Standford History Education Group, che nel tipico stile empirico anglosassone, aiuta ad identificare in modo operativo le strategie della conoscenza messe in campo dallo storico, a partire dall’analisi delle fonti. Già questo ci risolve il problema del fact cheking, ci insegna che la causalità è sempre complessa, ecc.

Seguendo questo approccio si possono identificare in modo semplice anche altre operazioni che compie lo storico:[8] la scelta delle rilevanze, la scelta degli attori, ecc. È un punto di partenza efficace per portare in classe un po’ della consapevolezza epistemologica che hanno gli storici di professione quando indagano il passato. Ma si può andare oltre.

La professione storica fa riferimento anche ad altri elementi, fuori e dentro gli scopi professionali, che aiutano ad evidenziare la “potenza intellettuale” del pensiero storico. Come parte della ricerca, individuale e collettiva, di un orientamento significativo nel tempo, la storia è una strategia della conoscenza che si specializza, si definisce, si specifica in relazione ad un contesto. In ogni contesto storico ci sono prospettive diverse, dimensioni estetiche, opzioni politiche, obiettivi educativi ecc. Ci sono altri modi di indagare, rappresentare ed esprimere il rapporto con il passato. Via via emergono nuove domande, nuovi problemi, nuove rilevanze, nuovi strumenti di indagine, che sollecitano la disciplina. Ecco perché nel mestiere dello storico ci sono controversie, revisioni, dibattiti. Come diceva Febvre: “senza problemi non c’è storia”.[9] E capita spesso che nuovi problemi, nuove domande, nuovi approcci conducano a cercare, scoprire, valorizzare nuove fonti.

Pensare storicamente, pensare scientificamente, significa scegliere consapevolmente un percorso in grado di attraversare la complessità del passato, a partire da un problema, da un interrogativo. Il rapporto con le fonti conduce a formulare delle ipotesi e a proporre in forma narrativa e argomentativa una risposta al problema di partenza. Pur compiendo delle scelte soggettive, in nessun momento lo storico compie la sua ricerca senza dover motivare e giustificare ogni passaggio (la scelta del problema, la scelta delle fonti, ecc.). Si confronta sempre (con articoli, saggi, monografie, conferenze, ecc.) con la comunità degli storici di professione ed elabora criticamente e consapevolmente il rapporto tra specificità della disciplina e contesto, chiarendo:

  • la logica della ricerca storica, rispetto ad altri tipi di ricerca (dimensione scientifico-cognitiva)
  • la logica della narrazione storica, rispetto ad altre logiche narrative (dimensione comunicativa);
  • il ruolo della conoscenza storica nel processo di orientamento culturale, rispetto ad altri modi di elaborare il rapporto tra passato, presente e futuro (dimensione pratica)

Lo storico usa strategie controllabili, verificabili, intersoggettive in tutte e tre queste dimensioni:

  • distingue le conoscenze spontanee derivate dall’esperienza quotidiana, da quelle ottenute attraverso il metodo storico;
  • disciplina le narrazioni, riflettendo criticamente sulla selezione delle rilevanze, argomentando razionalmente;
  • affronta in modo cognitivo, critico e intersoggettivo le domande di orientamento nel tempo che provengono dal contesto sociale.
  • Usando una categoria tipica negli studi di area tedesca,[10] possiamo dire che la capacità di pensare storicamente è la chiave per una “coscienza storica” critica e consapevole, che non sia preda del senso comune e del rapporto empatico col passato. Comprendere come “maneggiare” tutte e tre le dimensioni della disciplina è essenziale, soprattutto per i giovani in formazione, immersi in svariati usi e abusi del passato,[11] ed essi stessi alla ricerca di un rapporto significativo tra passato, presente e futuro.

In questo contesto si può impostare correttamente il tema della cosiddetta “media literacy”. Come racconto e come parte di un più generale processo di elaborazione del senso del tempo storico la storia appartiene infatti alla sfera della realtà e della comunicazione sociale. Spesso sottovalutato, o sopravvalutato, questo rapporto tra storia e media, tra scuola e media, è assai rilevante ai fini dell’insegnamento della storia. Oggi, grazie al più grande palcoscenico che la comunicazione sociale abbia mai avuto, internet, che amplia notevolmente le forme di espressività, di comunicazione, di narrazione e auto-narrazione a disposizione di chiunque vi abbia accesso, viviamo letteralmente immersi nelle dinamiche proprie della cultura popolare, dell’oralità, della continua rielaborazione di parole, testi, immagini e suoni che da sempre le caratterizza. Anzi, il web radicalizza alcune dinamiche, poiché vengono a mancare i filtri spontanei tipici delle interazioni sociali “faccia a faccia”. Siamo passati, per usare una metafora, dalle chiacchiere scambiate in piccoli capannelli in piazza, o dalle favole raccontate attorno al braciere, alla più grande piazza virtuale che sia mai esistita, in cui si moltiplicano all’infinito “capannelli” e “bracieri”. Il chiacchiericcio dei vari gruppi si costituisce però con le regole di sempre: conta come riconosco i miei simili, contano le emozioni del momento, conta quello che so già (senso comune, stereotipi, ecc.).

I nuovi media e il web 2.0, in definitiva, non hanno modificato (in modo sostanziale) i caratteri della cultura popolare, bensì li hanno in parte amplificati, in parte resi più visibili. Anche il rapporto con il passato non sfugge a queste dinamiche. Esiste quindi una cultura storica, diffusa e popolare, che rimescola e rimaneggia continuamente storie e narrazioni, eroi e nemici, miti ed eventi, anniversari e commemorazioni. È caratterizzata da un bisogno di orientamento fortemente radicato nel presente, è drammatizzata, spettacolarizzata, multimediale per definizione, spesso polemica e trasgressiva, politicizzata e populista. È “la storia siamo noi”, il passato con cui possiamo identificarci empaticamente. Mentre una delle maggiori difficoltà dell’insegnante di storia (e di chi scrive i manuali di storia, come ci ha ricordato Valentina Colombi) è proprio quella di mostrare che “il passato è terra straniera”.

Quali sarebbero in definitiva i nuovi compiti per l’insegnante di storia, dal fact cheking alla media literacy? Come abbiamo visto, in realtà nella cassetta degli attrezzi dello “storico del XXI secolo” – capace di lavorare su tutte le dimensioni della conoscenza, della rappresentazione e dell’interpretazione del passato – ci sono già strumenti fondamentali che rispondono alle nuove esigenze e alle nuove urgenze educative, senza bisogno di scomodare nuove educazioni.

 

Per una nuova funzione civile della storia

Se intendiamo l’insegnamento della storia al servizio della formazione di una coscienza storica consapevole, è senz’altro una “palestra di cittadinanza”, non una forma di pedagogia civile. Che fine fa quindi quel rapporto originario tra storia, scuola ed educazione del cittadino, che dal XIX era inteso al servizio della costruzione della comunità e dell’economia della nazione?

Come abbiamo anticipato, tra anni Settanta e Novanta del Novecento, l’agenda delle politiche educative, nazionali e internazionali, per rispondere alle nuove sfide, riorienta le politiche educative verso le competenze chiave per lo sviluppo di una “società della conoscenza” fondata sulle scienze, sulle tecnologie, sull’informatica, ecc. In questi anni emerge il ruolo dell’OCSE nel fornire servizi di monitoraggio e valutazione del rapporto tra input e output degli investimenti nell’educazione, con la diffusione di pratiche di benchmarking, sino al sistema globale di riferimento costituito dal PISA (da cui deriva l’INVALSI).

Dagli anni Novanta in poi l’Unione Europea – diventata l’arena di riferimento principale per la cooperazione europea[12] – sviluppa le sue politiche educative (adotta il sistema PISA, sviluppa un sistema di equiparazione e confronto dei titoli di studio europeo, finanzia vari programmi educativi e di sostegno alla ricerca). Non potendo intervenire direttamente nell’ambito delle politiche della storia e delle politiche di educazione alla cittadinanza, gelosamente nelle mani degli Stati nazionali, promuove una nuova politica ella memoria fondata sull’Olocausto come perno di una nuova “religione civile”, adatta a superare le memorie divise e divisive della Seconda guerra mondiale. Da allora, dal 2000, la giornata del 27 gennaio, lanciata dal Parlamento europeo, è diventata il paradigma di riferimento delle politiche memoriale mondiali.[13] Si tratta infatti di una narrazione fortissima, che riesce a tenere uniti non solo i paesi dell’Europa dell’est e dell’ovest, ma promuove la commemorazione degli eroi più innocenti che il passato possa offrire: le “vittime”. La storia dell’umanità viene periodizzata intorno ad una narrazione di caduta e rinascita dopo il male assoluto dell’Olocausto. Onorare le vittime e condannare i carnefici diventa un esercizio di auto-educazione individuale. Andando oltre il significato stesso del “never again” all’origine dell’ONU, della dichiarazione universale dei diritti umani e dello stesso impegno dell’UNESCO, con questo tipo di commemorazione si utilizza “una certa rappresentazione di un evento passato perché ottenga un certo impatto sull’immaginario collettivo”, perché susciti un “certo tipo di emozioni” secondo un “certo tipo di effetto educativo”[14]. Il nuovo “never again” fa diventare l’Olocausto una memoria chiusa, fissa, congelata per sempre (eternalizzata, direbbe Stefano Pasta).

Ma può funzionare una pedagogia civile che pretende di educare attraverso una “politica del trauma”?[15] In realtà, educare a partire dal trauma e dalle emozioni non porta necessariamente ad una trasformazione della coscienza individuale. Non porta necessariamente ad una cittadinanza attiva, né tantomeno rispettosa dei diritti umani. Bombardare gli studenti sui traumi collettivi può produrre anche effetti imprevisti ed emozioni impreviste (dal senso di colpa al disagio, dal risentimento alla desensibilizzazione). Se si educa a partire dall’empatia, dalla compassione, dall’emozione, si corrono rischi enormi, perché anche le emozioni sono storiche, e ovunque possono essere messe al servizio di qualche causa, anche del nazionalismo più estremo. Del resto, due decenni di commemorazioni sulle vittime dell’Olocausto non pare abbiano sortito l’effetto di bloccare le ondate xenofobe, l’antisemitismo, ecc. Altra cosa è la capacità di pensare storicamente, che ci insegna a spostare il tema della responsabilità dal terreno della colpa individuale (vittime/carnefici, vittime/liberatori) a quello della responsabilità storica collettiva (la complessità delle cause). Come scrive Bekerman alla figlia, prima del viaggio “educativo” ad Auschwitz con la scuola, la storia insegna che «non c’è immunizzazione possibile contro il male, e in certe circostanze, in certe date circostanze, tutti possono essere nazisti». [16]

Per brevità, e per tirare le fila del discorso fatto sin qui, scontando anche un certo grado di forzatura e di semplificazione, potremmo dire che, all’interno di un processo generale di crisi dell’equilibrio tradizionale tra saperi disciplinari e scuola (ruolo, mediazione didattica, gerarchie, ecc.), emergono alcune linee di tendenza europee, compatibili con varie politiche nazionali. Le politiche educative dell’UE e il nuovo “romanzo eurocentrico”, costituiscono una cornice comune per una nuova pedagogia civile, che propone una certa gerarchia delle rilevanze per l’apprendimento e per la cittadinanza, per il lavoratore e per il cittadino ideale, che punta NON sull’appartenenza ad una comunità, ma sulle responsabilità del singolo (individualismo metodologico).

Nel frattempo, come molti hanno rilevato, si moltiplicano patrie e patrioti, gelosi custodi dei propri confini identitari, sospettosi e diffidenti l’uno contro l’altro, attenti a non farsi contaminare dai diversi. Quindi che vogliamo fare? Come si può, al contrario, riconciliare le politiche educative con un’educazione alla cittadinanza, una pedagogia civile, come costruzione di comunità aperte e inclusive?

Un’idea potrebbe essere quella proposta da Rüsen:[17] adottare nell’insegnamento il punto di vista dell’umanità intera, intendendo l’umanità come l’insieme delle culture, delle civiltà, delle prospettive che la storia ci aiuta a conoscere. Nel XXI secolo un umanesimo ripensato nel contesto delle nuove sfide globali può essere il fondamento di una didattica della storia che aiuti a riconoscere in modo cross-culturale criteri di verità, senza abbandonare (anzi sviluppando) la potenza intellettuale del pensiero storico. Questo punto di vista ci aiuterebbe a riflettere sulle frequenti “guerre sul passato” che attraversano gli spazi pubblici. Su questo tema ha lavorato recentemente anche l’UNESCO,[18] raccomandando che ogni comunità, ogni generazione, possa contribuire – pubblicamente e democraticamente – a decidere cosa “commemorare” del passato e perché. Se il rapporto di una comunità col passato è sempre stata una questione di interesse pubblico, insomma, si tratta di individuare politiche della storia che favoriscano la comprensione reciproca, piuttosto che rinsaldare differenze e confini identitari.

In breve, l’insegnante di storia dovrebbe essere capace di fare la critica delle memorie pubbliche[19] e allo stesso tempo fare scelte didattiche efficaci, a partire dall’orizzonte comune dell’umanità: non rinunciare mai ai grandi quadri di storia mondiale, agli “scaffali”, alle grandi coordinate che forniscono orientamento nello spazio e nel tempo dall’antichità ai giorni nostri; articolare percorsi per temi e problemi che abbiano significato guardati dal presente (scelta delle rilevanze); insegnare a pensare storicamente conducendo gli studenti nel “laboratorio dello storico del XXI secolo”.

In Italia, però, per fare tutto questo l’insegnante di storia non è formato bene e, soprattutto, spesso rimane da solo. Conosciamo tutti i pochi maestri e soggetti che se ne occupano con generosità da anni, tra cui il Parri. Ma la via maestra sarebbe quella di creare finalmente un circolo virtuoso tra storici di professione, ricerca didattica e insegnanti: un riferimento organizzato, riconosciuto e permanente, che sostenga la ricerca in didattica della storia e la formazione degli insegnanti di storia. Questo passaggio è ineludibile e mi auguro che anche le Associazioni degli storici si muovano in questa direzione.

In nessun caso, però, l’insegnamento della storia dovrebbe essere (solo) al “servizio” di esigenze (pure legittime) che provengono dall’esterno della scuola. Dovrebbe misurarsi con queste esigenze, ma lasciare che la coscienza storica degli studenti si formi in modo critico e consapevole, al “servizio” dei loro sogni e dei loro bisogni. Questa sarebbe una vera “palestra di cittadinanza”.

 


Note:

[1] R. Maragliano, Educazione, in A. Abruzzese, I grandi temi del secolo, , UTET grandi opere, Torino 2014, pp. 533-534.

[2] Intervista ad Antonella Salomoni, 29 agosto 2022, Insegnamento della storia in Europa e dell’Europa di fronte alle urgenze del presente.

[3]  L. Cajani, S. Lässig, M. Repoussi (a cura di),The Palgrave Handbook of Conflict and History Education in the Post-Cold War Era, , Palgrave Macmillan, 2019

[4] Intervista a Stefano Pasta, 30 agosto 2022, Usi pubblici della storia, consumi culturali, banalizzazioni, fake news.

[5] C. Villani, La storia come Powerful Knowledge. Per uscire dal dibattito fra competenze e conoscenze, http://www.historialudens.it/didattica-della-storia/436-la-storia-come-powerful-knowledge-per-uscire-dal-dibattito-fra-competenze-e-conoscenze.html, 25 maggio 2021.

[6] M. Angvik, B. von Borries, Körber-Stiftung (a cura di), Youth and history: A comparative European survey on historical consciousness and political attitudes among adolescents,  Hamburg 1997

[7] F. Jullien, L’identità culturale non esiste, Einaudi, Torino 2018.

[8] Su cfr. gli articoli di Paolo Ceccoli su Novecento.org (https://www.novecento.org/author/paolo-ceccoli/) e L. Boschetti, Pensare storicamente: sei capacità sulle quali lavorare in classe (in corso di pubblicazione)

[9] “Il fatto è che porre un problema significa esattamente cominciare e finire ogni storia. Senza problemi, niente storia. Solo narrazioni, compilazioni. Ora ricordate, se non ho parlato di «scienza» della storia, ho parlato di «studio scientificamente condotto». Queste due parole non erano state pronunziate per parata. «Scientificamente condotto»: questa formula implica due operazioni, le stesse che si trovano alla base d’ogni lavoro scientifico moderno: porre problemi e formulare ipotesi”. Cfr. L. Febvre, Problemi di metodo storico, Einaudi, Torino 1976, pp. 139-154.

[10] Mentre le scuole di didattica di area anglo-americana si occupano soprattutto della dimensione scientifico-cognitiva della disciplina storica (evidenza empirica, metodo di ricerca, astrazione, coerenza teorica e argomentativa), la scuola tedesca parte dal concetto di coscienza storica, che tiene insieme sia la dimensione cognitiva, sia la dimensione estetico-narrativa, sia la dimensione pratico-orientativa della conoscenza storica.

[11] C. Villani, Insegnamento della storia e usi del passato: come educare la coscienza storica degli studenti (in corso di pubblicazione)

[12] Cfr. K. K. Patel, Project Europe: a history. Cambridge University Press, 2020. Efficacissimo dal punto di vista didattico, il libro di Patel racconta il processo di integrazione come la storia di un progetto, dei suoi limiti e problemi.

[13] La giornata mondiale per ricordare le vittime dell’Olocausto proclamata dall’ONU nel 2005 è successiva alle iniziative europee, culminate nella conferenza intergovernativa di Stoccolma del 2000, seguita poco dopo da una risoluzione del Parlamento Europeo, che incoraggia tutti i paesi europei ad adottare il 27 gennaio come Giorno della memoria.

[14] M. Zembylas, The Politics of Trauma in Education, Palgrave, 2008, p. 37.

[15] Zembylas, 2008.

[16] Z. Bekerman, Foreword, in Zembylas, 2008, pp. ix-xiv.

[17] J. Rüsen, Sulla formazione della coscienza storica. Fondamenti di una didattica umanistica della storia, in ”Dimensioni e Problemi della ricerca storica“, n.1/2021.

[18] https://www.ohchr.org/EN/Issues/CulturalRights/Pages/SRCulturalRightsIndex.aspx, UN HUMAN RIGHTS OFFICE OF THE HIGH COMMISSIONER – SPECIAL MANDATE ON CULTURAL RIGHTS [ultimo accesso 7 febbraio 2022]. Cfr. in particolare i Reports: The writing and teaching of history (2013), Memorialization processes in post-conflict and divided societies (2014), The importance of public spaces for the exercise of cultural rights (2019).

[19] Per fare questo si può portare in classe il laboratorio proposto da Antonella Ferraris e Nadia Olivieri durante la Summer school 2022 e intitolato Le giornate memoriali in Europa: Italia e Francia a confronto.

Dati articolo

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Titolo: Oltre il Novecento? Scuola, storia e cittadinanza oggi
DOI: 10.52056/9791254693872/03
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Numero della rivista: n.19, giugno 2023
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Oltre il Novecento? Scuola, storia e cittadinanza oggi, in Novecento.org, n. 19, giugno 2023. DOI: 10.52056/9791254693872/03

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