La Resistenza delle donne
Copertina del libro, dal sito www.einaudi.it
Benedetta Tobagi
La Resistenza delle donne
Einaudi, Torino, 2022, pp. 376.
«Il pauroso incubo non esiste più, ma io sono infinitamente malcontenta e triste di una tristezza fonda e inspiegabile». Con queste parole, all’indomani della vittoria sul nazifascismo e del ritorno alla libertà, l’infermiera Maria Antonietta Moro esprimeva un sentimento apparentemente inspiegabile, considerando le sofferenze patite durante gli anni della guerra e dell’occupazione tedesca. Un’altra famosa partigiana, Marisa Ombra, spiegava con parole ancora più nette la sensazione di una perdita, comune a tante donne che avevano partecipato alla Resistenza: «Finiva per noi ragazze la trasgressione, la nostra vita non sarebbe mai più stata straordinaria».[1]
La Resistenza delle donne
Si potrebbe partire dai capitoli conclusivi di questo importante volume di Benedetta Tobagi, La Resistenza delle donne), per impostare una riflessione con gli studenti e le studentesse di oggi, per far capire loro che le decine di migliaia di donne che presero parte (non solo come staffette) alla lotta contro il nazifascismo nel biennio 1943-1945 lo fecero sì per liberare l’Italia dalla dittatura fascista e dagli invasori tedeschi, ma anche, e soprattutto, per liberare se stesse da un plurisecolare dominio maschile e patriarcale. Per immaginare quanto possa essere stato straniante e doloroso per la maggior parte delle partigiane il ritorno alla normalità, basterebbe scorrere le tante fotografie delle sfilate nelle settimane che seguirono al 25 aprile nelle diverse città e province liberate, a cominciare dalla grande parata di Milano del 6 maggio. Di donne se ne vedranno ben poche: «Tu non vieni sennò ti prendiamo a calci in culo! La gente non sa cosa hai fatto in mezzo a noi e noi dobbiamo qualificarci con estrema serietà»[2], si sentì dire la partigiana garibaldina, nome di battaglia Trottolina, che in seguito avrebbe condiviso tali decisioni: «Mamma mia, per fortuna non ero andata anch’io! La gente diceva che erano delle puttane. Io non ho più nessun pregiudizio adesso, ma allora ne avevo. E i compagni hanno fatto bene a non farci sfilare».[3]
E così, pur avendo preso parte alla Resistenza al pari dei loro compagni uomini, migliaia di donne, tornate al loro ruolo di figlie, mogli e madri, per parecchio tempo non avrebbero più parlato di quei mesi trascorsi nelle formazioni partigiane, a combattere nelle città e sulle montagne, sparando o consegnando importanti dispacci e armi, soffrendo il freddo, la fame, le violenze quotidiane, nascondendo i partigiani, curandoli quando ne avevano bisogno. Poi, finalmente, le storiche cominciarono a chiedere alle donne di raccontare ciò che avevano vissuto.[4]
Una storia, tante storie
Benedetta Tobagi offre un insieme di storie che colpisce e avvince il lettore, racconta le vicende di decine e decine di donne di ogni estrazione sociale, ricostruisce la fitta trama delle loro gesta, del loro coraggio, attingendo all’ingente patrimonio di interviste realizzate nel corso di oltre quarant’anni e di una storiografia ormai consolidata. L’Autrice si è avvalsa della competenza di studiosi che lavorano da anni negli archivi degli istituti storici della rete Ferruccio Parri, in particolare dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza. Ciò che, in particolare, caratterizza e valorizza il volume, è il ricco apparato iconografico, con decine di istantanee di partigiane sole o in gruppo, che ci comunicano dietro a un sorriso o a un’espressione il senso di libertà, di appartenenza, di solidarietà con altre donne o con gli uomini dei reparti in cui combattevano. C’è una foto quasi irriverente, che ritrae tre donne sorridenti, in mezzo a un campo, due armate di mitra e, quella in mezzo, “armata” di mattarello e pasta sfoglia già stirata, quasi a dire “siamo tutte insieme e anche di più”, oltre gli stereotipi, libere di imbracciare le armi e cucinare al tempo stesso. Una storia per immagini che la Tobagi utilizza sapientemente per costruire una narrazione appassionata e ragionata, soffermandosi sui volti, sui gesti, sulle espressioni di quelle partigiane che avevano deciso di raggiungere gli uomini per combattere nazisti e fascisti oppressori.
Occorre rammentare alle nuove generazioni che la scelta di combattere contro il nazifascismo fu per le donne un atto di pura generosità, scevro da obblighi o ricatti.[5] La scelta di combattere nella guerra partigiana coincideva con una ritrovata consapevolezza di sé e del proprio valore. «Libertà e responsabilità – affermava Marisa Ombra – sono stati i sentimenti più forti che mi hanno accompagnata lungo tutto il periodo della Resistenza».[6]
Nella storia di ciascuna donna contava anche l’aspetto fisico. Alcune utilizzavano la propria fisicità come un’arma di potere, altre sperimentavano per la prima volta, nel pieno della lotta armata, l’uso di trucchi e belletti: «L’unica volta che ho messo il rossetto in vita mia è stato per mettere una bomba», ricordava con un certo divertimento Teresa Mattei, nome di battaglia Chicchi, che sarebbe poi stata la deputata più giovane eletta all’Assemblea Costituente il 2 giugno del 1946. I nazisti, del resto, le partigiane se le rappresentavano sempre vestite da straccione, da montanare. Olema Righi raccontava che con le forbici si era «fatta una frangetta, e rossetto, e pittura, una faccia da puttanella», indossando un vestitino pretenzioso e scarpe con 12 centimetri di tacco. Poi chilometri con la bici e con il freddo pungente che le farà buscare una enterite. Questa era la Resistenza, ma anche altro.
La sorte di molte donne che parteciparono alla Resistenza fu inevitabilmente segnata da violenze e torture, in particolare dagli stupri, modalità di dominio maschile e vigliacco, da sempre utilizzato nelle guerre del passato e del presente.[7] Poche ebbero giustizia, all’indomani della fine della guerra. Fu anche così le donne capirono che lì cominciava un’altra battaglia, molto più dura da combattere, contro interessi e pregiudizi atavici.
Non mancano poi, nel libro di Tobagi, anche le donne che scelsero di stare con i fascisti e con i tedeschi:[8] «le spie erano il terrore dei partigiani. Ne avevano motivo, purtroppo», ricordava Teresa Vergalli. Donne che tradivano per soldi, ma anche per passioni extraconiugali, delatrici per convenienza o per motivazioni personali.
Uno spunto per i docenti
Il libro di Benedetta Tobagi può essere utilmente letto nella sua triplice valenza didattica e formativa di lavoro sulle fonti storiografiche, memorialistiche e fotografiche. Roland Barthes, nel suo ultimo saggio, ha scritto:
Se una foto mi piace, se mi turba, io v’indugio sopra. Che cosa faccio per tutto il tempo che me ne sto davanti a lei? La guardo, la scruto, come se volessi saperne di più sulla cosa o sulla persona che essa ritrae […] Se i miei sforzi sono dolorosi, se sono angosciato, è perché talora sono vicino al nocciolo, è perché ci sono: nella tale foto, io credo di scorgere i lineamenti della verità.[9]
Purtroppo, per molto tempo, la fotografia è stata ancella della storia, nel senso che è servita a illustrare una narrazione basata sull’unicità del testo scritto. Più di recente, alla fotografia è stata riconosciuta la funzione di “fonte storica”, alla pari di quella scritta. Inoltre, come ha osservato Giovanni De Luna, l’immagine fotografica ricopre un vero e proprio ruolo di agente di storia, nel senso di suscitare, in chi la vede, reazioni di ogni tipo (sociale, morale o politico) e di riuscire in alcuni casi a orientare i comportamenti collettivi.[10] Per quanto concerne le fotografie che immortalano le gesta dei partigiani, sappiamo che la maggior parte di esse, per motivi abbastanza evidenti, furono scattate nei giorni (e qualche volta mesi) successivi alla fine della guerra di Liberazione, sui monti o tra le vie cittadine. La celebre fotografia delle tre partigiane nelle strade di Brera, a Milano, nei giorni della Liberazione è una fotografia posata. Di quella immagine iconica ne girarono diverse versioni. In alcuni casi è tagliata in modo da escludere i personaggi maschili sullo sfondo. La foto è di Valentino, detto Tino Petrelli (1922-2001) e ritrae tre donne che imbracciano le armi in modo casuale. La versione più importante però è la matrice di tutte queste riduzioni, una foto più larga, pubblicata da Adolfo Mignemi e presente nell’archivio Olycom, che ha ereditato i fondi fotografici di Publifoto. In questa versione compare anche un altro personaggio più di sfondo, un uomo con un soprabito di pelle che segue da presso il gruppo e impugna una pistola. Su questa foto vi sono interessanti letture politiche ed estetiche, che ricostruiscono ruoli di genere, classi sociali di appartenenza, significati politici[11]. In generale, su ciascuna delle immagini proposte dalla Tobagi si possono avviare discussioni con gli studenti, riguardo il tipo di scatto e il punto di vista del fotografo, gli sguardi e le espressioni delle partigiane e dei partigiani ritratti, il rapporto tra primi piani e sfondo, contestualizzando storicamente quanto avveniva in quei mesi nei vari territori in cui operavano le brigate partigiane.
Una lettura per studenti e studentesse
Il consiglio alla lettura è però rivolto anche ai giovani e alle giovani, che dovrebbero prima leggerlo tutto di un fiato il volume di Benedetta Tobagi, e poi scorrere nuovamente, con calma, quei capitoli che toccano maggiormente le loro corde. Quindi, dedicare un po’ del proprio tempo a scoprire le grandi battaglie, sul piano dei diritti civili, economici e sociali, che alcune di quelle coraggiose partigiane hanno poi combattuto negli anni della lunga Ricostruzione del nostro Paese. Donne come Teresa Noce, Maria Federici, Gisella Floreanini ed altre che, dopo aver lottato contro il nazifascismo, contribuirono a scrivere i principi fondamentali della Costituzione Italiana, e ad attuare concretamente i diritti di libertà, di uguaglianza e i doveri di solidarietà politica, economica e sociale.
Note:
[1] B. Tobagi, La Resistenza delle donne, Einaudi, Torino 2022, p.293.
[2] Tobagi, 2022, p. 296.
[3] Tobagi, 2022, p. 296.
[4] Solo nel corso degli anni ’70 ha inizio un nuovo filone storiografico, con il volume La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, a cura di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, uscito nel 1976, nel pieno delle lotte femministe. Poi, nei decenni seguenti, con i saggi di Anna Bravo, Bianca Guidetti Serra, Marina Addis Saba e tante altre storiche ed ex partigiane, si sarebbe finalmente affrontata la questione del ruolo e della partecipazione delle donne, ossia della specificità femminile nella lotta al nazifascismo, attraverso una attenta disamina degli eventi, alla ricostruzione del delicato rapporto tra storiografia e memorialistica.
[5] Durante i mesi dell’occupazione nazista, in seguito al bando del 15 febbraio 1944, i più giovani, a differenza degli anziani, «evitano cinema, locali, case di tolleranza. Sono tutti posti soggetti a improvvise retate nazifasciste, con i rischi di vedersi inquadrati nell’esercito di Graziani oppure nelle varie organizzazioni schiaviste dei nazisti. O magari deportati in Germania» (M. Cuzzi, Seicento giorni di terrore a Milano. Vita quotidiana ai tempi di Salò, Neri Pozza editore, 2022, p.99).
[6] Tobagi, 2022, p. 64.
[7] Si pensi a ciò che sta accadendo da quasi un anno alle donne ucraine. Molte di loro, stuprate e messe in cinta dai soldati russi, fuggono in Polonia per abortire ma, a causa delle forti restrizioni all’aborto del governo di destra polacco, sono costrette a interrompere la gravidanza indesiderata in modo semi clandestino e ad assumere farmaci senza le cure dei medici.
[8] Sull’argomento, si legga il bel volume di Roberta Cairoli, Dalla parte del nemico. Ausiliarie, delatrici e spie nella repubblica sociale italiana (1943-1945), Mimesis, 2013. Una fonte storico giudiziaria fondamentale per studiare il collaborazionismo e le violenze di guerra riconducibili alla RSI è data dalle sentenze e dalla documentazione delle Corti d’Assise Straordinarie (CAS) e delle Sezioni speciali di Corte d’Assise, attive tra il 1945 e il 1947. Quei fascicoli sono determinanti per la ricostruzione fattuale dei crimini del fascismo repubblichino e l’analisi della loro rappresentazione pubblica nell’immediato dopoguerra. La digitalizzazione dei documenti è disponibile sul sito dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, al link https://www.straginazifasciste.it/cas/ Se si inserisce nella stringa di ricerca per tipologia la parola “delazioni”, ad esempio, si potranno visionare oltre milletrecento processi per la fattispecie di reato.
[9] R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980, pp. 99; 101.
[10] Per approfondire il rapporto tra storia e fotografia, si vedano: G. De Luna, Prefazione all’opera, in Storia del Novecento. Le fotografie e la storia, a cura di Giovanni De Luna, Gabriele D’Autilia e Luca Criscenti, vol. I Il potere da Giolitti a Mussolini (1900-1945), Einaudi, Torino 2005; G. D’Autilia, L’indizio e la prova: la storia nella fotografia, La Nuova Italia, Firenze Scandicci 2001; P. Burke, Testimoni oculari: il significato storico delle immagini, Carocci, Roma 2002; A. Mignemi, Lo sguardo e l’immagine. La fotografia come documento storico, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Come spiega Gabriele D’Autilia, partire dalla fonte significa accettare epistemologicamente la radicale ambiguità della fotografia, e iniziare da questa certezza per intraprendere un percorso circolare che tenga conto di tutti gli approcci metodologici sperimentati anche da altre discipline, individuare la fonte, capirne il linguaggio, leggerne l’intenzionalità del produttore e i condizionamenti culturali che l’hanno prodotta (la tradizione iconografica), studiare la storia della sua ricezione, della sua trasmissione (il rapporto con i testi), della sua conservazione, e poi tornare alla fonte e leggerla con lo sguardo dello storico. Bisogna poi distinguere tra fotografia pubblica e fotografia privata. Si veda l’articolo di M. Stefanori, Fotografia e storia, in OS Officina della storia, del 30 marzo 2013, link https://www.officinadellastoria.eu/it/2013/03/30/fotografia-e-storia/
[11] E. Menduni, Partigiane e figuranti. Una foto di Tino Petrelli nella Milano della Liberazione, in AAVV., a cura di E. Menduni, L. Marmo,, Fotografia e culture visuali del XXI secolo, TrePress, Roma 2018.