Resistenza e solidarietà: spunti di riflessione dall’11° Convegno ENRS
Panoramica del monumento nella valle de los caidos e dei suoi dintorni.
Foto di Jorge Díaz Bes – Opera propria, CC BY-SA 3.0, Collegamento
Abstract
L’importanza del ruolo della resistenza e della solidarietà nel contesto dei conflitti del XX secolo e contemporanei, di fronte alle dittature e ai regimi autoritari del secolo scorso o tuttora presenti, è stata l’argomento dell’undicesimo symposium ENRS. L’idea alla base del symposium è la convinzione che sia necessario un dialogo sulla storia del secolo scorso, tenendo conto delle diverse sensibilità, esperienze e interpretazioni esistenti. Al centro della discussione ci sono state le espressioni di solidarietà meno evidenti nei vari contesti della cultura della memoria, delle arti, dell’economia, del diritto, dell’educazione, del giornalismo e dell’attivismo civico.
L’articolo riflette su quali siano le buone pratiche che rendono efficaci queste espressioni di resistenza e solidarietà, cercando di fornire ai docenti spunti di riflessione per insegnare questi aspetti della storia recente e per contribuire con la loro didattica al processo di peace building e peace maintenance: visita a memoriali, allestimento di mostre, raccolta e rielaborazione di testimonianze, debate fra alunni di paesi diversi con passati diversi, riflessione sui regimi autoritari nei vari stati europei, sono alcuni degli strumenti utili per costruire una cultura di dialogo e per stimolare una riflessione sui valori democratici.
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The importance of the role of resistance and solidarity in the context of 20th century and contemporary conflicts, in the face of dictatorships and authoritarian regimes of the last century or still present, was the topic of the 11th ENRS symposium. The idea behind the symposium is the belief that a dialogue on the history of the last century is needed, taking into account the different sensitivities, experiences and interpretations that exist. At the center of the discussion were the less obvious expressions of solidarity in the various contexts of memory culture, the arts, business, law, education, journalism and civic activism.
The article reflects on what are the good practices that make these expressions of resistance and solidarity effective, seeking to provide teachers with insights for teaching these aspects of recent history and for contributing their teaching to the process of peace building and peace maintenance: visiting memorials, setting up exhibitions, collecting and reworking testimonies, debating among pupils from different countries with different pasts, and reflecting on authoritarian regimes in various European states are some of the useful tools for building a culture of dialogue and stimulating reflection on democratic values.
L’European Network for Remembrance and Solidariety
Come già spiegato nell’articolo sul Symposium del 2022,[1] L’European Network Remembrance and Solidarity (ENRS)[2] è un’entità internazionale creata nel 2005 dai Ministri della cultura di Germania, Ungheria, Polonia e Slovacchia ai quali, nel 2014, si è aggiunta la Romania. Al network appartengono anche Austria, Repubblica Ceca, Georgia e Albania in qualità di paesi osservatori. L’ENRS collabora anche con partner istituzionali in altri 23 paesi europei.
Il proposito dell’ENRS, guidato dallo spirito di fiducia reciproca, è promuovere il dialogo storia del XX secolo e sostenere lo sviluppo di una comune cultura europea della memoria, riconducendo le vicende delle singole nazioni all’interno di una storia europea collettiva, che favorisca lo sviluppo di una condivisa cultura della memoria. I principali ambiti di riflessione riguardano i regimi dittatoriali, le guerre, la resistenza all’oppressione, la solidarietà. Al fine di costruire relazioni migliori tra le società europee attraverso la discussione su passato continentale comune, ENRS organizza una vasta gamma di progetti, da mostre e pubblicazioni a workshop, visite di studio e conferenze. Fra di esse c’è European Remembrace Symposium, che si tiene ogni anno.
Il primo Symposium è stato organizzato a Danzica nel 2012. Le edizioni successive si sono svolte a Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Bruxelles, Bucarest, Parigi, Tallinn, Dublino e Barcellona.
SYMPOSIM 2023: RESISTENZA E SOLIDARIETà
Quest’anno l’undicesima edizione dell’European Remembrance Symposium si è svolta a Barcellona, insieme alla sesta edizione di Taking Stock of European Memory Policies. Il titolo dell’evento era Resistance and solidariety through memory e ha riunito un centinaio di rappresentanti delle istituzioni e delle organizzazioni attive nel campo della storia e della memoria del Novecento. Alla base di questo incontro congiunto c’era la convinzione che sia necessario un dialogo sulla storia del secolo scorso, che tenga conto delle diverse sensibilità, esperienze e interpretazioni esistenti. Per tre giorni si è dunque discusso dell’importanza e del ruolo della resistenza e della solidarietà nel contesto dei conflitti passati e contemporanei.
Partner dell’ENRS sono stati l’EUROM – European Observatory on Memories, la Fundació Solidaritat UB, l’Universitat de Barcelona, l’Ústav pamäti národa, il Consulado General de la Republica de Polonia en Barcelona, l’Honorary Consulate of the Czech Republic in Barcelona.
I QUESITI AL CENTRO DEL SYMPOSIUM
L’undicesimo European Remembrance Symposium ha l’obiettivo di rivedere le pratiche ricorrenti, i lasciti e i ricordi di solidarietà e resistenza alla perdita della libertà con un’enfasi speciale sul ricordo. Quali forme di solidarietà e resistenza vivono nella memoria sociale? Quali forme sono state ricordate non correttamente o dimenticate? Fino a che punto la memoria e le sue pratiche possono essere forme di solidarietà? Quali sono le implicazioni etiche della pratica della solidarietà e della resistenza emerse durante la storia del XX secolo? Quali le probabili conseguenze a lungo termine? Quali le espressioni di solidarietà meno evidenti nei vari contesti della cultura della memoria, delle arti, dell’economia, del diritto, dell’educazione, del giornalismo e dell’attivismo civico, e quali le buone pratiche che rendono efficaci queste espressioni? E, al contrario, dove sono i limiti etici e sociali della solidarietà, e quali forme di resistenza non sono state efficaci e capaci di contrastare ciò a cui hanno resistito? Quali sono gli esempi storici di solidarietà che riflettono tutti quei valori democratici che devono essere urgentemente rafforzati nel contesto delle sfide che le democrazie del XXI secolo devono affrontare, tra cui l’attuale aggressione russa all’Ucraina, la crisi energetica e il problema dei rifugiati?
A tutte queste domande il Symposium ha cercato di dare una risposta, in tre intensi giorni di dibattiti, tavole rotonde e turbo presentazioni che hanno offerto ai partecipanti l’opportunità di presentare i loro progetti in corso e di trovare nuovi partner, nonché di riflettere sullo stato della cultura europea della memoria.
ANTICONFORMISMO E ATOMIZZAZIONE
La storia delle dittature e dei regimi autoritari del XX secolo può anche essere intesa come una storia di resistenza e anticonformismo. Nei regimi (post)totalitari e autoritari c’è sempre stato chi non è stato indifferente all’imposizione di restrizioni alle proprie o altrui libertà individuali –di espressione, religione, convinzioni politiche, ecc. – e alle ingiustizie sociali e alle iniquità, e che per questo ha scelto una qualche forma di resistenza invece di essere semplice spettatore, indifferente o collaborazionista. Un numero crescente di ricerche negli ultimi anni ha attirato l’attenzione sui vari modelli di resistenza che sono emersi nei regimi repressivi, dalla resistenza passiva all’opposizione aperta, dalle strategie più segrete di opposizione culturale all’organizzazione dei movimenti sociali.
Le espressioni di resistenza, sostegno e solidarietà sono state varie e operate a più livelli – locale, nazionale e transnazionale – creando collegamenti tra diversi individui, gruppi sociali e organizzazioni, con l’obiettivo di fornire forme efficaci di resistenza alla perdita di libertà imposta da regimi non democratici. Tutto questo a discapito di uno degli strumenti più usati ed efficaci dei regimi autoritari, ovvero l’atomizzazione della società, la sua frammentazione in piccole unità separate e di per sé impotenti: in un simile contesto individui, gruppi sociali e organizzazioni prive di coesione comunitaria possono far valere i propri interessi con minore efficacia.
L’antidoto a questo, nel XX secolo, è stata la pratica della solidarietà, cioè l’assistenza altruistica, la responsabilità condivisa e l’attivismo civico tra diversi individui e gruppi sociali sulla base di valori condivisi. La pratica e le manifestazioni di solidarietà possono essere rintracciate in tutta la storia del XX secolo, che comprende due guerre mondiali, diverse guerre civili, il nazismo e l’Olocausto, il fascismo, il comunismo nelle sue versioni staliniste e di socialismo reale. Senza eccezioni, le forme di solidarietà sono state accompagnate da assassinii politici, torture, persecuzioni, repressione politica, migrazioni forzate ed emigrazione politica. Nonostante questo, azioni di solidarietà hanno unito individui e comunità in Europa e ne hanno plasmato la storia in modo significativo.
REAZIONE E PACIFISMO
Al tema della resistenza e solidarietà è stato dedicato il primo giorno del simposio, che è iniziato con una discussione fondamentale tra Carmen Magallón[3], Piotr Naimski[4] e Michael Žantovský[5], che ha moderato il panel. I partecipanti alla discussione hanno condiviso le loro intuizioni ed esperienze sulla resistenza e la solidarietà da prospettive molto diverse. Nel dibattito, Žantovský ha osservato che «la solidarietà funziona in modi, scale e direzioni diverse. Ma, così come la resistenza, obbliga alla giustizia. Dobbiamo resistere, anche se non siamo personalmente colpiti dal male». Naimski, che ha raccontato «avevo 18 anni nel ’68: ci sono differenti resistenze, diversi backgrounds perché variano le dittature a cui resistere», e ha rievocato la resistenza antisovietica in Polonia dagli scioperi degli operai di Poznan il 28 giugno 1956 al grido di «pane e libertà», a quelli del dicembre 1970 in varie città, come Danzica e Stettino, repressi dalla polizia con morti per le strade, a quelli del 1976 nelle fabbriche di Varsavia e di altre città, soffocati con la forza. «Questa volta decidemmo che bisognava reagire, non in modo violento ma a viso aperto, creando organizzazioni di difensori dei lavoratori. Bisognava creare un legame fra gli intellettuali e gli operai, raccogliere soldi, trovare avvocati etc. Il regime comunista rimase sorpreso da questo tipo di azioni, non sapeva come reagire e noi abbiamo vinto. Poi Carol Woytila è stato eletto Papa e la situazione è migliorata», ha ricordato. Poi ha concluso ammettendo che «la solidarietà non può essere mescolata con gli obblighi morali. Il ricordo è la base per far sì che le idee nobili diventino pratiche, anche attraverso l’imitazione e l’emulazione». Magallón ha osservato che «l’unica cosa che possiamo fare come donne per evitare la guerra è evitare di ripetere le parole e i comportamenti degli uomini al potere. Le armi non ci salveranno. Le armi non sono una soluzione». Luiza Iordache Cârstea – professoressa presso il Dipartimento di Storia Contemporanea all’Universidad Nacional de Educación a Distancia – ha infine aggiunto «La pace non è solo l’assenza della guerra, è un modo di vivere».
IL RUOLO DELLE DONNE
Nel suo intervento, Magallón ha anche raccontato «Quando sono arrivata all’università[6] ho trovato un clima molto impegnato nella trasformazione sociale, in particolare contro la dittatura franchista, nonché un luogo dove potevi anche approfondire la cultura per un mondo di convivenza e partecipazione». Ha poi citato il saggio Le tre ghinee di Virginia Woolf, che nasceva come risposta della Woolf stessa alla domanda posta da un avvocato, che per lettera le chiedeva «Cosa, secondo Lei, si deve fare per prevenire la guerra?». Virginia Woolf, all’epoca cinquantacinquenne e scrittrice affermata, non si limitò a liquidare l’avvocato con una risposta di tre righe, ma argomentò il suo pensiero in un intero libro che presto si tramutò in un saggio femminista. La lettera di risposta conteneva anche la richiesta di una somma di denaro da devolvere in beneficenza. Da quest’ultima, la scrittrice trasse spunto per le tre ghinee[7] che decise di devolvere simbolicamente alla causa. Per prevenire la guerra, afferma, bastano tre ghinee: la prima da devolvere al fondo per l’istruzione femminile, la seconda a quello per l’accesso delle donne alle libere professioni, e la terza a un’associazione femminile pacifista denominata La società delle estranee. In sostanza il pensiero di Woolf esprime l’idea che all’origine della guerra, e quindi della violenza, vi sia lo stesso meccanismo di base che producono il patriarcato e il fascismo per cui l’uomo è protagonista della vita pubblica e politica, mentre la donna è relegata alla sfera privata e familiare in un contesto di perenne alienazione. In conclusione, la scrittrice inglese lega a doppio nodo il concetto di femminismo con quello di pacifismo, anticipando tematiche che oggi sono più che mai attuali. Infatti, ha concluso Magallón, «while the European decision to send arms to Ukraine has been applauded, it is important for us to remember that arms will not save us».
MNEMONIC SOLIDARIETY: LA MEMORIA COME FORMA DI SOLIDARIETÀ E RESISTENZA
Il secondo giorno del simposio è iniziato con una tavola rotonda in cui si è cercato di rispondere alla domanda se la memoria possa essere un veicolo di resistenza e solidarietà. I relatori – ognuno dal punto di vista del proprio ambito di studi ma anche e soprattutto sulla base della propria provenienza geografica e del proprio diverso passato – hanno dimostrato come il ricordo possa essere in effetti una forma di resistenza, perché la solidarietà è nella coscienza e «non ha bisogno di nemici», come ha detto Ciżewska-Martyńska[8]. Jesús Alonso Carballès[9], il cui ultimo lavoro di ricerca si è concentrato sulla rappresentazione della memoria delle vittime della guerra e della violenza nello spazio urbano attraverso lo studio di commemorazioni, monumenti, luoghi della memoria, musei, ha dimostrato come le cerimonie in ricordo delle vittime del generale Franco durante la sua dittatura siano state una potente forma di resistenza, malgrado le proibizioni a celebrarle. Claudia-Florentina Dobre[10] si è concentrata sulla memoria del comunismo, ricordando le migliaia di feroci battaglie che hanno avuto luogo da un lato tra le persone e le organizzazioni che cercavano di ricordare i crimini dei sovietici e dei comunisti locali, e dall’altro trai comunisti che volevano insabbiarli. «La società promuove nello spazio pubblico un certo tipo di memoria. Ad esempio, la Romania durante la Seconda Guerra Mondiale, era fascista ed ha partecipato allo sterminio degli ebrei e degli zingari. Quando i comunisti hanno preso il potere, hanno perseguitato i fascisti; poi, dopo il 1989, sono stati visti positivamente tutti i ‘resistenti’ ai comunisti. Insomma ci è una sorta di metanarrazione imposta», ha affermato. Da questi due interventi si evince che le difficoltà per la libertà di espressione e di memoria della Spagna antifranchista e quelle del movimento dissidente dell’Europa centro-orientale degli anni Settanta e Ottanta, fatte le dovute differenze, presentano analogie nella lotta per la rivendicazione della libertà di dissenso.
Zsuzsanna Bögre[11] attraverso la sua ricerca basata su interviste a gente comune a cui erano stati chiesti ricordi personali, ha cercato poi di rispondere a quali siano le differenze e le somiglianze tra resistenza e resilienza nelle dittature e nell’autocrazia.
«Il ricordo è anche un’eccellente piattaforma su cui può crescere la solidarietà» ha infine riassunto Jan Rydel[12].
BILANCIO DI PROGETTI EUROPEI DI MEMORIA SULLA SOLIDARIETÀ
Il secondo panel della giornata è stato dedicato ai progetti. Bogdana Brylynska[13] ha raccontato le difficoltà di portare avanti, nel contesto dell’attuale guerra, progetti già iniziati che comprendevano nel network anche città russa e lituane, oltre che Lviv. Poi ha parlato di tre poeti ucraini, soffermandosi su Vasyl’ Stus (1938-1985), da mesi al centro della polemica politica poiché una monografia a lui dedicata è stata posta sotto sequestro dal tribunale di Kiev. Negli anni Sessanta, quando l’Ucraina faceva parte dell’Unione sovietica, Stus è stato considerato un dissidente dalle autorità di Mosca e per questo ha trascorso tredici anni stretto nelle maglie della repressione, divenendo il simbolo della dissidenza ucraina. Nell’Ucraina indipendente la sua figura è stata insignita del titolo di eroe dal presidente Juščenko, nel 2005. Brylynska ha osservato l’indubbia importanza della sua opera: «Le poesie scritte in condizioni di guerra raccontano più di qualsiasi altra storia che si possa ascoltare in quei tempi».
Sul tema del ricordo è intervenuto Erkki Tuomioja[14] che ha fornito una panoramica dei progetti di storia che agevolano la solidarietà e la memoria, sottolineando che «anche se i ricordi non sono risorse affidabili della storia, sono soggettivi e selettivi, devono essere raccolti e condivisi come diverse prospettive e intuizioni della storia comune».
Della contraffazione della memoria ha parlato Zsuzsanna Bögre, raccontando della sua esperienza di storia orale con persone che avevano partecipato all’insurrezione del 1956 a Budapest. Ha riferito di una donna che, nell’intervista, ha omesso di essere stata una prostituta e ha raccontato fatti e vicende sulla sua famiglia in realtà inesistente, nella convinzione che tale narrazione corrispondesse meglio all’idea astratta di “vera eroina”.
LA SOLIDARIETà E IL POTERE DELL’ARTE
L’ultima giornata del symposium è stata incentrata sul legame tra solidarietà e arte, nonché sull’arte come forma e veicolo di solidarietà, e ha esplorato le diverse prospettive e modalità della creazione artistica e il loro impatto sulle politiche di impegno sociale.
Piedad Solans[15] ha illustrato il progetto Testimonio, Resistencia, Reparación che riunisce artisti che usano la loro opera per attaccare l’ingiustizia del potere “un po’ come ha fatto Otto Dix nel Trittico della Guerra del 1928 o nel provocatorio I sette peccati capitali del 1933, in cui il pittore raffigura in primo piano una strega (avarizia) mentre porta in braccio l’invidia che sembra assomigliare a Hitler”. Solans ha presentato poi l’esposizione Waste Lands: tierras devastadas che, attraverso le opere di dieci artisti provenienti da Afghanistan, Algeria, Azerbaigian, Egitto, Iran, Marocco, Libano, Palestina, Emirati Arabi e Stati Uniti, affronta i paesaggi e gli ambienti urbani, sociali e archeologici di paesi distrutti e impoveriti dalle guerre, dalla speculazione e dalla voracità predatoria delle grandi compagnie petrolifere e del gas, dall’eredità post-coloniale, dal terrorismo e dalla violenza di Stato, nonché dalle lotte locali, politiche e religiose.
Della costruzione di un memoriale ha invece trattato l’architetto Tszwai So, che ha progettato il memoriale paneuropeo per le vittime del totalitarismo An Echo in Time in piazza Jean Rey a Bruxelles. È un normale spazio pubblico dove l’artista ha creato The messenger, un uomo con una valigia che attraversa la strada per portare le lettere dei deportati, scritte in varie lingue. Esse, che sono copie di documenti originali provenienti dal museo dell’Olocausto a Washington, sono messe sul pavimento della piazza. « Metterle per terra non è irrispettoso, – ha detto l’architetto – pensate alle pietre di inciampo o alle tombe nelle chiese».
Come sottolineato nel dibattito e come dimostrato dal concetto del memoriale di So, l’arte ha il potere di rendere presente qualcosa che non lo è più, di dare voce alle esperienze delle vittime, di trasmettere le loro parole a noi. L’arte ha una potente influenza sulla società, in cui non porta solo emozioni, ma anche conoscenze fattuali al servizio della commemorazione e della solidarietà. Ma l’arte ha anche servito i regimi totalitari ed è stata da loro manipolata.
LA GUERRA PER I MONUMENTI
L’argomento più discusso in questa sezione del symposium è stato il grande dibattito sui monumenti, anche a seguito della furia iconoclasta negli Usa e nell’Europa ex sovietica.
Negli Stati Uniti gli attacchi alle statue e ad altri simboli del retaggio coloniale e schiavista dell’Occidente non sono un fatto nuovo, ma con l’ultima ondata di proteste scatenatasi dopo l’uccisione di George Floyd nel 2020, la “guerra delle statue” negli USA ha assunto una dimensione più ampia, poiché ha coinvolto anche alcuni monumenti dedicati ai padri fondatori della nazione.
Da Black lives matter, si è arrivati poi anche a Red lives matter, per citare il titolo di un recente saggio di Mirco Carrattieri[16]. Dalla metà dello scorso decennio – e con un’impennata di intensità dopo l’attacco russo all’Ucraina – si sta combattendo una feroce guerra dei monumenti nei paesi ex-sovietici, da quelli baltici alla Polonia e all’Ucraina, dove statue e complessi scultorei che celebrano l’Armata Rossa, i soldati sovietici o i leader comunisti vengono abbattuti e talvolta anche distrutti. La transizione post-comunista ha conosciuto ampie ondate di iconoclastia, dando vita alla demolizione di massa conosciuta in Ucraina come leninopad.[17] La sorte dei monumenti sovietici è diversa da un paese all’altro per frequenza e radicalità di approccio, e si può distinguere tra rimozione, distruzione, vandalismo, modificazione, reinterpretazione, decadimento per negligenza e persino sovraiscrizione. Olha Honchar[18] ha raccontato «il mio museo non ha mai smesso il suo lavoro, anche durante questa guerra, e questa è la sua forma di resistenza. Quando vogliono salvare i monumenti li portano al nostro museo, dove, contestualizzati, possono avere una nuova vita che spieghi la loro storia e li faccia parlare, perché il passato non cambia, ma cambia il modo di interpretarlo». In merito alla collocazione dei monumenti abbattuti hanno poi dibattuto Matej Medvecký[19] e Marek Mutor[20]. «Fare parchi di monumenti non è utile per la public history perché questi luoghi non raggiungono la popolazione, ma solo coloro che vogliono andare a vederli, e che quindi sono già coinvolti nella persistenza della memoria» hanno concluso entrambi.
Tra la rimozione e la conservazione dei monumenti dedicati a personaggi storici controversi esiste comunque anche una via di mezzo: lasciare le statue contestate là dove sono, aggiungendo targhe, pannelli esplicativi o altri monumenti che aiutino gli osservatori a reinterpretare quelle opere e a collocarle in una prospettiva storica ed etico-politica diversa da quella originaria. A tale proposito, Paolo Pezzino[21] ha citato il Monumento della Vittoria a Bolzano, progettato dall’architetto fascista Piacentini sotto forma di arco trionfale caratterizzato da un ordine gigante di fasci littori ed eretto per volere di Mussolini nel 1928. Il nuovo allestimento, caratterizzato da neon esterni a circondare i fasci e arricchito all’interno dal Museo Bz ’18-’45, una città, un monumento, due dittature, ha risolto il problema di un’eredità ingombrante: ha liberato dall’ideologia un luogo fortemente caratterizzato in senso nazionalista, trasformandolo con spirito europeo in luogo della storia.
UN CASE STUDY: IL complesso monumentale di Valle de los Caídos
I mausolei, è stato sottolineato, possono essere anche divisi vi. A tal proposito, Solanas ha citato il complesso monumentale di Valle de los Caídos[22] che si trova nella valle di Cuelgamuros, nel comune di San Lorenzo de Escorial, a circa cinquanta chilometri da Madrid. Si tratta di una vasta area monumentale che culmina – nel senso letterale – in una cima rocciosa sovrastata da una croce gigantesca alta 105 metri, incombente su tutto e tutti. Il progetto, iniziato in piena guerra mondiale (1942), fu terminato e solennemente inaugurato il 1° aprile 1959 dal generalissimo Franco, che fino a 4 anni fa vi era sepolto. Il mausoleo contiene 37.847 resti di caduti nella guerra civile spagnola e durante la repressione del regime negli anni successivi. L’immensa e cupa basilica è anche il simbolo di una lacerazione mai ricomposta che la Spagna si porta dietro da quasi mezzo secolo: scavata nella roccia dai prigionieri politici ai lavori forzati, contiene i resti delle vittime del conflitto, di cui 12.410 non identificate. Centinaia restano poi le fosse comuni sparse nel paese, molte delle quali mai aperte. Con la legge della Memoria histórica del dicembre 2007 il Governo Zapatero aveva cercato di rispondere a un popolo che chiedeva di riconoscere e piangere i propri morti. Finalmente, nel giugno 2023, il governo spagnolo ha annunciato l’inizio delle operazioni di riesumazione di 128 corpi sepolti nel complesso monumentale di Valle de los Caídos. La riesumazione è l’ultimo sviluppo di una vicenda che è da anni al centro di un dibattito più ampio su come la Spagna abbia o meno fatto i conti con il proprio passato franchista. Il fatto che migliaia e migliaia di vittime del regime non siano state mai identificate, nonostante si trovino in un complesso così importante, è considerato, infatti, un esempio lampante di come la società spagnola sia per molti versi refrattaria a fare i conti con il periodo della dittatura. Tra l’altro, in Spagna solo nel novembre 2017 è stato inaugurato a Madrid, nel quartiere di Vicalvaro, un monumento alle Brigate Internazionali repubblicane. «In Spagna con i valori attuali è difficile identificare gli eroi del passato» ha amaramente concluso Solanas.
IMPARIAMO MAI ABBASTANZA DALLA STORIA?
La tavola rotonda conclusiva si è concentrata sulle conseguenze e le lezioni della storia del XX secolo, con al centro la domanda: Cosa ci insegna la storia della solidarietà e della resistenza del XX secolo nel contesto delle nuove sfide che dobbiamo affrontare nel XXI? Olha Honchar ha risposto «un regime totalitario finisce e inizia quello successivo. È importante mostrare la continuità del male». Géraldine Schwarz[23] ha invece affermato che «senza una memoria comune è difficile condividere un’identità europea comune». Poi ha aggiunto, con un’ombra di preoccupazione sul presente: «prima della Seconda guerra mondiale il ricordo del passato serviva solo a glorificare la nazione. Purtroppo in Spagna e in Italia la glorificazione dei loro dittatori sta crescendo enormemente e in Francia ci sono atteggiamenti filofascisti. E poi c’è Putin che vuole glorificare la Russia e far rivivere il passato. Ma questo confligge con la realtà attuale dell’Unione europea e per fortuna l’Ucraina sta resistendo». Il riferimento all’attualità e alla guerra in corso ha risuonato anche nelle parole di Marek Mutor[24] «l’uccisione della verità e della memoria è il primo passo verso la guerra. Non a caso Putin, prima dell’aggressione all’Ucraina, ha chiuso le associazioni memoriali».
CONCLUSIONI
Jan Rydel, nelle osservazioni conclusive, ha sottolineato «la conclusione superficiale dell’ascoltatore sarebbe: l’esperienza spagnola del XX secolo e l’esperienza degli abitanti dell’Europa centrale e orientale sono completamente incompatibili, e persino contraddittorie. Il pacifismo inteso come tendenza a ricercare metodi pacifici di risoluzione dei conflitti è giusto, ma come imperativo ad agire nella pratica – ad esempio di fronte a un’aggressione immotivata – è del tutto inutile, perché serve praticamente solo all’aggressore. A ben guardare, le esperienze degli abitanti dell’Europa centrale e orientale e degli spagnoli hanno un denominatore comune. Questo denominatore comune è costituito dai campi di concentramento di Mauthausen e soprattutto di Gusen, dove polacchi e repubblicani spagnoli hanno sofferto e sono morti fianco a fianco. I difensori della libertà, nonostante le loro differenze, furono vittime dello stesso totalitarismo che uccideva le persone non per quello che facevano, ma per quello che erano».
Note:
[1] C. Nencioni, Riconciliazione: un percorso lungo e tortuoso. Spunti di riflessione dal 10° convegno ENRS, in “Novecento.org”, n.18, 2022. DOI: 10.52056/9791254693162/15
[3] Carmen Magallón è una docente universitaria coinvolta nel movimento per la pace a fine anni Ottanta, presidente del Centro di ricerca sulla pace di Saragozza e presidente onorario della Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà.
[4] Piotr Naimski è un docente e politico polacco, con un passato da attivista dell’opposizione anticomunista nel periodo della Repubblica Popolare di Polonia.
[5] Michael Žantovský è un diplomatico, saggista, psicologo e politico ceco.
[6] Nei primi anni Settanta.
[7] Il nome con il quale al tempo si indicavano le sterline
[8] Ciżewska-Martyńska è una storica delle idee e sociologa, docente presso l’Istituto di Scienze Sociali Applicate dell’Università di Varsavia.
[9] Jesús Alonso Carballès è docente di civiltà e storia della Spagna contemporanea all’Università Montaigne di Bordeaux.
[10] Claudia-Florentina Dobre è senior researcher al Nicolae Iorga Institute of History di Bucharest.
[11] Zsuzsanna Bögre è una sociologa della religione ed è docente di storia sociale ungherese post 1945 all’Università Cattolica Pázmány.
[12] Jan Rydel è uno storico e le sue aree di ricerca sono l’Europa centro-orientale e le relazioni polacco-tedesche nel XIX e XX secolo. Già professore all’Università Jagellonica e attualmente è professore all’Università Pedagogica di Cracovia. Il Prof. Rydel è membro del Comitato direttivo dell’ENRS e coordinatore di esso per la Polonia.
[13] Bogdana Brylynska è una manager culturale che ha lavorato per i programmi creativi del Comune di Lviv.
[14] Erkki Tuomioja è Presidente fondatore di Historians without Borders in Finlandia.
[15] Piedad Solans è una storica indipendente, il cui lavoro affronta una teoria critica della violenza e delle sue strutture attraverso la storia e le arti visive.
[16] M. Carrattieri, Red lives matter, TM, Reggio Emilia, 2023.
[17] Caduta di Lenin.
[18] Olha Honchar è Direttrice del Memorial Museum of Totalitarian Regimes a Lviv.
[19] Matej Medvecký è senior researcher presso il National Memory Institute of Slovakia.
[20] Marek Mutor è Presidente della Platform of European Memory and Conscience presso l’Ossoliński National Institute.
[21] Paolo Pezzino, già Professore ordinario di Storia contemporanea all’università di Pisa, è attualmente Presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri.
[22] Combattenti morti durante la guerra civile.
[23] Géraldine Schwarz, scrittrice, giornalista e documentarista, di sé dice: «sono figlia di madre francese e padre tedesco, quindi della riconciliazione europea».
[24] Marek Mutor è Presidente della Platform of European Memory and Conscience presso l’Ossoliński National Institute.