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I luoghi tra storia e memorie: valorizzazione, contaminazione, mimetizzazione, oblio

I luoghi tra storia e memorie: valorizzazione, contaminazione, mimetizzazione, oblio

Palazzo della civiltà italiana, quartiere EUR, Roma. Foto di Giulia Dodi.

Abstract

L’autore riflette sui luoghi di memoria, partendo dal rapporto che ogni individuo sviluppa con il paesaggio circostante sia in solitario che in rapporto con la comunità. La definizione stessa di “luogo della memoria” è presa in esame e inserita all’interno di azioni e politiche tese al loro riconoscimento collettivo, alla loro contaminazione o risignificazione e, in qualche caso, anche al loro oblio.

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The author reflects on the places of memory, starting from the relationship that each individual develops with the surrounding landscape both alone and in relation to the community. The very definition of “place of memory” is examined and placed within actions and policies aimed at their collective recognition, their contamination or re-signification and, in some cases, even their oblivion.

Di passeggiate, sguardi, vissuti e identità

Un esperimento mentale è il primo approccio che possiamo tentare nell’approssimarci al nostro rapporto con i luoghi. Immaginiamo di passeggiare lungo strade, piazze, percorsi più o meno conosciuti oppure di attraversare i luoghi che tutti i giorni diventano sfondo e corredo di un altrove da raggiungere. La dimensione del tempo, della durata che ci interconnette con un dato spazio è un elemento cardine al fine della costruzione stessa della definizione del nostro legame con i luoghi. Un legame che si incardina nella qualità e profondità del tempo, non semplicemente trascorso, utilizzato, finalizzato, ma dedicato a esplorare/esplorarsi, interrogare/interrogarsi, cercare/cercarsi, a porsi criticamente in uno stadio e-statico/dubitativo che rifugge la parola definitiva e rimane nelle pieghe dell’ambiguo, del contraddittorio, del possibile e del non delimitato. Senza questa profondità non basta nemmeno l’inciampo, soprattutto se il “da-fare” ingloba l’incontro fortuito nell’oblio della superfetazione dei dettagli.

Linee di riflessione che richiamano l’altra dimensione, quella del vissuto personale, che crea radici, che porta alla formazione del sé tramite il magmatico e quotidiano essere-nei-luoghi, l’essere impastato dai luoghi, che conduce alla definizione di sé attraverso i luoghi. Portiamo dentro di noi vastità luminose e indefinibili grumi di relazioni, consegniamo al nostro sguardo il nesso indissolubile con il primo volto del mondo, il profilo di un paesaggio che continuiamo a cercare sui cammini della vita, anche laddove quei lineamenti si sono formati e sono apparsi in origine, in un movimento a spirale che più ci avvicina al cuore delle cose più ce ne allontana. Da qui scaturisce anche il rapporto nostalgico con i luoghi ed insieme con il non-vissuto, con i sé possibili e con lo spazio-tempo alternativo.

 

Di asimmetrie che proliferano nel cuore della categorizzazione

«Sono mindscapes: paesaggi raccolti nella psiche e psiche immersa nei paesaggi. Percezioni visive che diventano visioni mentali».[1] Vie, edifici, monumenti, bianca pietra, spazi aperti e chiusi, ruderi e non-luoghi, parchi e giardini, fiumi e canali, mari generatori, il dentro e il fuori dalle città, il lontano e il vicino che si invertono: ognuno legato ad emozioni, a ricordi, a sensi che sono nostri, che fanno di noi ciò che siamo e nello stesso tempo condividiamo, seppur nell’infinito dialogo delle sfumature, con il vissuto degli altri.

Viviamo nel paesaggio, le sue parole sono infinite. È ambiente, orizzonte, panorama, spazio, suolo, territorio: tanto che potremmo dire che stare al mondo è riconoscere il paesaggio, sapere che non si tratta di un semplice fondale, della quinta che delimita lo spazio della commedia umana.[2]

Allora possiamo immaginare di vedere, durante quella passeggiata, una rete estesa e fortemente ramificata che mette in collegamento, direttamente e indirettamente, persone e luoghi. Molteplicità degli sguardi su una pluralità di elementi, frutto di una stratificazione di segni e sensi. Prismaticità semantica in un rapporto tra individuo, comunità e paesaggio. Menzogna dell’unidirezionalità del rapporto nel momento in cui il paesaggio non è oggetto ma attore, al pari di chi suppone di poterlo imbrigliare in una definizione che oscilla tra un rapporto di dipendenza e necessità e la volontà di controllo, ri-definizione, sfruttamento.

Ancora non basta. L’esercizio dello sguardo, pur intriso di emozioni e ricordi, sebbene orientato dalla curiosità, nonostante sia immerso nella contemplazione, non può tralasciare il suo essere parte di una corporeità, proprio perché il legame affettivo e la memoria dei luoghi si sostanziano della propria presenza nello spazio. Quello che è in gioco, infine, è l’identità stessa (o meglio l’equilibro delle multi-identità),[3] individuale e collettiva, in cui ciò che vediamo viene deformato attraverso la lente di abitudini, tradizioni, “sentito dire” (in fondo dell’«inautentico»), a loro volta frutto dell’immersione nella quotidiana sollecitazione di infiniti stimoli:

cinema, pubblicità e riviste ci impongono ogni giorno un cumulo di immagini già predisposte, che nell’ordine della percezione sono un po’ come il pregiudizio nella sfera dell’intelligenza.[4] Lo sforzo necessario per liberarsene esige una sorta di coraggio; e questo coraggio è indispensabile all’artista, che deve vedere ogni cosa come fosse la prima volta: bisogna vedere tutta la vita come quando si era bambini; e la perdita di questa possibilità vi toglie quella di esprimervi in una maniera originale, ossia personale.[5]

Tale coraggio non dovrebbe mancare nel nostro contatto visivo scandito dagli impegni e misurato dalla quotidianità, ma nemmeno al passante e tanto meno nella sfida educativa che ogni giorno affrontiamo come docenti, consapevoli, con Matisse, che «qualsiasi sforzo genuino della creazione è interiore». Si tratta di conoscere e riconoscere i luoghi e la loro storia e, nel farlo, ricrearli dentro di noi sulle basi di un sapere interdisciplinare.

 

Dell’invisibilità e della contaminazione

Nello stesso tempo, è necessario confrontarsi con l’invisibile, il non tracciato e il sotto-traccia, il non più presente, a causa dell’erosione del tempo, di modificazioni, aggiunte, distruzioni e ricostruzioni, cambiamenti d’uso e di significato. Ogni luogo è per sua natura sedimentario e ci chiama a riconoscere i modellamenti operati dagli esseri umani. Analizzarli può condurci alla concezione storicamente determinata del rapporto con i luoghi, all’impostazione pubblica e politica del relativo discorso, all’imposizione, riconosciuta o meno, condivisa o meno, di una certa visione al territorio di competenza e a quello conquistato. Rilevante l’esempio esposto da Martin Pollack a proposito del significato attribuito al termine “paesaggio” nella lingua del nazionalsocialismo e declinato come lo spazio di azione di una pianificazione e trasformazione su base razziale: «Modellare il paesaggio era la motivazione, la giustificazione per il genocidio».[6] I paesaggi, al di là delle definizioni usuali e dell’immaginario diffuso, hanno quindi perso la loro presunta innocenza, certamente già prima del nazismo.[7]

Vanno riconosciuti, inoltre, i silenzi, i processi di obliterazione e di caduta nell’oblio.[8] I luoghi della memoria, come riporta la Treccani, «necessitano di essere fissati stabilmente nel ricordo e conseguentemente visitati (al punto tale da apparire in molti casi vere e proprie mete di pellegrinaggio) per il loro valore storico e documentario, per il loro alto significato simbolico, per la tragicità degli eventi che richiamano (come nel caso dei Lager nazisti), ecc.».[9]

In realtà presentano molti aspetti critici che una definizione volutamente generica non può rendere. Il primo è legato proprio a questa “invisibilità” di persone, fatti e luoghi. Se, infatti, da una parte i luoghi possono diventare terreno di incontro sulla base di una ricostruzione storica da cui scaturisce un processo di riconoscimento di quanto accaduto, dall’altra possono essere portatori di letture contrastanti, di strumentalizzazioni e distorsioni, mostrando uno stallo narrativo che non rimargina, ma espone le ferite aperte al rinnovato ricordo del trauma.[10] Accanto a questi due evidenti percorsi della storia e della memoria, esiste, anzi si rafforza, un turismo di taglio storico o pseudostorico che a volte sfocia in una mercificazione della memoria. Comune ai procedimenti richiamati è un appiattimento della storia e un rifiuto della complessità, per cui il “farsi” della memoria non solo è schiacciato sul presente, ma diventa un “fare” autoreferenziale, in una moltiplicazione di memorie che restano isolate e contrapposte[11] o, per chi non appartiene a quel flusso memoriale, si specchiano in luoghi bidimensionali, senza storia.

C’è un ulteriore elemento su cui riflettere relativamente all’invisibilità di storie, eventi, luoghi rimasti impigliati nelle pieghe della Storia e spinti nel cono d’ombra di categorizzazioni e quadri complessivi. Dinamiche che coinvolgono quello che è stato volutamente rimosso così come tutti i fatti considerati secondari. Di molte persone, e dei luoghi in cui vivevano, teatro di accadimenti particolari o dove sono state uccise, nessun segno è rimasto. Cancellata la loro esistenza, scomparse le tracce delle atrocità subite, ne è stata decisa anche la parabola memoriale.

A questo proposito parlo di paesaggi contaminati. Con ciò intendo i paesaggi che furono luoghi di uccisioni di massa, eseguite però di nascosto, al riparo dagli sguardi del mondo, spesso con la massima segretezza. E dopo il massacro i colpevoli compiono tutti gli sforzi immaginabili per cancellarne le tracce.[12]

Dell’inganno e della mimetizzazione

Gli esempi citati da Pollack (cave di pietra riempite di terra e ricoperte di vegetazione; fosse confuse con l’ambiente circostante) sono riassunti nel processo di “ingannare e mimetizzare”,[13] in cui il paesaggio diventa insieme strumento e obiettivo di una finalità più ampia: non solo far sparire le prove, ma annullare il legame profondo, che passa anche attraverso un luogo, tra la vittima e chi resta; annullare quindi l’identità, la memoria, ogni rituale che mette in connessione, ogni dimensione umana. Innumerevoli i luoghi che non conservano più alcun segno, i cui nomi non evocano memorie, ormai sepolte e disperse come i corpi delle vittime.[14]

Paradossalmente molti dei luoghi che dovrebbero essere al centro di ricostruzioni storiche e di un discorso memoriale, hanno assunto la conformazione di non-luoghi, di luoghi negati che hanno perso qualsiasi relazione con la propria storia. Ne va così del rapporto tra luoghi e persone, destinato a un’infinita dimenticanza, e dell’identità, sfibrata fino a trasformare quei luoghi in spazi dove è possibile immaginare degli altrove utilitaristici o semplicemente il lasciarli nell’abbandono, magari accanto alle abitazioni o a quei non-luoghi descritti da Marc Augè. Si tratta dunque di un doppio velamento, dei luoghi invisibili e di quelli non visti o che nessuno vuole vedere.[15]

Della topografia

Dovremmo tornare a cercare i luoghi, a mapparli e a interrogarli anche per metterci in ascolto delle voci di chi, per motivi diversi e a vario titolo, è indissolubilmente legato a essi. Si tratta di disegnare una nuova topografia, accanto a quella “del terrore”: una topografia delle vite interrotte, delle vite disperse e di quelle non vissute. Dare un posto per ricordare (yad) e un nome (shem) ai volti e ai percorsi:[16] una mappa per contrastare la dimenticanza e la rimozione.[17]

In questa ricerca, riusciamo a riconoscere i “paesaggi contaminati”? Possiamo utilizzare in un senso più estensivo la definizione di Pollack? Nella stratificazione che caratterizza i luoghi che ci circondano possiamo leggerne anche la contaminazione, non sempre evidente, non necessariamente frutto di un voluto occultamento. Spesso i luoghi diventano oggetto di un meccanismo di normalizzazione, se non di banalizzazione, per cui i significati a essi connessi si dissolvono non tanto per un disegno di mimetizzazione, quanto per il susseguirsi di decisioni che, nel loro essere chiuse e definite in se stesse, senza quindi una reale attenzione al passato né alla trasmissibilità futura, consegnano un determinato luogo al silenzio. Sedi in cui è stato esercitato il potere, luoghi di arresto e di tortura, di transito, usati per la propaganda e per l’educazione nazionale, occupati fisicamente, simbolicamente, architettonicamente; abitazioni, edifici pubblici, caserme, scuole, università, municipi, campi di concentramento. L’elenco potrebbe di certo essere più lungo. Se prendiamo in prestito il significato di “contaminazione” e lo portiamo all’interno delle città, ne guadagna la riflessione e viene modificato lo sguardo sui luoghi.

Della definizione dei luoghi della memoria

Resta certamente il problema della definizione dei luoghi della memoria così come del rischio di un’enumerazione pressoché infinita di tutti i posti che potrebbero essere riconosciuti come tali. Non ogni luogo storico è un luogo della memoria, ma luoghi apparentemente slegati tra loro possono concorrere alla costruzione della memoria. Quando, nella presentazione del lavoro su Les lieux de mémoire, Pierre Nora, a proposito della scomparsa della memoria nazionale, sentì come impellente richiamarsi a tutti quei luoghi in cui quella memoria si era incarnata e che «per la volontà degli uomini o attraverso il lavorio del tempo, sono rimasti come i simboli più suggestivi», fece riferimento a feste, emblemi, monumenti e commemorazioni, ma anche elogi, dizionari e musei,[18] preferendo uno studio di caso a uno di carattere generale. Quei simboli, quindi, per una comunità sono tali attraverso la declinazione, non necessariamente “solida” e concreta, ma anche astratta e concettuale, di tutti i luoghi che «sembravano spiccare per la loro stessa esistenza e il loro peso d’evidenza». Musei, monumenti, lapidi, archivi accanto ad inni, anniversari, date del calendario civile, spazi significativi, abitudini e tradizioni, “geografie mentali”. Ma se, dunque, la questione non sta nell’estensibilità del concetto di luogo della memoria, di per sé «luoghi-crocevia […] attraversati da molteplici dimensioni»,[19] il vero nodo è il riconoscimento (la volontà di) di quei luoghi da parte della collettività.[20]

Una memoria collettiva […] nasce da eventi che hanno la forza di coinvolgere e rendersi memorabili; ma poi anche dalla capacità di dare forma organizzata e quindi durata temporale ai contenuti di una memoria che va aureolandosi di mito e intrecciando alla realtà documentabile le libertà della favola.[21]

Non dimentichiamo, con Giovanni De Luna, che la memoria ufficiale è frutto di un processo costruttivo:

In quanto memoria culturale, la memoria ufficiale è dunque un progetto, una “costruzione”; è pubblica e non privata, normativa e non spontanea, collettiva e non individuale, e si presenta come la risultante di un “patto” in cui è lo Stato a fissare i termini per cui ci si accorda su ciò che è importante trasmettere alle generazioni future. La sua costruzione consiste appunto in un incessante lavorio attraverso il quale lo Stato e le sue istituzioni includono (o escludono) sempre nuovi elementi dai confini di quel “patto”, ne rinnovano i contraenti e i contenuti, a seconda delle fasi politiche che si rincorrono nella storia di un paese. Lo scopo ultimo di un simile “patto” è alla fine quello di alimentare i valori, le credenze, i simboli, le liturgie che legittimano un sistema politico, ancorandoli a un passato che viene proposto come comune e condiviso. Di qui l’importanza strategica che una memoria ufficiale così concepita assume nella costruzione di una “religione civile”, di uno spazio pubblico di reciproca accettazione tra ideologie e appartenenze contrastanti, di rispetto per le libertà individuali nel nome di valori consapevolmente accettati.[22]

Anche nel lavoro didattico dobbiamo tenere presente e far conoscere questa possibile sfasatura tra il noto e l’ignoto, tra le tracce presenti e quelle erose, tra il sempre presente all’attenzione pubblica, i luoghi potenziali, i luoghi rimasti nell’ombra e soprattutto il modo in cui la memoria si forma e viene organizzata, il suo stretto legame con le istituzioni e le fasi politiche. Un aspetto che rimanda direttamente al quesito dilemmatico posto da una memoria costruita[23] che può o meno diventare ancora oggetto di agone pubblico e politico, strumento di propaganda, strategia per processi riduzionisti, revisionisti, di equiparazioni che nullificano le differenze. Ma l’elemento della costruzione riguarda anche fisicamente il singolo luogo (con le commemorazioni ufficiali e non) e ci chiama, come detto, a un difficile equilibrio tra ciò che ricorda direttamente un fatto e in cui è evidente l’intenzionalità della memoria e quanto deve essere mediato tramite riferimenti, ricerche ulteriori, guide. Parliamo di luoghi della memoria, ma è alla storia che dobbiamo guardare.

Tutte queste valutazioni sono rilevanti per la didattica e possono diventare esse stesse una parte o il cuore di una proposta articolata. Sono, inoltre, un’interessante sfida, intrisa di indagine e ragionamento, gioco ed enigma, a maggior ragione quando si tratta di optare per un processo di emersione dell’invisibile. Il che vuol dire spingersi al di là dell’evidenza, di un luogo che dispiega davanti a noi con la sua immediatezza fisica il passato, che trasmette un senso di certezza e attendibilità, che si fa (o vuole essere fatto) percepire come piena esperienza dell’evento. È un superamento dovuto perché i luoghi hanno subito delle modificazioni e perché non tutto il significato giace nel visibile. Tornando a Nora:

Il luogo della memoria ha come scopo di fornire al visitatore, al passante, il quadro autentico e concreto di un fatto storico. Rende visibile ciò che non lo è: la storia […] unisce in un unico campo due discipline: la storia appunto e la geografia.[24]

I luoghi restituiscono un corpo alla storia, delineano la fisionomia del tempo.[25] Quello che qui si propone è di confrontarsi con i punti di debolezza[26] insiti ai luoghi della memoria e di affrontarli nell’ambito di percorsi didattici opportunamente pianificati. Il che significa provare a porre al centro dell’attenzione anche i luoghi non ampiamente riconosciuti o conosciuti, attraverso un lavoro di scavo e di immaginazione. Perché pure a partire da un’assenza, e dai motivi di tale assenza, si può proporre un percorso didattico, tenendo sempre conto della contestualizzazione storica, dell’evoluzione temporale e del discorso pubblico su quel dato luogo.

 

Dei luoghi, della storia e dell’intelligibilità

Cosa guardiamo, quindi, quando guardiamo? Quanto di noi e della nostra visione del mondo permane nelle linee invisibili che collegano lo sguardo al singolo luogo? Di quanto scavo storico necessita il comprendere? Quali sono i parametri che ci guidano nel riconoscere un luogo della memoria?

Cosa vedono studentesse e studenti? Qual è il loro vissuto rispetto ai luoghi che vorremmo porre all’attenzione? Cosa si dà di cogente in questo rapporto? Quali pre-visioni e pre-conoscenze guidano lo sguardo o occorrono?

Cosa vede un turista? Cosa sa e fa al di fuori di rotte prestabilite, sunti premasticati, tempi programmati?

Tra l’altro le condizioni e i motivi per cui ci si approccia ad un luogo della memoria non sempre sono rilevanti ai fini del rapporto con ciò che si vede e cittadini e turisti si possono trovare a vivere la stessa esperienza.

Tracce padovane per riflettere

A Padova, da via VIII febbraio (riferimento ai moti risorgimentali del 1848 in città), si nota da una parte l’edificio comunale con una facciata (ala Moretti-Scarpari), in realtà un monumento ai caduti della Prima guerra mondiale, la cui prima pietra fu posta pochi giorni dopo la marcia su Roma alla presenza del generale Diaz e che fu portata a termine diversi anni dopo. Oggi non conserva più riferimenti diretti al fascismo, ma un’attenta lettura evidenzia elementi significativi e pone la facciata in continuità con la parte laterale (in via Oberdan) dove una serie di lapidi mostrano sovrapposizioni semantiche che in alcuni casi non distinguono, in uno stesso periodo storico, i caduti, in altri assommano eventi molto diversi del Novecento.

Di fronte si erge il palazzo del Bo, la sede storica dell’Università patavina che presenta due entrate che portano rispettivamente al cortile antico e a quello nuovo. Sorvolando sulla presenza sbiadita dei nomi di Vittorio Emanuele III e Mussolini sulla facciata principale, ci poniamo di fronte all’ingresso del cortile nuovo, costruito negli anni Trenta e chiamato Littorio; notiamo l’asse che collega il portone all’atrio degli eroi (informazione non presente) e poi alla parte interna in cui spicca un altorilievo e, in fondo, una Minerva/Vittoria alata. È esperienza quotidiana quella di vedere persone che fotografano tutto o parte di questo spazio o che semplicemente vi si aggirano o lo utilizzano. Sfugge completamente il senso di un luogo della memoria che all’esterno presenta, da qualche anno, alcune pietre di inciampo dedicate a docenti e studenti ebrei dell’Università deportati ad Auschwitz. A pochi passi il portone monumentale in bronzo del 1922 riporta i nomi degli studenti caduti nel primo conflitto mondiale. L’atrio degli eroi presenta altre lapidi e poco dopo si giunge alla cosiddetta scala del sapere, voluta dal rettore Carlo Anti, fortemente legato al fascismo, e decorata da Gio Ponti. Nei pressi si trova una statua di Arturo Martini raffigurante Palinuro ma che in realtà richiama la vicenda resistenziale di Primo Visentin. Di fronte, una grande lastra di marmo elenca i nomi degli studenti caduti per la Liberazione. Nel cortile vero e proprio spicca l’altorilievo di Attilio Selva, risalente al 1939, con un chiaro rimando al nazionalismo e al militarismo fascista (la scritta recita «hic vivunt hic vigent hic renovantur in aevum tot bellorum animae»; sulla colonna centrale non sono quasi più visibili le date 1848, 1918, 1922, 1936). In fondo, la citata Minerva del 1942 e ai suoi lati, sul muro, i nomi di Vittorio Emanuele III, imperatore, e del “duce” Benito Mussolini. Tornando indietro, un’opera di Jannis Kounellis, «Resistenza e Liberazione», ci ricorda il tentativo di ri-significare quel luogo e di porre in dialogo i vari elementi presenti.

Un luogo in cui si oscilla tra indifferenza, contemplazione, uso quotidiano e approccio turistico, al punto che possiamo chiederci se realmente la moltiplicazione dei segni (il segnare il territorio) possa incidere nel tempo dell’ipersollecitazione visiva e comunicativa.

Non lontano dall’Università, in piazza della Frutta, nel 2014, in occasione del 30° anniversario della morte di Enrico Berlinguer, fu posto un cippo (opera di Elio Armano) nei pressi del luogo dove tenne l’ultimo discorso prima del malore che lo portò alla morte nell’ospedale cittadino. Sul cippo si legge: «Enrico Berlinguer, in questa piazza, il 7 giugno del 1984, fu colpito da un fatale malore. È rimasto nei cuori dei padovani e degli italiani come il simbolo di una politica pulita». In precedenza una targa posta a 4 metri di altezza intendeva ricordare lo stesso evento. Il cippo serviva anche ad ovviare al problema di una targa “invisibile”. Lì ogni anno si svolge una cerimonia per ricordare il segretario del Pci. Se nel 2014 una breve polemica fu dovuta ad un bar che si lamentava della perdita di alcuni tavolini all’aperto per far spazio al cippo, nel giugno 2023 sui giornali viene aperta una discussione a partire dalla constatazione che il cippo viene solitamente utilizzato dai turisti (e non solo) come panchina. Sono intervenuti nel dibattito Floriana Rizzetto, la presidente dell’Anpi, e l’ex sindaco Flavio Zanonato. La prima, parlando di un’opera «stupenda ed evocativa», ha affermato che «è poco valorizzata, perché essendo bassa e messa così in un angolo si presta a essere una seduta. Questo anche per il fatto che molte persone, sia cittadini sia turisti, non sanno nemmeno che è un monumento dedicato alla memoria di Berlinguer, perché purtroppo sono in tanti, soprattutto giovani, a non sapere né chi sia stato né che cosa sia successo in piazza della Frutta nel 1984». Rizzetto ha invitato quindi le istituzioni ad installare dei cartelli illustrativi per indicare la presenza del cippo, proposta raccolta dall’attuale sindaco Sergio Giordani in vista del 40° anniversario. Abbiamo quindi bisogno di aggiungere segni a segni e di spiegare. Il problema non sta tanto nell’uso del cippo come seduta, ma nella conoscenza e nella consapevolezza delle persone. Zanonato ha spiegato che quel monumento così basso ha un significato in sé: «La volontà era che il monumento potesse essere di tutti, che tutti potessero guardarlo, prenderci confidenza e usarlo come un oggetto quotidiano. Volevamo che fosse un monumento in mezzo alla gente e che rispecchiasse la figura di Berlinguer, che non era una figura distante dalle persone comuni bensì era uno di noi. L’intento era che ognuno di noi potesse immedesimarsi».[27]

Gli esempi suscitano molte riflessioni che incrociano le domande poste all’inizio. Generalizzando possiamo dire che accanto alla dimensione personale e di gruppo, si sviluppa (spesso in modo intrecciato e in conflitto) un rapporto pubblico con i luoghi e la loro memoria. La creazione, la condivisione, la diffusione di discorsi pubblici riguardo alla storia dei luoghi e ai contesti da cui sono scaturite le stratificazioni di significato entrano a loro volto in relazione, agiscono, modificano e sono modificati dalle memorie individuali e comunitarie. Come pure possono creare conflitti memoriali, il cui utilizzo può avere anche la finalità di imporre una narrazione che fa del conflitto il grimaldello per l’accettazione e la giustificazione di eventi e processi che sono di per sé stessi in contraddizione con ciò che fonda il vivere comune. D’altronde pacificare per nullificare le differenze è il meccanismo che sottende anche il dibattito sull’odonomastica.

Il tema sarà affrontato nella seconda parte dell’articolo, disponibile la prossima settimana.


Note:

[1] V. Lingiardi, Minscapes. Psiche nel paesaggio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017, p. 17.

[2] Lingiardi, 2017, p. 19

[3] A. Maalouf, L’identità, Bompiani, Milano 2005.

[4] Cfr. G. De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2015, pp. 118-121.

[5] H. Matisse, Il faut regarder toute la vie avec des yeus d’enfant, in Le Courrier de l’UNESCO, n. 10 ottobre 1953, p. 16. Cfr. Lingiardi, 2017, p. 25 e De Luna, 2015, pp. 104-138.

[6] M. Pollack, Paesaggi contaminati, Keller editore, Rovereto 2016, p. 19.

[7] Pollack, 2016, p. 19.

[8] Pur tenendo conto, con Mario Isnenghi, che il patrimonio di luoghi «si è venuto formando e modificando nel tempo, scartando certe presenza e privilegiandone altre: alternando cioè la memoria e l’oblio, due meccanismi generativi dell’identità con i quali abbiamo avuto continuamente a che fare». M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1997, p. VIII.

[9] Cfr. https://www.treccani.it/vocabolario/luogo/.

[10] Per approfondire le questioni qui brevemente richiamate di rimanda a Filippo Focardi, Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, Foibe, Viella, Roma 2020.

[11] Cfr. De Luna, 2015, p. 82.

[12] Pollack, 2016, p. 26. Si veda anche De Luna, 2015, pp. 87-88.

[13] Pollack, 2016, pp. 28-34.

[14] A questo proposito si rimanda alle riflessioni presenti in V. Grossman, Ucraina senza ebrei, Adelphi, Milano 2023.

[15] Cfr. Pollack, 2016, pp. 130-136.

[16] A. Spinelli, Vite in fuga. Gli ebrei di Fort Ontario tra il silenzio degli alleati e la persecuzione nazifascita, Cierre, Sommacampagna 2015, p. 318. Cfr. Bibbia Cei/Gerusalemme, Isaia 56,5.

[17] Pollack, 2016, p. 127.

[18] P. Nora (sous la direction de), Les Lieux de Mémoire, vol. 1 La République, Gallimard, Paris 1984, p. VII.

[19] Nora, 1984, p. VII.

[20] Si veda Direzione scientifica del Mémorial de Caen, Per una definizione di “luogo di memoria” in Percorsi della memoria, a cura di Vito Paticchia e Paolo Zurzolo, “Dossier IBC”, 9 (2003), n. 3 (http://rivista.ibc.regione.emilia-romagna.it/xw-200303/xw-200303-d0001/xw-200303-a0017).

[21] Isnenghi, 1997, p. VIII.

[22] De Luna, 2015, p. 21.

[23] Interessanti le riflessioni e gli spunti offerti dal convegno svolto Il 7 dicembre 2018 a Rocca delle Caminate su I Luoghi della Memoria: temi e prospettive. Si veda Alberto Gagliardo, I Luoghi della memoria: temi e prospettive, Novecento.org, n. 12, agosto 2019. DOI: 10.12977/nov298.

[24] Nora, 1984, p. 20.

[25] Walter Benjamin direbbe: «Scrivere storia significa dare alle date la loro fisionomia». W. Benjamin, Das Passagen-Werk, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1982, p. 595; tr. it. Parigi capitale del XIX secolo. I «Passages» di Parigi, Einaudi, Torino 1986, p. 618. Si veda anche K. Schlögel, Leggere il tempo nello spazio. Saggi di storia e geopolitica, Bruno Mondadori, Milano 2009.

[26] Direzione scientifica del Mémorial de Caen, 2003. Si vedano anche i criteri individuati per definire un luogo di memoria.

[27] https://mattinopadova.gelocal.it/padova/cronaca/2023/06/12/news/padova_cippo_berlinguer-12853301/. Ha detto l’artista al Corriere: «Non sono scandalizzato, doveva andare proprio così – spiega il realizzatore dell’opera – forse ora sarebbe il momento di ‘ripassare’ l’incisione in modo da renderla più leggibile, ma sono contento che la gente abbia in confidenza questo cippo e che sia parte della città, in fondo lì ci si può sedere a mangiare un panino e ammirare la bellezza del palazzo della Ragione, mica tutti hanno i soldi per sedersi ai bar: quel posto raccoglie l’eredità di Enrico, che avrebbe voluto essere ricordato come uno di noi e far parte della nostra quotidianità». https://corrieredelveneto.corriere.it/notizie/padova/cronaca/23_giugno_13/padova-enrico-berlinguer-e-il-monumento-come-panchina-ma-a-lui-sarebbe-piaciuto-cosi-c87d84e7-ba1b-4e8e-9415-9a63a226fxlk.shtml.