La Shoah nel cinema est-europeo contemporaneo
La liquidazione del ghetto di Cracovia nel marzo 1943 è oggetto di un segmento di 15 minuti del film Schindler’s List (1993).
Crediti: Stanisław Poznański (oprac./edit.), Walka. Śmierć. Pamięć 1939-1945. W dwudziestą rocznicę powstania w warszawskim getcie 1943-1963, Rada Ochrony Pomników Walki i Męczeństwa, Warszawa 1963 (strony nienumerowane/pages unnumbered) – United States Holocaust Memorial Museum, courtesy of Instytut Pamieci Narodowej, Public Domain, Link
Abstract
In questo contributo saranno presi in esame tre film esemplificativi dei recenti mutamenti nelle relazioni tra cinema esteuropeo e persistenza della memoria della Shoah. Il primo è Ida (2013, Paweł Pawlikowski), film polacco che affronta la Shoah in retrospettiva, indagando la perdita della memoria e la crisi identitaria di due donne nella Polonia degli anni Sessanta; il secondo, Il figlio di Saul (Saul Fia, 2015, László Nemes), è un film ungherese e racconta l’orrore dei Sonderkommando dall’interno, ridiscutendo provocatoriamente la soglia dell’indicibile adorniano; il terzo, Austerlitz (2016, Sergei Loznitsa), è un documentario ucraino che propone una riflessione sulla mercificazione della memoria a partire dalla trasformazione dei Lager da luoghi della memoria a parchi divertimento.
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The essay will examine three films that exemplify recent changes in the relationship between European cinema and the persistence of the memory of the Shoah. The first is Ida (2013, Paweł Pawlikowski), a Polish film that deals with the Shoah in retrospect, investigating the loss of memory and the identity crisis of two women in 1960s Poland; the second, The Son of Saul (Saul Fia, 2015, László Nemes), is a Hungarian film and recounts the horror of the Sonderkommando from within, provocatively re-discussing the threshold of the Adornian unspeakable; the third, Austerlitz (2016, Sergei Loznitsa), is a Ukrainian documentary that proposes a reflection on the commodification of memory starting with the transformation of the Lagers from places of memory to amusement parks.
Premessa: una memoria comunicante
Il cinema dell’Europa orientale ha avuto, tradizionalmente, un rapporto ambivalente con la memoria della Shoah. Se nella fase dell’immediato dopoguerra le cinematografie nazionali di questi paesi, per lo più sotto il dominio di governi comunisti, hanno preferito dimenticare le efferatezze compiute ai danni degli ebrei (spesso attuate con la collaborazione delle autorità e delle popolazioni locali), a partire dagli anni Sessanta è emersa una nuova generazione di autori e autrici (soprattutto provenienti dalle “nuove ondate”, come quella polacca, ceca, ungherese) che, con l’obiettivo di fare i conti con il proprio passato, ha iniziato a trattare il tema della Shoah sul grande schermo[1].
È proprio a questa tradizione cinematografica che si rifanno, in modo più o meno esplicito, una serie di registi che, successivamente al crollo del muro di Berlino e al superamento delle dinamiche ideologiche che avevano caratterizzato la Guerra fredda, hanno dato vita a una vera e propria ripresa d’interesse, trasversale a tutta l’Europa orientale, del tema della Shoah[2]. Se, nella maggioranza di questi film, la referenza estetica e contenutistica principale rimane quella del cinema est-europeo degli anni Sessanta, alcune di queste produzioni hanno finito per ibridare le singole caratteristiche dei cinema nazionali con uno stile sempre più internazionale, ora riconducibile alle tradizioni del cinema d’autore europeo, ora a quelle più marcatamente globali del cinema hollywoodiano[3].
Si tratta di un percorso che attraversa diacronicamente più generazioni, che contribuiscono insieme a una sorta di “rinascita” del cinema est-europeo post-1989: una prima nata tra il 1945 e il 1960, una seconda tra il 1960 e il 1975, una terza tra il 1975 e il 1990. Queste tre generazioni, che avanzano frequentemente riflessioni sui rispettivi passati nazionali, finiscono per riverberare una memoria della Shoah che, in un’area sempre più contaminata, si trasforma lentamente in una memoria est-europea comunicante[4].
Non a caso, come osserva Pietro Masciullo, il cinema est-europeo contemporaneo rappresenta una «grande frontiera di sperimentazione linguistica e formale»: da un lato esso si confronta con la complessità dei percorsi democratici intrapresi negli ultimi anni, dall’altro produce discorsi transnazionali ormai ampiamente storicizzati. Si tratta dunque di un cinema che, alla luce delle costanti e inevitabili riflessioni con il passato comune di un’intera area geografica, finisce per raccontare personaggi dalla pericolante confusione identitaria, «tra memoria condivisa ed erranza privata»[5]. Quello est-europeo, insomma, è un cinema che oggi più che mai dialoga apertamente con il problema della memoria, e che trova nei festival internazionali dei luoghi di circolazione privilegiata.
In questo saggio, dunque, prenderemo in esame tre film considerati esemplificativi non tanto di tre cinematografie nazionali (Polonia, Ucraina, Ungheria) ma di tre modi diversi, antitetici ma complementari, di relazionarsi comunemente alla memoria della Shoah. Il primo film è Ida (2013, Paweł Pawlikowski), che affronta il tema in retrospettiva, indagando la perdita della memoria e la crisi identitaria di due donne nella Polonia degli anni Sessanta; il secondo, Il figlio di Saul (Saul Fia, 2015, László Nemes), racconta l’orrore dei Sonderkommando dall’interno, ridiscutendo provocatoriamente la soglia dell’indicibile adorniano; il terzo, Austerlitz (2016, Sergei Loznitsa), propone invece una riflessione sulla mercificazione della memoria (i Lager trasformati in parchi divertimento) utilizzando la forma documentaria. Presentati tutti e tre in occasione di importanti festival europei e internazionali, questi film sono anche specchio delle tre diverse generazioni (Pawlikowski 1957, Loznitsa 1964, Nemes 1977) che decidono di affrontare, da prospettive difformi, la persistenza della Shoah nella memoria comunicante dell’Europa orientale.
Crisi identitarie: Ida
Co-produzione europea a maggioranza polacca, Ida viene presentato nell’autunno del 2013 in decine di festival internazionali, prima di uscire nelle sale di tutto il mondo tra la fine dell’anno e la prima metà del 2014, vincendo l’anno successivo il premio Oscar come Miglior film straniero. Si tratta di un film che, seppur ambientato negli anni Sessanta, è a tutti gli effetti un Holocaust film in quanto rientra nella lunga tradizione di quelle pellicole che affrontano la memoria della Shoah, potremmo dire, dallo specchietto retrovisore. Nello specifico, la storia è ambientata nella Polonia del 1961 e racconta le vicende di Anna, una ragazza orfana di entrambi i genitori, novizia in un convento cattolico. Poco prima di prendere i voti, Anna apprende di avere una zia e decide di farle visita. A Łodz, conosciuta la zia Wanda, Anna scopre di essere ebrea, di chiamarsi Ida, e di essere stata nascosta nel convento dai genitori per scampare dalle deportazioni anti-ebraiche del 1943. Le due donne partono così per un viaggio verso il paese dove Wanda è cresciuta e ha lasciato la sorella per unirsi alla resistenza polacca, e dove Ida è stata separata alla nascita dai genitori, morti entrambi successivamente alle persecuzioni.
Paweł Pawlikowski decide di trattare la memoria della Shoah da una prospettiva specificamente polacca, evocando le persecuzioni anti-ebraiche come un’opportunità per raccontare due crisi identitarie: quella di una donna (Wanda) che ha lasciato la sua famiglia per abbracciare un ideale politico, e quella di una ragazza (Anna/Ida) costretta a mettere in discussione la sua identità (e la sua fede) di fronte alla presa di coscienza delle proprie origini. Si tratta, metaforicamente, della rievocazione dei fantasmi di un passato doloroso, quello delle responsabilità nazionali nella Shoah, che aleggiano nella società polacca del dopoguerra come ricordi ossessivi. Mentre Anna/Ida si trova sulla soglia tra identità cattolica (e polacca) e quella ebraica, Wanda rappresenta non solo l’esperienza della resistenza polacca al nazismo, ma anche le difficoltà nazionali di affrontare la memoria dell’era sovietica. Come ha osservato Tobias Ebbrecht-Hartmann, essendo ambientato in un’epoca segnata «dall’agonia dello stalinismo», il film introduce un ulteriore strato di ricordi contrastanti, perché combina «i ricordi polacchi dell’occupazione nazista, della resistenza e della collaborazione con gli anni del dopoguerra comunista e l’esperienza della disillusione, così come le ambigue e traumatiche memorie ebraiche della guerra e del dopoguerra», «fino alla nuova ondata di antisemitismo promossa dal Governo alla fine degli anni Sessanta»[6].
Come un percorso a ritroso all’interno della storia polacca, il film segue dunque la struttura investigativa di un racconto a metà tra il giallo e il road movie: l’obiettivo delle due donne è quello di ricomporre un mosaico fatto di ricordi contrastanti, tracce identitarie ambigue, posizioni ideologiche confuse e irrisolte. L’utilizzo del bianco e nero richiama, da un lato, la volontà di storicizzare le immagini presentate, finendo per conferire una valenza documentaria alla finzione sullo stile di un modello già testato da Steven Spielberg in Schindler’s List (1993) – e ripreso da decine di Holocaust film, o anche solo film storici, successivi -, dall’altro testimonia l’universo di referenze cinematografiche che il regista vuole rievocare, ovvero quello del cinema d’autore europeo degli anni Sessanta.
Questo – unito al rigore della messa in scena, all’utilizzo della macchina statica e all’adozione del bianco e nero, rende palesi le referenze all’universo del Nuovo cinema polacco che molto ha affrontato, negli anni Sessanta, il tema ingombrante della memoria della Shoah. Anche da un punto di vista contenutistico, e di conseguenza politico, la volontà di Pawlikowski è quella di porsi al di fuori sia della generale cristianizzazione della memoria della Shoah, largamente affermatasi tra gli strati di una società polacca di origine tradizionalista, conservatrice e antisemita, sia dalla politicizzazione della memoria finalizzata all’esaltazione dell’eroismo polacco e alla costruzione di un martirologio pubblico su scala nazionale portata avanti dalla cultura comunista del dopoguerra. È indubbio, in questo senso, il richiamo ad autori come Wanda Jakubowska, Aleksander Ford, Andrzej Munk e Andrzej Wajda che, pur risentendo del clima fortemente ideologizzato della Polonia di quegli anni, hanno avuto il merito di porre all’attenzione del pubblico polacco -e, più in generale, est-europeo – una nuova “questione ebraica” in maniera del tutto depoliticizzata[7].
Lo stile visivo di Pawlikowski si allinea, tuttavia, a un generale approccio pessimistico alla storia nazionale: il disagio nei confronti delle cicatrici del passato, che tornano nel presente sotto forma di ricordi repressi, è esplicitato dalla continua collocazione dei personaggi ai margini dell’inquadratura, sulla cornice di un paesaggio con il quale finiscono per fondersi. Prima di arrivare nel luogo che custodisce il segreto della loro famiglia, le due donne attraversano una distesa di betulle che rimanda al bosco di Birkenau già filmato da Claude Lanzmann nel suo Shoah (1985), diventando così parte della memoria e dell’immaginario dello sterminio[8].
Alla fine del viaggio, la riesumazione dei cadaveri dei parenti sembra un atto di dolore dominato dall’ansia e dalla disillusione. L’intensità del momento è suggellata dal successivo seppellimento delle ossa e dei resti dei corpi in un cimitero ebraico, dove le due donne vagano all’alba. Sembra un atto di purificazione comune per Wanda e Anna/Ida, un modo per dare finalmente forma a un lutto. Le due donne, tuttavia, finiscono per affrontare il trauma in modo diametralmente opposto: se per la prima si tratta della catarsi conclusiva di un viaggio verso un passato irrisolto venuto finalmente in superficie (che la conduce verso un suicidio quasi inevitabile), per la seconda rappresenta una forza motrice che la costringe a fare i conti con la sua identità multipla, e dunque a compiere una scelta. Si tratta, metaforicamente, degli esiti della memoria della Shoah su due diverse generazioni di polacchi, costrette a fare i conti con il trauma della storia e con le loro diverse responsabilità.
Fuori campo: Il figlio di Saul
Il figlio di Saul è l’opera prima del regista ungherese László Nemes. Presentato in concorso al Festival di Cannes nel 2015, dove vince il Grand Prix Speciale della Giuria, il film ottiene anche il Golden Globe e il premio Oscar come miglior film straniero nel 2016. Si tratta, insomma, di una produzione autenticamente europea che, così come Ida, ha trovato un discreto successo di critica e pubblico in ambito internazionale, in particolare negli Stati Uniti.
Il film è ambientato all’interno del campo di Auschwitz-Birkenau, e racconta il lavoro dei cosiddetti Sonderkommando: prigionieri ebrei incaricati della gestione quotidiana delle camere a gas e dei forni crematori. Il loro compito è quello di mantenere l’ordine tra i nuovi prigionieri che arrivano al campo, accompagnare coloro che vengono “selezionati” per lo sterminio negli spogliatoi, prelevare gli oggetti di valore tra i loro beni, condurli con l’inganno verso le camere a gas, prelevare i cadaveri e portarli fino ai forni crematori, infine smaltire le ceneri umane. I membri del Sonderkommando operano, insomma, all’interno di quella che Primo Levi ha definito «zona grigia», ovvero quel campo di intersezione tra bene e male in cui il potere si esercita sotto forma di privilegi. Con questa fortunata formula, apparsa per la prima volta ne I sommersi e i salvati, Levi intende dare risalto a «una struttura interna incredibilmente complicata», che «alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare»[9]. Ed è proprio intrappolato in quel punto di contatto tra vittime e carnefici che lavora Saul Ausländer, ebreo ungherese membro del Sonderkommando, protagonista del film di Nemes.
Un giorno, mentre “ripulisce” le camere a gas dai cadaveri, Saul scopre che un giovane ragazzo è miracolosamente riuscito a sopravvivere allo Zyklon B, prima di venire però soffocato a morte da un medico delle SS. Da quel momento, Saul decide di rivendicare quel ragazzo come suo figlio, e ne nasconde il corpo. Inizia, dunque, a cercare un rabbino all’interno del campo per concedere al presunto figlio una degna sepoltura. Questo atto di umanità gli permetterebbe di uscire dal limbo della zona grigia cui è costretto: si tratta, a ben vedere, di un gesto simbolico di resistenza che prescinde dalla reale corrispondenza tra il corpo del ragazzo e il vero figlio di Saul. Nella narrazione di questo viaggio catartico e universale, Nemes finisce per mettere in scena alcune testimonianze reali tratte dai racconti di sopravvissuti: dalle famose fotografie scattate furtivamente ai corpi bruciati all’esterno di uno dei crematori di Birkenau, fino a una delle rivolte dei membri del Sonderkommando nel 1944[10].
La prima vicenda è, in particolare, al centro del celebre saggio di Georges Didi-Huberman Immagini, malgrado tutto, con cui il film finisce intenzionalmente per dialogare a distanza[11]. Se nel saggio di Didi-Huberman, infatti, quelle immagini vengono mostrate, discusse, utilizzate in chiave filosofica, il film di Nemes si limita a mostrarne l’estemporaneo processo di produzione, senza tentarne un’ulteriore messa in scena. Si tratta delle uniche fotografie esistenti, scattate dall’interno delle camere a gas del complesso concentrazionario di Auschwitz-Birkenau, che documentano visivamente una delle procedure connesse alle pratiche di sterminio di massa attuate nel Lager. Sono immagini che esistono e resistono in quanto testimonianze, malgrado tutti i tentativi dei nazisti di eliminarle. Nemes decide, dunque, di svelare cosa si cela dietro la produzione di quelle immagini, ricostruendo l’episodio reale del ritrovamento di una macchina fotografica all’interno del Lager, ma rendendo il personaggio (di finzione) di Saul protagonista della vicenda: è proprio lui, infatti, a fotografare assieme a un altro detenuto i cadaveri in fiamme dal rifugio di fronte il capannone adiacente. Il fatto che il protagonista del film impersonifichi l’anonimo fotografo, partecipando così alla costruzione dell’immaginario dello sterminio, costringe lo spettatore, per usare le parole di Nemes stesso, a «mettere in discussione lo statuto della rappresentazione» di quelle stesse immagini»[12].
Così come il saggio di Didi-Huberman, il film di Nemes mette dunque in discussione la retorica dell’indicibilità che ha accompagnato per diversi decenni le principali teorie sulla rappresentazione della Shoah, e che ha visto in Claude Lanzmann il suo più fedele sostenitore in campo cinematografico[13]. Ma, più che confutarla del tutto, Nemes finisce per complicarla. Ed è forse, proprio per questo, che Lanzmann ha ammesso di aver apprezzato il film[14]. Una delle particolarità, infatti, risiede nel fatto che la morte, pur accompagnando costantemente Saul nel suo viaggio interiore nel Lager, è quasi sempre sfocata o presentata fuori campo. Oltre a costringere lo spettatore a una riflessione etica ed estetica sulla (non) rappresentazione della morte, la sfocatura rimanda inevitabilmente allo statuto testimoniale delle foto, anche quelle sfocate, scattate dai membri del Sonderkommando. Riprendendo ancora una volta Didi-Huberman, si tratta in entrambi i casi di «immagini-panico», frammenti clandestini che sfuggono alla sorveglianza e che seguono la paura come «veicolo visivo»[15].
Utilizzando riprese molto strette sul corpo di Saul, oltre ai primi piani sul suo volto posti in risalto dall’utilizzo del formato 4:3, Nemes decide di controllare ossessivamente la direzione dello sguardo dello spettatore, cui suggerisce sempre dove/cosa guardare. Questo meccanismo di empatia forzata genera un processo di allineamento dello sguardo tra spettatore e protagonista, aumentato sia dalla frequenza di inquadrature lunghe e piani sequenza, sia da semi-soggettive che avvicinano soggetto osservante e oggetto osservato in una relazione a tratti disturbante. Come ha osservato Chari Larsson, mantenendo il contesto circostante quasi sempre fuori fuoco Nemes sollecita il nostro desiderio voyeuristico di guardare, lasciandolo costantemente frustrato e mantenendo i corpi sullo sfondo, astratti e sfocati: per questo, «il desiderio dello spettatore di assumere la padronanza della scena è negato dall’effetto di sfocatura»[16].
Facendo di questa storia l’oggetto del Figlio di Saul, Nemes finisce per inglobare nel suo film decenni di riflessioni teoriche sulla rappresentazione della morte e sul rapporto tra la Shoah e la cultura visuale. L’ambizione del film è proprio quella di aggiornare questo dibattito, fornendo non tanto un’illustrazione, quanto un’integrazione e un aggiornamento del saggio di Didi-Huberman. Privilegiando le immagini sulla parola, insomma, il film invita lo spettatore a non rinunciare mai alla propria responsabilità etica di non distogliere lo sguardo di fronte all’orrore.
Immagini mancanti: Austerlitz
Austerlitz è il nome di un villaggio della Moravia, divenuto celebre per la vittoria di Napoleone nella battaglia «dei tre imperatori», combattuta nel dicembre del 1805 contro un esercito congiunto di russi e austriaci. Ma Austerlitz è soprattutto il protagonista che dà il nome al quarto e ultimo romanzo dello scrittore tedesco W. G. Sebald, che racconta la storia di un professore di storia dell’architettura, interessato a studiare tutti quei luoghi pubblici carichi di significati visionari, simbolici e memoriali, come le stazioni, le prigioni, le caserme, oggetto di peregrinazioni erudite ottocentesche[17]. A quest’ultimo è idealmente ispirato il documentario del regista ucraino (ma di origini bielorusse) Sergei Loznitsa, presentato fuori concorso nel 2016 alla 73esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, intitolato proprio Austerlitz. Ma cosa ha a che fare un documentario sul Lager di Sachsenhausen con il romanzo di Sebald, tanto da prenderne il nome?
L’Austerlitz di Sebald non conosce le sue origini. Così, decide di intraprendere un viaggio nella sua memoria, sulle tracce della propria identità. Attraverso la visita di luoghi evocativi e la visione di oggetti, fotografie e filmati, scoprirà presto di essere arrivato a Londra, da piccolo, durante la Seconda guerra mondiale, mentre i suoi genitori venivano deportati da un convoglio verso lo sterminio. Dopo aver visto frammenti del famoso video di propaganda, girato dai nazisti nel ghetto “modello” di Theresienstadt[18] nell’attuale Repubblica Ceca, osserva come le figure imprigionate in quelle immagini avessero «perso la loro nitidezza e, soprattutto nelle scene girate fuori alla chiara luce del giorno, risultavano confuse ai margini, come i contorni della mano nelle fotografie fluidali e nelle elettrografie realizzate da Louis Darget verso la fine del secolo», impregnate «di un bianco luminoso»[19]. Sembra quasi di poter leggere tra queste righe, ma con quindici anni di anticipo, l’approccio estetico che muove Sergei Loznitsa dalla prima all’ultima inquadratura del suo documentario.
Austerlitz ci porta dentro il memoriale di Sachenhausen, ex-Lager a pochi chilometri da Berlino. Non il campo più importante dell’universo concentrazionario nazista, ma certamente tra i più evocativi per varie ragioni. Innanzitutto la forma, un triangolo equilatero, all’interno del quale tutti gli edifici sono situati su una perpendicolare in modo simmetrico[20]. Con l’idea di decostruire la geometria nazista, Loznitsa colloca nel campo una macchina da presa, sempre fissa, che da varie angolazioni scavalla con consuetudine l’asse con i soggetti rappresentati. L’occhio, però, non è mai diretto ai resti del campo o ai monumenti, già costruiti pochi anni dopo la liberazione dello stesso, avvenuta nell’aprile del 1945 per mano dell’Armata Rossa. Il regista ucraino si dimostra, di contro, interessato esclusivamente a quel turismo di massa che, ormai da anni, riempie i principali luoghi della memoria dello sterminio nazista[21].
Loznitsa filma asetticamente, in 33 inquadrature fisse e in bianco e nero, i turisti della memoria provenienti da tutto il mondo, come fossero i deportati raccontati dall’Austerlitz di Sebald. Se dalle prime immagini facciamo fatica a collocarci in un contesto specifico, dopo otto minuti ci viene sbattuto in faccia un cancello, con la solita frase «Arbeit Macht Frei». La scritta richiama quella che campeggia l’ingresso del ben più noto Lager di Auschwitz, richiamato anche dall’assonanza con il titolo del film. Il cancello di Sachsenhausen viene qui mostrato in campo e controcampo, varcato da decine di persone con audioguide all’orecchio, macchine fotografiche al collo, GoPro e smartphone di ultima generazione in mano, oppure collocati all’estremità dei sempre più diffusi selfie stick, pronti a scattare immagini che saranno pubblicate sui social network, testimonianze fotografiche di un Lager che, a settant’anni di distanza, si riempie di nuovo.
Il regista non muove mai la macchina da presa e non indugia, in nessun caso, sui volti delle persone, alcuni visibilmente scossi (pochi), altri divertiti come fossero in visita a Disneyland. Loznitsa si ferma a osservare dagli angoli del campo, aspettando lunghissimi minuti che qualcuno passi di lì. Raramente entra dentro ciò che rimane o è stato ricostruito delle strutture del Lager, visitate in coda dai turisti: li attende all’uscita, inquadrando i loro movimenti attraverso porte e finestre. Li segue, poi, all’esterno, mentre passano accanto o (quasi) attraverso la telecamera, in gruppi o singolarmente. Le poche informazioni storiche sul campo ci vengono fornite indirettamente dalla voce delle guide, che raccontano ai turisti, in tutte le lingue possibili, cosa è successo entro quei confini. La Babilonia di oggi è la stessa di ieri, e la sottile analogia tra i turisti del presente (che riempiono un campo già svuotato, settant’anni fa, dalla morte di massa) e i deportati del passato (solo a Sachsenhausen sono morti in 30.000) ci disturba e ci scuote. Come ci scuotono le centinaia di recensioni su Tripadvisor dei memoriali della Shoah, situati in ciò che resta dei campi di concentramento e sterminio di tutta Europa, dove gli stessi utenti finiscono per trasformare il Lager in un parco a tema o un ristorante, da valutare con un voto da uno a cinque stelle[22].
Nell’osservare il gironzolare di questi corpi-zombie all’interno del parco della memoria che è diventato il Lager di Sachsenhausen, viene in mente il film che più di tutti ha ragionato sulla mercificazione del passato in un parco divertimenti a tema, ovvero Jurassic Park (1993, Steven Spielberg). Come ha notato Massimo Causo, nel film di Spielberg come in quello di Loznitsa osserviamo «corpi chiamati a raccolta per celebrare la memoria fuori dal Tempo, figure vacanziere col naso in su, in mano il biglietto d’ingresso per lo spettacolo del passato»[23]. A un certo punto, in modo fin troppo didascalico ma non per questo innaturale, come nota Causo, passa davanti alla macchina da presai, come fosse un fantasma, un uomo con la maglietta di Jurassic Park, quasi a confermare i rimandi tra Spielberg e Loznitsa. L’utilizzo del bianco e nero storicizza le immagini del presente e richiama l’archivio dei più noti repertori della Shoah, tradizionalmente filmata in bianco e nero, ma soprattutto quel paradigma dell’Olocausto cinematografico contemporaneo che è Schindler’s List[24]. Così come Spielberg, anche Loznitsa decide di non varcare mai la soglia della camera a gas. Rimane fuori, un po’ per ossequio e un po’ per voyeurismo, a osservarla dal buco della serratura (in questo caso una porta aperta sull’esterno)[25]. Dentro, intravediamo le sagome dei turisti in visita, accalcati l’uno sull’altro, smaniosi di fissare sulle loro fotocamere l’autenticità perduta di un’immagine mancante, per richiamare una fortunata formula di un famoso film del regista cambogiano Rithy Panh. Questo approccio alla forma statuale delle immagini, come ha osservato Michele Guerra, finisce per mostrare «come cambia il nostro comportamento nel tempo dell’immagine a tutti i costi, del gesto inconsulto del riprodurre ogni cosa, nella rinuncia a intravedere»[26]. Posti di fronte all’impossibilità di distogliere lo sguardo, anche noi cerchiamo di scrutare qualcosa da fuori, ma non riusciamo a vedere niente. Ciò che ci è dato osservare, così come nel resto della “visita”, sono i turisti che fotografano, ma non l’oggetto del loro scatto (e qui torniamo, paradossalmente, a Nemes). Lentamente, in un interminabile viaggio di ritorno, siamo poi ricondotti all’uscita. Dopo circa novanta minuti e trentadue inquadrature fisse, i cancelli del campo si riaprono, in quella che è la sequenza più lunga di tutto il film. I turisti/deportati possono finalmente uscire da dove sono entrati, e noi con loro, dopo averli osservati di nascosto dallo spioncino dello schermo.
Conclusione: un possibile percorso trasversale
Come abbiamo visto, i tre film analizzati utilizzano tre modalità di messa in scena molto diverse tra loro. Se i primi due sono inequivocabilmente racconti di finzione con una propria drammaturgia interna (anche se Il figlio di Saul rimanda a vicende realmente accadute), Austerlitz è invece un documentario anomalo, che assume le forme di un vero e proprio film-saggio. Il film di Pawlikowski e quello di Loznitsa condividono l’utilizzo di un bianco e nero che ha la doppia funzione di estetizzare e storicizzare, ma il secondo è molto più vicino al film di Nemes nella capacità di rilanciare questioni teoriche relative sia alla rappresentazione che alla costruzione della memoria della Shoah. In tutti e tre i film, lo stile utilizzato richiama quello del cinema d’autore degli anni Sessanta: non solo per l’adozione congiunta di una fotografia in bianco nero e della macchina fissa (Ida e Austerlitz), ma anche per l’utilizzo della macchina a mano, delle sfocature e dei lunghi piani sequenza (Il figlio di Saul). Inoltre, in tutti e tre i casi abbiamo evocato i continui rimandi, più o meno espliciti, a quello che rappresenta, dal 1989 a oggi, il paradigma della rappresentazione della Shoah sullo schermo: Schindler’s List. Questa commistione di referenze, tra cinema d’autore europeo e dimensione globale del cinema hollywoodiano (o forse dovremmo dire spielberghiano), la ritroviamo del resto nei percorsi di circolazione dei tre film: presentati in anteprima a festival cinematografici internazionali (Ida a Telluride, Il figlio di Saul a Cannes, Austerlitz a Venezia), tutti hanno visto proprio nei film festival dei passaggi essenziali per garantirsi una distribuzione internazionale. Successivamente, due di questi sono stati premiati come miglior film straniero agli Oscar (Ida nel 2015 e Il figlio di Saul nel 2016), mentre Austerlitz, proprio in virtù della sua natura di film-saggio, ha seguito una sua circolazione non-theatrical[27] e più di nicchia, soprattutto presso Università, centri di ricerca e istituti di cultura internazionali. Oltre alle tendenze stilistiche e ai percorsi di circolazione, ad accomunare i tre film vi è anche questo continuo bisogno di dialogare con, e allo stesso tempo porsi costantemente al di fuori dei canoni dell’Holocaust film: Ida, Il figlio di Saul e Austerlitz sono sì parte di una riflessione congiunta sul senso, nel presente, di una memoria comunicante est-europea della Shoah, ma sono anche tre profonde meditazioni, autonome e tra loro divergenti, sulla natura delle immagini del passato e sulla loro funzione teorica per spiegare il presente[28].
Note:
[1] Secondo Guido Oldrini, questa generazione di giovani registi resta per lo più «impigliata» in un pessimismo di fondo che, di fatto, impedisce di proporre una «linea poetica autenticamente nazionale», G. Oldrini, Il cinema nella cultura del Novecento. Mappa di una sua storia critica, Le Lettere, Firenze 2006, p. 358.
[2] Per un approccio trasversale sulle tendenze storiche del cinema est-europeo, cfr. D. Iordanova, Cinema of the Other Europe. The Industry and Artistry of East Centrale European Film, Wallflower Press, Londra e New York 2003.
[3] Su queste intersezioni tra locale e globale che coinvolgono il cinema europeo del nuovo millennio, cfr. T. Elsaesser, European Cinema. Face to Face With Hollywood, Amsterdam University Press, Amsterdam 2005.
[4] Su questa tendenza, cfr. E. Mazierska, The East Meets the West in Contemporary Eastern European Films, in I. Bondebjerg, E.N. Redvall e A. Higson (a cura di), European Cinema and Television, Palgrave Macmillan, Londra 2015.
[5] P. Masciullo, Europa. Identità in transito, in A. Cervini (a cura di) Il cinema del nuovo millennio. Geografie, forme, autori, Carocci, Roma 2020, pp. 127-146 (citazioni a pp. 130, 136).
[6] T. Ebbrecht-Hartmann, Locked Doors and Hidden Graves. Searching the Past in Pokłosie, Sarah’s Key and Ida, in O. Kobrynskyy e G. Bayer, Holocaust Cinema in Twenty-First Century. Memory, Images, and the Ethics of Representation, Wallflower Press, Londra e New York 2015, pp. 141-160 (citazione a pp. 153-154).
[7] Sulla rappresentazione della Shoah nel cosiddetto Nuovo cinema polacco, cfr. M. Haltof, Polish Film and the Holocaust. Politics and Memory, Berghahn, Oxford 2012, pp. 74-114. Sulla tradizione letteraria del nuovo cinema polacco degli anni sessanta, cfr. A. Sosnowski, Cinema in Transition: The Polish Film Today, in “Journal of Popular Film & Television”, vol. 24, n. 1, 1995.
[8] Su questa analogia si veda G. Fuller, Ida, in “Film Comment”, maggio-giugno 2014, p. 71.
[9] P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 27-29.
[10] Per le testimonianze più importanti, cfr. C. Saletti (a cura di), La voce dei sommersi. Manoscritti ritrovati di membri del Sonderkommando di Auschwitz, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 117-119. Per un racconto più specifico da parte di un sopravvissuto italiano, si veda S. Venezia, Sonderkommando Auschwitz, Bur, Milano 2007.
[11] Cfr. G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina, Milano 2005 (ed. or. 2003). Per ricostruire il dialogo a distanza tra Nemes e Didi-Huberman, si segnala una lunga lettera aperta indirizzata al regista da parte del filosofo francese, G. Didi-Huberman, Sortir du noir, Editions de Minuit, Parigi 2015, e un’intervista con il critico cinematografico Antoine de Baecque, pubblicata nel pressbook americano del film, in cui Nemes ha dichiarato il suo debito nei confronti di Didi-Huberman, cfr. A. de Baeque, Interview with László Nemes, disponibile al link https://www.sonyclassics.com/sonofsaul/sonofsaul_presskit.pdf. Per una lunga ricognizione del dialogo teorico tra Didi-Huberman e Nemes, cfr. M. Guerra, Il limite dello sguardo. Oltre i confini delle immagini, Raffaello Cortina, Milano 2015, pp. 67-89.
[12] de Baecque, S.D.
[13] Quando si parla di indicibilità della Shoah viene spesso citato il celebre paradigma proposto da Theodor W. Adorno circa l’impossibilità della cultura di rappresentare lo sterminio del popolo ebraico. La frase attribuitagli «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie» è stata ampiamente strumentalizzata dagli intellettuali del dopoguerra. Per le più importanti posizioni intellettuali in questo senso, cfr. George Steiner, Language and Silence, Faber and Faber, Londra 1985 e Eli Wiesel, Signes d’exode, Grasset, Parigi 1985. Per una ricostruzione del dibattito in relazione alla cultura visuale, cfr. A. Minuz, Trauma, melodramma, memoria. Percorsi nel cinema della Shoah, in R. Badii e D. D’Andrea (a cura di), Shoah, modernità e male politico, Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 281-293. Le posizioni di Lanzmann sono ampiamente discusse (e parzialmente confutate) in M. Boswell, Holocaust Impiety in Literature, Popular Music and Film, Palgrave Macmillan, New York 2012.
[14] Cfr. l’intervista a Lanzmann in M. Blottière, Claude Lanzmann: Le Fils de Saul est l’anti Liste de Schindler, in “Télérama”, 25 maggio 2015.
[15] G. Didi-Huberman, 2015, p. 30.
[16] C. Larsson, Making Monsters in László Nemes’ Son of Saul, in “Senses of cinema”, n. 81 (dicembre 2016), http://www.sensesofcinema.com/2016/feature-articles/son-of-saul/#fnref-28598-22.
[17] W. G. Sebald, Austerlitz, Adelphi, Milano 2002 (ed. or. 2001).
[18] Cfr. B. Murmelstein, Terezin. Il ghetto-modello di Eichmann, Cappelli, Bologna 1961.
[19] Sebald, 2002, p. 263.
[20] Cfr. G. Mosch e A. Levy, Il campo di concentramento di Sachsenhausen 1936-1945: avvenimenti e sviluppi, Metropoli, Berlino, 2013.
[21] Sulle pratiche turistiche connesse alla memoria della Shoah, cfr. T. Cole, Selling the Holocaust. From Auschwitz to Schindler, Routledge, New York 2000. Per una riflessione più aggiornata, D. P. Reynolds, Postcards from Auschwitz: Holocaust Tourism and the Meaning of Remembrance, New York University Press, New York 2018.
[22] Su questa tendenza si veda A. Minuz, «Se questo è un viaggio». Auschwitz nelle recensioni su Tripadvisor, in “Fattore Erre”, 26 gennaio 2014.
[23] M. Causo, 24 fotogrammi da Austerlitz, «Sentieri Selvaggi», 3 febbraio 2017, https://www.sentieriselvaggi.it/blog-visioni-24-fotogrammi-da-austerlitz/.
[24] Per la centralità di Schindler’s List nella costruzione di un immaginario globale della Shoah, cfr. A. Minuz, La Shoah e la cultura visuale. Cinema, memoria, spazio pubblico, Bulzoni, Roma 2010. Sulle referenze del film nella cultura popolare, cfr. D. Garofalo, Red Coat Reloaded: «Schindler’s List», l’immaginario della Shoah e la cultura pop, in F. R. Recchia Luciani e C. Vercelli (a cura di), Popshoah? Immaginari del genocidio ebraico, Il Melangolo, Bari 2016, pp. 171-186.
[25] Sul motivo voyeur dello spioncino della camera a gas, cfr. L. Saxton, Haunted Images. Film, Ethics, Testimony and the Holocaust, Wallflower Press, Londra-New York 2008, pp. 68-91 e B. Langford, “You Cannot Look At This: Thresholds of Unrepresentability in Holocaust Film”, in “Journal of Holocaust Education”, vol. 8, n. 3, 1999, pp. 23-40.
[26] Guerra, 2015, p. 15.
[27] Cioè al di fuori della distribuzione cinematografica.
[28] Per una riflessione sulla didattica della Shoah attraverso le immagini, cfr. S. Morganti, Il cinema a scuola: quale esperienza e quale metodologia? Riflessione sulla memoria della Shoah tra visibilità e invisibile, in “Novecento.org”, n.19, giugno 2023. DOI: 10.52056/9791254693872/07