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Conflitti di memorie: storia e memoria del comunismo, riflessioni dall’osservatorio tedesco

Conflitti di memorie: storia e memoria del comunismo, riflessioni dall’osservatorio tedesco

Una parte del muro di Berlino ancora in piedi.

Abstract

La Germania, coi suoi luoghi di memoria stratificati, eredità della sua drammatica storia novecentesca, è un osservatorio privilegiato per seguire il dibattito sulla revisione dei canoni memorialistici circa la storia del secolo passato e in particolare sulla complessa vicenda del comunismo. Nei primi decenni successivi alla riunificazione nel 1990, la Germania ha vissuto fortissimi conflitti di memorie concorrenti, che oggi vediamo manifestarsi su scala continentale nella profonda faglia che divide la memoria collettiva dei popoli europei fra Est e Ovest. Quei conflitti sono stati una dura scuola e hanno stimolato un processo di maturazione di un largo consenso “antitotalitario” che oggi può essere modello d’ispirazione per altri contesti, non ultimo quello italiano, e a livello europeo.

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Germany, with its layered sites of memory, a legacy of its dramatic twentieth-century history, is a privileged observatory to follow the debate on the revision of memorialistic canons about the history of the past century and in particular about the complex story of communism. In the first decades after reunification in 1990, Germany experienced very strong conflicts of competing memories, which we see manifesting today on a continental scale in the deep fault that divides the collective memory of European peoples between East and West. Those conflicts were a tough school and stimulated a process of maturation of a broad “anti-totalitarian” consensus that today can be a model of inspiration for other contexts, not least Italy, and at the European level.

Fondazione dei Memoriali del Brandeburgo

La Fondazione dei Memoriali del Brandeburgo (FMB) è un organismo di diritto pubblico che, dal 1993, si occupa di tenere viva la memoria del terrore, della guerra e delle dittature che hanno profondamente segnato la Germania, nella fattispecie la regione del Brandeburgo, nel secolo passato.[1] Oltre a effettuare e promuovere la ricerca storica, l’’attività educativa e la divulgazione su questo periodo storico, progettando mostre ed eventi (anche a sostegno e integrazione della didattica scolastica), si fa carico della cura e della gestione dei numerosi memoriali e musei presenti sul territorio del Brandeburgo, regione con una concentrazione particolarmente elevata di luoghi legati alle vicende più traumatiche del Novecento tedesco (la fondazione stessa ha sede a Oranienburg, nell’edificio che ospitò l’Ispettorato SS del lager di Sachsenhausen): dai campi di concentramento di Ravensbrück e Sachsenhausen, passando per il Memoriale delle vittime del programma nazista di eutanasia (Azione T4) a Brandeburgo sull’Havel, il penitenziario di Brandeburgo-Görden e il Memoriale dele vittime della “marcia della morte” nella foresta di Below, fino ai cosiddetti “lager speciali”, allestiti e gestiti dall’amministrazione militare sovietica di occupazione fra il 1945 e il 1950, e il carcere sovietico di Potsdam-Leistikowstraße, in uso al KGB fino al 1991. A completare questo denso paesaggio memorialistico si aggiungono inoltre i “luoghi della memoria” della repressione politica nella Repubblica Democratica Tedesca (RDT): citando solo i principali, il Centro diritti umani di Cottbus (ex penitenziario di Stato della RDT), le ex prigioni della Stasi a Potsdam e Francoforte Oder. Questi ultimi siti, però non sono gestiti direttamente dalla FMB, bensì da altre fondazioni o associazioni separate e indipendenti.

Nell’agosto dello scorso anno (2023) ha fatto molto discutere la decisione della FMB di proibire al Museo di Potsdam-Leistikowstraße un evento commemorativo in ricordo del Patto Hitler-Stalin nella giornata del 23 agosto, dal 2009 Giornata europea di commemorazione delle vittime dei regimi totalitari. I motivi addotti a spiegazione di questo drastico intervento sono stati tre. In primo luogo, secondo la direzione della FMB, il Patto dell’agosto 1939, col suo famoso protocollo segreto, e i seguenti accordi nazi-sovietici non avrebbero avuto alcun legame storico diretto con il memoriale del carcere dei servizi segreti sovietici, pertanto si proponeva di anticipare l’evento al 15 agosto per ricordare l’apertura di quella prigione, dove nell’immediato secondo dopoguerra, prima di diventare un carcere speciale del KGB, furono imprigionati dal controspionaggio militare sovietico (Smerš) numerosi civili tedeschi. In secondo luogo, la FMB esprimeva la propria preoccupazione in merito al dare eccessivo spazio al ricordo dell’intesa e della collaborazione fra Germania nazista e Urss staliniana, cosa che alla lunga avrebbe potuto indebolire la memoria della Shoah, annacquando la singolarità del genocidio ebraico e quindi l’inderogabile responsabilità storica che grava sulla Germania. In altre parole, accomunando nazismo e stalinismo, si rischiava di equiparare i due regimi totalitari, fornendo dunque un assist alle manipolazioni storiografiche dell’estrema destra miranti a scardinare le consolidate basi della memoria pubblica attraverso la riabilitazione di almeno una parte dell’esperienza storica del regime hitleriano e la decolpevolizzazione dei tedeschi. Infine, dato il momento politico delicato che avrebbe fatto da cornice all’evento (la guerra in Ucraina), questo poteva essere interpretato da taluni come una sgradevole manifestazione di ostilità alla Russia.[2]

Fra le voci che si sono levate a criticare severamente il veto posto dal FMB alla commemorazione del Patto Hitler-Stalin nella cornice del memoriale di Potsdam-Leistikowstraße c’è stata quella molto autorevole dello storico e sovietologo Karl Schlögel, il quale ha espresso, per un verso, stupore per il ricorso all’argomento del temuto indebolimento della singolarità della Shoah e del presunto cedimento al revisionismo della destra, preoccupazioni che dovevano ritenersi oramai superate, decadute, essendo cresciuta nel frattempo la consapevolezza del valore prezioso che ha l’esperienza di entrambi i totalitarismi novecenteschi, per esempio nelle repubbliche baltiche, in Polonia e nella Germania orientale, poiché consente di guardare al Novecento in un altro modo, di allargare gli orizzonti dell’analisi storiografica, operazioni che impongono di rivedere e arricchire i canoni della memoria pubblica calibrati negli anni della Guerra fredda. È evidente, ha concluso Schlögel, che a dispetto dei dibattiti e del lavoro intenso svolto negli ultimi decenni permanga in Germania come in altri paesi dell’Occidente europeo, rimasti al riparo dal dominio sovietico, una difficoltà a comprendere e recepire l’esperienza e l’eredità storiche del doppio totalitarismo, difficoltà che si è resa ancora più palese con le reazioni scatenate in Europa dall’aggressione russa all’Ucraina, laddove per esempio si è manifestata una sconcertante mancanza di empatia non solo verso la resistenza degli ucraini, ma anche verso le reazioni della Polonia, dei baltici, della Romania e della Moldavia, evidentemente condizionate da sedimentate esperienze e traumi del recente passato, eppure squalificate come atteggiamenti dettati da sentimenti russofobici.[3]

La “formula di Faulenbach” e la maturazione di un consenso “antitotalitario”

Queste problematiche non sono affatto nuove. Negli anni Novanta e Duemila, accese polemiche e fortissime tensioni accompagnarono l’istituzione di tutti i principali musei e memoriali dedicati alle repressioni operate dagli organi di sicurezza sovietici e della Rdt. Particolarmente critica si presentava la situazione in quelle strutture concentrazionarie, come i lager di Buchenwald e Sachsenhausen, e in istituzioni detentive, come le prigioni di Torgau e il penitenziario di Bautzen, dove nazisti, sovietici e autorità della Rdt si avvicendarono nella persecuzione dei loro rispettivi avversari politici (o presunti tali) in una relazione di continuità rispetto alla strumentalizzazione politica del diritto e al ricorso alla violenza. A infiammare gli animi (con picchi al limite dello scontro fisico!) fra storici e rappresentanti delle associazioni delle vittime era la questione in che relazione dovessero stare crimini e sofferenze del periodo 1945-89 rispetto alle precedenti violenze perpetrate dal regime nazista, dunque il problema della convivenza di memorie concorrenti. Io stesso ho potuto fare esperienza diretta di queste tensioni negli anni scorsi operando come formatore presso il Memoriale di Potsdam-Lindenstraße, luogo che presenta un’impressionante stratificazione storica: palazzo di giustizia dal 1820, il complesso, situato nel centro storico di Potsdam, ospitò dal 1933 al 1945 varie corti penali naziste, compresi, dal 1944, il tribunale speciale per i reati politici (Volksgerichtshof) e uno degli oltre 200 cosiddetti “tribunali della salute genetica” (Erbgesundheitsgerichte), istituiti nel 1934, che decretavano la sterilizzazione coatta di persone (per lo più minori) ritenuti affetti da malattie ereditarie e quindi inidonee a procreare. Nella primavera-estate 1945 si installarono nell’edificio, dotato sul retro di un ampio braccio carcerario eretto nel 1911, la polizia segreta staliniana e una serie di corti penali militari sovietiche per reati politici. Diverse migliaia di civili tedeschi vi subirono torture e, una volta estorte le confessioni, condanne a lunghe pene detentive, a morte per fucilazione, oppure all’internamento nel gulag sovietico di Vorkuta. Nel 1952 le autorità sovietiche cedettero la prigione alla Stasi, la polizia segreta della Rdt, che la utilizzò fino ai primi giorni di dicembre del 1989 per gli interrogatori e come carcere di detenzione cautelare per il distretto di Potsdam.

Le turbolenze scatenate dalla concorrenza fra gruppi di vittime, memorie e narrazioni differenti, apparentemente divergenti e incompatibili, sono state una dura scuola, dalla quale è dovuta passare l’elaborazione del comunismo in Germania nei suoi primi tre decenni dal termine della Guerra fredda. Il risultato è stato la maturazione di un consenso “antitotalitario”, che ha permesso al ricco e articolato panorama di realtà che fanno ricerca, formazione e divulgazione sull’esperienza del comunismo nella Germania orientale di emanciparsi dai problemi di gerarchizzazione della memoria storica, facendo propri orizzonti d’analisi comparativi e transnazionali. Oggi, anche al di fuori del ristretto ambito accademico, la ricerca e il dibattito su nazismo e stalinismo/comunismo hanno smesso di viaggiare su binari paralleli senza toccarsi, ma s’intrecciano e si stimolano a vicenda. Il consenso maturato attorno alla cosiddetta “formula di Faulenbach” (dal nome dello storico Bernd Faulenbach, nel 1992-194 consulente della prima commissione parlamentare d’inchiesta incaricata di stilare un primo bilancio sulle traumatiche conseguenze della repressione politica nella Rdt), secondo la quale i crimini staliniani non debbono in alcun modo ridimensionare quelli nazisti né, al contrario, possono risultare ridimensionati dal confronto con quelli nazisti, ha evidentemente contribuito a “pacificare”, a lenire i conflitti nei luoghi di memoria a cosiddetto “doppio” o “triplice passato”. Aprendo uno spazio che consente di lavorare sulla complessa eredità del comunismo senza sconvolgere radicalmente i paradigmi consolidati della memoria pubblica del nazismo, si sono create condizioni favorevoli e molto stimolanti per nuove letture della storia novecentesca. Episodi come quello sopra citato risalente all’agosto 2023 dimostrano però che anche il contesto tedesco, a mio parere particolarmente maturo, non è esente da frenate e ricadute.

La Germania è un osservatorio privilegiato per la storia del comunismo novecentesco

Per certi versi, la Germania è un osservatorio privilegiato dal quale seguire il dibattito sulla storia del secolo passato, in special modo per quanto riguarda la complessa vicenda storica del comunismo novecentesco. Perché in Germania troviamo riprodotte in scala minore la divisione della memoria pubblica europea e le controversie che l’accompagnano. In Germania, infatti, s’incontrano e collidono non solo le due memorie storiche tedesche dell’Est e dell’Ovest, ma anche, per così dire “per procura”, i discorsi della cultura della memoria europea occidentale, incardinata attorno al primato della Holocaust Education, e quelli dell’Europa orientale, che hanno esigenza di abbracciare anche l’esperienza del Gulag e delle persecuzioni comuniste. La profonda faglia nella memoria collettiva dei popoli d’Europa si è manifestata in maniera conclamata all’indomani dell’allargamento dell’Unione europea ai paesi in uscita dalla cattività sovietica, prima con le polemiche sviluppatesi attorno alle risoluzioni del parlamento europeo per una memoria comune, poi con il conflitto russo-ucraino, non tanto la guerra in sé, quanto piuttosto il suo corollario politico-culturale, penso alle misure predisposte dal governo di Kiev per cambiare i nomi alle strade e rimuovere simboli e statue di personalità della storia comunista, ma anche alla querelle attorno al riconoscimento dell’Holodomor come genocidio. In un caso (le risoluzioni dell’europarlamento) come nell’altro (conseguenze del conflitto russo-ucraino sulle politiche di memoria pubblica) vediamo intervenire dannosa la mano della politica in questioni storiche di una certa complessità, che richiedono invece con urgenza lucidità di analisi, equilibrio e indipendenza di giudizio, nella misura maggiore possibile.

L’esperienza tedesca ci dice che il conflitto di memorie e sensibilità storiche concorrenti fra paesi euro-occidentali e centro-orientali (ex comunisti, per intenderci) cui assistiamo porta con sé una preziosa opportunità, che dobbiamo sapere cogliere: quella di sviluppare una specifica modalità con la quale le società europee affrontano le loro storie intrecciate, un modello di memorie plurali, complesse e dialoganti, insofferente ad astrazioni affrettate, banali equiparazioni e artificiose costruzioni tutte politiche di “memoria condivisa”. Per fare questo occorre anche “fare i conti” col comunismo, vale a dire rimuovere quegli ostacoli, di natura politica, ideologica, emotiva ed identitaria, che ancora inibiscono le nostre capacità analitiche e di giudizio e non ci permettono di affrontare con piena serenità la vicenda di un fenomeno politico assai complesso, innanzitutto perché transnazionale e di dimensioni globali. A prescindere da scismi, scomuniche e “vie nazionali”, parliamo infatti di uno dei più vasti e articolati movimenti politici della storia, che ha coinvolto milioni e milioni di persone in tutti i continenti e attraversato quasi un intero secolo, e parliamo anche di una storia che, come ben scrive lo storico tedesco Gerd Koenen, si presenta come una «lunga staffetta di traslazioni [di un sistema di idee] da ovest verso est, dalla Francia alla Germania alla Russia e infine dalla Russia alla Cina e a tutto il mondo … una sequenza di adattamenti sempre nuovi e per sé stanti, assimilazioni e traduzioni in contesti temporali, geografici e culturali completamente diversi.»[4] Partire da questo presupposto, rende immediatamente riconoscibile quanto sterile, sghemba e limitante sia la sola dimensione comparativa, nella quale si costringe il dibattito (in Italia è un corsetto particolarmente asfissiante), fra nazismo e “comunismo” (scritto fra virgolette per indicare l’imprescindibile necessità di precisare cosa si intende: Lenin? Stalin? La Cina maoista? I regimi socialisti reali? Quelli europei, asiatici o africani? Cuba? Vietnam? La Cambogia di Pol Pot? E in Europa: il regime tedesco-orientale o quello bulgaro? negli anni Cinquanta o più tardi? E cosa aveva a che fare tutto questo coi comunisti occidentali?).

La faglia che separa le memorie storiche dei popoli europei è ancora molto profonda

Preme inoltre discutere dell’efficacia di concetti problematici ma ormai di larghissimo uso come quello di totalitarismo, la sua inadeguatezza ad abbracciare tutti le evoluzioni e differenziazioni nelle società tardo-staliniste. Occorre riflettere sulla lunga tradizione di funzionalizzazione politica della teoria del totalitarismo nei paesi dell’Est ex comunista quale uno dei principali strumenti discorsivi e analitici a disposizione delle opposizioni democratiche anticomuniste. Dopo la caduta dei regimi del socialismo reale, il concetto di totalitarismo fu adottato dai nuovi regimi democratici come strumento di legittimazione politica, divenendo una componente fondamentale della cultura storico-politica dei paesi dell’Europa centro-orientale, imperniata attorno all’idea del ripristino della “memoria della Nazione” soppressa dal comunismo. Sugli indirizzi storiografici nei paesi dell’Europa centro-orientale e dell’area postsovietica non ha però inciso soltanto il processo di transizione dalla dittatura comunista alla democrazia ma anche la necessità di un affrancamento dal predominio russo, elemento determinante nella costruzione di narrazioni storiche a carattere più o meno esplicitamente antirusso. Nella vasta area geografica che va dai paesi baltici ai Balcani, passando per Ucraina e Georgia, fino alle repubbliche asiatiche ex sovietiche, incontriamo quasi ovunque la strategia della vittimizzazione della Nazione, oppressa dall’occupazione e dalla subalternità allo Stato sovietico. La funzionalità di questo uso sistematico della categoria del totalitarismo nell’Est europeo alla contrapposizione netta fra il presente democratico e il passato comunista, presentato come aberrazione storica, come deviazione dal sentiero naturale della storia europea e nazionale, fa il paio con il ricorso sostanzialmente politico alla categoria specifica del genocidio estesa a un largo ventaglio di violenze, persecuzioni e deportazioni di massa, una lettura “etnicizzata” dei crimini staliniani interessata a renderli accostabili o sovrapponibili alla Shoah, in un quadro generale caratterizzato da tendenze a semplificare contesti storici complessi tramite schemi interpretativi costruiti per giustificare una piena equivalenza di nazismo e comunismo.

Se da un lato non può sorprendere il fatto che l’elaborazione del recente passato comunista sia stata (o lo sia ancora) avvertita dai popoli dell’Europa centro-orientale come più urgente di quella dell’occupazione nazista, con i suoi risvolti complessi e divisivi quali il collaborazionismo e le complicità nell’esecuzione della Shoah, dall’altro la conoscenza, quanto più ricca e differenziata possibile, dell’esperienza del comunismo sovietico in Europa orientale e altrove deve essere sprone a rimuovere definitivamente ogni ambiguità figlia delle lotte ideologiche del secolo passato e a sgomberare il campo dai fumi della mitologia rivoluzionaria comunista, il cui carattere mistificante è ormai ampiamente documentato da una vastissima e qualificata storiografia internazionale. Occorre finalmente congedarsi da una concezione benevola del leninismo, che ci si ostina a collocare in una storia di lotte per la libertà e l’emancipazione, la pace e la giustizia sociale, ascrivendo al solo stalinismo errori, orrori e la qualità totalitaria del fenomeno “comunismo”. Intendendo qui l’aggettivo “totalitario”, come fa il già citato Koenen, nel suo significato letterale ovvero la pretesa di «rifare da un unico centro di potere lo Stato, l’economia, la società, la cultura, i rapporti sociali, fino alla vita individuale e familiare di ogni singolo cittadino, in breve il totum della collettività»,[5] qualcosa che nella storia, all’epoca in cui vi fece ingresso, costituiva una novità assoluta. Su questo punto, il caso italiano è peculiare: l’irritazione di una parte della società italiana verso l’irreversibile processo di revisione della memoria storica innescato dall’inclusione in una memoria degli europei delle memorie dell’Est europeo tradisce un grande disagio. Rifugiandosi nell’esperienza del movimento comunista italiano, reclamandone l’originalità, il contributo alla resistenza antifascista e il ruolo di primo piano nella vita democratica nazionale (aspetti senz’altro reali), si conservano le forti ambivalenze che sono proprie della storia del comunismo novecentesco come fenomeno globale e interconnesso. Pur insistendo sulla positiva eccezionalità del comunismo italiano, asseritamente estraneo ai sistemi repressivi instaurati altrove, non ci si può chiamare fuori del tutto dalla dolorosa eredità di quella storia, perché l’essere o essere stati comunisti non significava solo aderire a un progetto politico, ma anche a una comunità ideale internazionale e il legame ideale con l’Urss e gli altri regimi realsocialisti (penso anche al mito della Cuba castrista), fu elemento costitutivo di quella specifica identità. Di conseguenza, il portato di quelle esperienze non può venire semplicemente disconosciuto. Deve essere invece affrontato criticamente.


Note:

[1] https://www.stiftung-bg.de/ (url consultata il 02.04.2024).

[2] https://www.tagesspiegel.de/potsdam/landeshauptstadt/eklat-um-leistikowstrasse-verein-wird-gedenken-im-ehemaligen-postdamer-kgb-gefangnis-verboten-10325506.html; https://www.tagesspiegel.de/potsdam/landeshauptstadt/streit-um-leistikowstrasse-in-potsdam-das-gespaltene-gedenken-10356724.html (url consultata il 02.04.2024).

[3] https://www.maz-online.de/kultur/regional/streit-um-gedenkdatum-in-potsdam-historiker-karl-schloegel-bezieht-position-3XETYHTHE5HW5LEDQAWQAVGWOM.html (url consultata il 02.04.2024).

[4] G. Koenen, Die Farbe Rot. Ursprünge und Geschichte des Kommunismus, München 2017, pp. 460-1.

[5] G. Koenen, Utopie der Säuberung. Was war der Kommunismus?, Frankfurt (Main) 2000, p. 27.