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Arte, immagini, tecnologie: il progetto GenerAction e l’educazione all’immagine nel terzo millennio

Arte, immagini, tecnologie: il progetto GenerAction e l’educazione all’immagine nel terzo millennio

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Abstract

L’era digitale ha radicalmente trasformato il nostro rapporto con le immagini, rendendo indispensabile un rinnovato approccio educativo all’immagine. Questo articolo esplora tale necessità, focalizzandosi sui principali presupposti che sottendono a una riflessione critica sull’educazione visiva nel contesto contemporaneo. Attraverso l’analisi di GenerAction, un progetto nell’ambito dell’educazione all’immagine, vengono esaminati alcuni metodi e tecnologie utilizzate per promuovere competenze creative e critiche nella scuola. Le esperienze condotte all’interno del progetto mostrano il potenziale delle attività pratiche e laboratoriali per esplorare creativamente le nuove frontiere della produzione audiovisiva contemporanea. Tuttavia, per affrontare le sfide future, è indispensabile investire nella formazione dei docenti e nella disponibilità di risorse, al fine di garantire una educazione all’immagine al passo con i tempi.

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The digital age has radically transformed our relationship with images, making a renewed educational approach to images indispensable. This article explores this need, focusing on the main assumptions underlying a critical reflection on visual education in the contemporary context. Through the analysis of GenerAction, a project in the field of image education, some methods and technologies used to promote creative and critical skills in schools are examined. The experiences within the project show the potential of practical and workshop activities to creatively explore the new frontiers of contemporary audiovisual production. However, in order to meet future challenges, it is essential to invest in teacher training and the availability of resources in order to ensure up-to-date image education.

Educare all’immagine oggi

Una trentina di anni fa diversi studiosi di cultura visiva prendevano atto di una svolta iconica, del passaggio cioè da una società in cui l’informazione era veicolata prevalentemente attraverso il testo a una in cui le immagini soppiantavano la parola scritta[1]. Se già allora l’educazione all’immagine era un tema urgente, esso è oggi diventato un requisito imprescindibile per orientarsi in un mondo a trazione visiva. Nonostante siamo immersi quotidianamente in un oceano di contenuti visivi e partecipiamo attivamente in un costante processo di produzione, circolazione e consumo di immagini, esse si rivelano oggetti di studio sfuggenti, polisemici e in rapida mutazione, che rimettono costantemente in gioco concetti e assunti, ridisegnando il panorama della ricerca accademica[2].

È altrettanto difficile analizzare le immagini senza far riferimento al complesso panorama delle tecnologie digitali che rappresentano il cuore della nostra quotidianità, alterando profondamente il modo in cui comprendiamo il mondo e agiamo su di esso. A esse si deve ad esempio la conversione, a partire dagli anni Duemila, della società di massa in una rete globale di utenti che diventano componenti attivi della produzione culturale. Oggi siamo tutti impegnati nella creazione di contenuti multimediali, nella loro analisi e nella loro manipolazione. Molti di questi sono immagini, alle quali abbiamo affidato il compito di rispondere ai nostri bisogni primari, dalla nutrizione al sesso, e contemporaneamente di soddisfare la nostra sete di senso, in altre parole abbiamo chiesto loro di mostrarci il mondo in maniera incontrovertibile. Grazie alle tecnologie digitali possiamo visualizzare tutto, dai luoghi più remoti agli anfratti oscuri del nostro corpo con un grado di realismo inedito, possiamo dar forma ai nostri più intimi desideri digitando poche parole in un software, o connetterci a miliardi di occhi aperti sul mondo e sulla vita degli altri per sfamare la nostra curiosità.

Quando affidiamo alle tecnologie di imaging il compito di spiegarci cos’è il mondo, di conferire ad esso senso, sorge un problema: nel mostrare esse tacciono, offrendosi alla fallibilità delle nostre interpretazioni. Le domande restano così senza risposta e le immagini appaiono per quello che sono: frammenti di una realtà complessa, nella quale spesso ciò che vediamo è fuorviante. Qualche anno fa Trevor Paglen, un noto artista statunitense, si chiedeva se fosse possibile fotografare fenomeni come il riscaldamento globale[3] e faceva un esempio: l’immagine straziante di un orso macilento in bilico su una sottile lastra di ghiaccio. Lo scatto aveva fatto il giro del mondo ed era stato impiegato da molte testate per accompagnare articoli in cui si denunciava la sparizione della calotta polare. La fotografia non aveva però alcun legame con il fenomeno descritto: scattata in primavera, la fotografia mostrava semplicemente un orso polare appena uscito dal letargo e quindi naturalmente in una condizione di debilitazione fisica.

Comprendere e raccontare l’immagine contemporanea non è dunque un compito semplice. Non si tratta nemmeno di una materia per la quale sono disponibili nozioni univoche e incontestabili. Al contrario, ci troviamo su un territorio in mutamento e per orientarci in esso dobbiamo rimetterci in gioco, esplorandolo attraverso un processo di tentativo ed errore.

A partire da tali considerazioni si è articolato il progetto GenerAction e, in particolare, la proposta formativa per docenti “Arte, immagini e tecnologia del Terzo Millennio”. Nei quattro incontri in cui si è sviluppato il corso, si è tracciata una traiettoria che, partendo dalle azioni spontanee che svolgiamo quotidianamente, è giunta a interrogarsi sul modo in cui esse ridefiniscono la nostra identità, intesa non più come la granitica nozione modernista del dato anagrafico, ma un’entità liquida, che può essere liberamente riconfigurata e cambiata con la semplicità con cui cambiamo un abito. In seguito, si è esplorato il mondo, anch’esso un’esplosione di frammenti, dimensioni, ambienti, in cui vigono regole e valori diversi, ma in cui tutti coesistono sotto l’egida del reale. Infine, è stato affrontato il tema dell’altro, rappresentato dagli agenti tecnologici che collaborano e competono con gli esseri umani nella produzione di senso. I quattro capitoli sono stati identificati da altrettante parole chiave: remix, identity, world, thought.

Remix

David J. Gunkel, in un saggio intitolato Of Remixology. Ethics and Aesthetics after Remix[4], sostiene che il remix, l’appropriazione e la rielaborazione cioè di materiale preesistente, rappresenta uno dei tratti caratterizzanti della contemporaneità. Da sempre situato sulla linea che corre tra autore e pubblico, originale e copia, legale e illegale, il remix è oggi un’azione ubiqua: la maggior parte di noi rimette in circolo contenuti prodotti da altri, modificandoli secondo i propri scopi. Il remix può anche essere inteso in senso etico ed epistemologico, specialmente quando riflettiamo sul modo in cui i social network, e la loro insistenza sulla produzione ipertrofica di contenuti multimediali, hanno alterato la nostra percezione del mondo. Lo spartiacque in questo rinnovato ruolo dell’utente è solitamente riconosciuto nella Primavera Araba, una serie di eventi durante i quali, per la prima volta nella storia, i cittadini diventavano giornalisti e fotografi, scavalcando le fonti di informazione e cambiando per sempre l’estetica del reportage: alle immagini “fabbricate”, di alta qualità dei fotoreporter si sostituivano le riprese sgranate e visivamente sgrammaticate dei cittadini, che imbracciavano telefoni cellulari dotati di una fotocamera e di una connessione a Internet.

Più queste immagini si accumulavano online, più esse costituivano una marea che sembrava portare via con sé significati, idee, professioni. Filmmaker e fotografi erano ora in competizione con gli utenti generici, nuovi linguaggi emergevano dalle maglie del Web, un calderone dove ribolliva una creatività diffusa.

In quel periodo l’artista austriaco Oliver Laric presentava Versions (2010), una serie di dipinti e di video-saggi nei quali affrontava il tema della copia. Il lavoro prendeva le mosse dalla pubblicazione di una fotografia da parte della Guardia Nazionale Iraniana, che aveva malamente impiegato Photoshop per aumentare il numero di batterie missilistiche in una fotografia. L’immagine era diventata immediatamente virale e gli utenti di Internet si erano sbizzarriti nella creazione di versioni alternative dell’evento, dove i missili aumentavano a dismisura, ricadevano a terra o venivano abbattuti da gattini giganteschi.

Il remix è tutt’altro che una pratica nuova. Da sempre esiste una tensione tra il potere che un’immagine esercita su di noi e la nostra capacità di agire su di essa, sia nell’estremo dell’atto iconoclasta sia in forme più giocose che ne criticano l’autorità. Tale atteggiamento è diventato ubiquo negli ultimi vent’anni, dando avvio a un processo di ricostruzione e frammentazione del mondo.

Identity

In questo complesso panorama anche l’identità è una questione di immagine e, di conseguenza, diventa flessibile. Attraverso l’opera di tre artiste la cui opera è incentrata sulla rappresentazione del sé, Cindy Sherman, Nikki S. Lee e Amalia Ulman, si è mostrato il legame tra la costruzione della propria identità e quella della propria immagine. Oggi questo processo avviene spontaneamente all’interno di videogame e social network: possiamo essere chi desideriamo e l’avvento dei mondi virtuali multiutente a partire dagli anni Novanta ha notevolmente intensificato questo processo, consentendoci letteralmente di cambiare identità con un clic.

Questo ruolo è spesso affidato all’avatar, il corpo virtuale che ci sostituisce quando entriamo in un ambiente digitale e che può trasformarsi in un’immagine idealizzata del sé con cui dare sfogo ai nostri desideri o compensare carenze che percepiamo nella vita di tutti i giorni, come emerge nella serie fotografica Alter-Ego del fotografo inglese Robbie Cooper (2009). I social network ci hanno abituato alla possibilità di presentarci come altro da sé o come un sé intensificato che mostra i suoi aspetti più intimi. I filtri di Instagram consentono ad esempio agli utenti di applicare una patina in tempo reale alla propria immagine, una superficie digitale che adatta i nostri connotati conformandoli alle convenzioni che attualmente definiscono lo standard della bellezza. In questo senso possiamo intravedere una continuità tra social network, ambienti virtuali e realtà. La questione dell’autenticità del nostro interlocutore o della verità diventa centrale e al tempo stesso forse superflua, perché più circoliamo online più ci accorgiamo che l’identità è un gioco, una proprietà del nostro corpo che possiamo modificare a piacimento.

World

Secondo l’urbanista Adam Greenberg, il mondo contemporaneo può essere visto come il sito di un’intensa attività da parte di individui e collettività, tutti ugualmente impegnati nella fabbricazione di una versione della realtà, aderente alle proprie idee, ai propri desideri o ai propri timori. Il risultato è che a volte possiamo sentirci fuori dal mondo o avere la sensazione di vivere in un universo diverso da quello degli altri[5]. Queste dimensioni sono spesso in contrasto o in competizione tra loro e tale polarizzazione può sfociare in eventi grotteschi e tragicomici come l’occupazione di Capitol Hill nel gennaio 2021 ad opera dei sostenitori dell’ex presidente americano Donald Trump, un attacco al cuore della democrazia americana trasmesso in diretta sui social network che assomigliava a una performance ad opera di una comitiva di turisti indisciplinati, che cantavano, si scattavano selfie e portavano con sé dei “souvenir” della loro gita nel cuore della politica statunitense. Alla luce di questo e di altri eventi recenti la realtà può essere definita un multiverso nel quale coesistono mondi la cui base materiale è a volte radicalmente diversa (pensiamo al nostro mondo di “carne” e a quelli elettronici o digitali, ma anche a quelli onirici, religiosi, interiori), ma tutti ugualmente presenti e autentici[6]. La realtà può dunque essere compresa come una condizione mista in cui siamo presenti in più luoghi allo stesso tempo: uno spazio “analogico” dove è situato il nostro corpo di carne e ossa e numerosi spazi digitali accessibili attraverso lo schermo di uno smart device o di un computer. In questo senso è impossibile separare l’esperienza del mondo fisico da quella dei mondi virtuali. Da questa descrizione emerge come ciò che negli ultimi anni è stato chiamato “Metaverso” non è semplicemente un’estensione del mondo fisico, ma un reame in cui vigono nuove convenzioni sociali, nel quale le differenze d’età, sesso o etnia diventano proprietà riconfigurabili. Più questi mondi acquisiscono popolarità più la loro frequentazione ci abitua a comportamenti che filtrano gradualmente nelle nostre interazioni sociali al di qua dello schermo, producendo fenomeni a volte incomprensibili per coloro che non frequentano gli ambienti virtuali. Quando nel 2016 Niantic lanciò sul mercato Pokémon Go!, il primo videogioco a sovrapporre al mondo un territorio di gioco virtuale, le strade di molte città furono invase da pedoni dal comportamento anomalo, comprensibile soltanto dal punto di vista del videogame: catturare i Pokémon che comparivano sulla mappa.

Thought

È difficile rendere conto della situazione sopra descritta senza prendere in considerazione il ruolo sempre più importante giocato dagli attori non umani nel processo di produzione, circolazione e fruizione di immagini. Tra essi l’intelligenza artificiale ha guadagnato in pochi anni una posizione chiave in molte aree della nostra vita. Le reti neurali giocano un ruolo centrale nella computer vision, quella branca della ricerca tecnologica impegnata a insegnare a un computer a vedere, attività che passa attraverso la lettura e l’analisi di grandi volumi di immagini, organizzati in archivi denominati dataset.

Il modo in cui le automobili a guida autonoma si orientano nello spazio o quello in cui applicazioni come DALL-E2 generano immagini a partire da comandi testuali partono dallo stesso presupposto: decifrare la complessità del mondo sotto forma di immagini. Poiché questa attività nasce in archivi di milioni di immagini etichettate e catalogate secondo criteri stabiliti da esseri umani, sorgono diversi quesiti etici relativi alla relatività della visione di chi programma le intelligenze artificiali. I dataset si stanno infatti rivelando pieni di bias culturali e di una visione profondamente radicata nell’Occidente, come messo in luce dalla ricerca combinata di Trevor Paglen e Kate Crawford[7].

L’intelligenza artificiale che arriva agli utenti è solitamente un plug-in inserito all’interno di altre applicazioni, che agevola operazioni di ricerca o produzione di contenuti. Spesso la sua presenza non è dichiarata, in altri casi è il vanto di un’azienda, come Open AI. Il panorama culturale, economico e sociale inaugurato dal suo ingresso prepotente nella nostra quotidianità sta mutando così rapidamente da prendere in contropiede studiosi e organi legislativi, costretti a inseguire un fenomeno che a volte sfugge al controllo stesso delle aziende. In questo contesto diventa fondamentale familiarizzare con questo particolare strumento, testarlo e conoscerlo tramite un approccio prima di tutto empirico. Siamo infatti vittime di decenni di film, fumetti e romanzi in cui l’intelligenza artificiale è stata demonizzata e rappresentata come un agente minaccioso. Il rischio che corriamo se restiamo vittime del coinvolgente immaginario hollywoodiano è quello di dimenticarci che dietro a ogni tecnologia, anche la più rivoluzionaria, ci sono sempre delle persone e le loro decisioni.

A scuola

Spesso in ambito scolastico le tecnologie digitali faticano a intercettare gli spazi dell’insegnamento. È difficoltoso inserire l’argomento all’interno dei programmi e, spesso, quando questo avviene, siamo spinti a farlo in un’ottica puramente pratica, dove l’apprendimento delle nuove tecnologie si riduce alla capacità di operare un software, funzionale a una certa visione professionalizzante dell’istruzione promossa da numerosi governi negli ultimi anni. Le tecnologie, tuttavia, prima di essere usate (o mentre vengono usate) vanno interrogate, osservate, messe in discussione. Molti docenti mostrano diffidenza nei confronti del digitale, ritenendo che esso comporti un’alterazione della capacità di studiare o apprendere. Nella società contemporanea l’insegnamento è diventato una sfida a tutti i livelli, dalle scuole primarie al terzo ciclo universitario. Le nostre soglie di attenzione sono cambiate, la nostra lettura del mondo è incomprensibile senza un vasto spettro di tecnologie; la comunicazione, il rapporto interpersonale sono mediati da una varietà di dispositivi. Così come i linguaggi mutano, anche l’insegnamento cambia con essi e noi, docenti e educatori, non abbiamo che una possibilità: metterci in gioco.

Negli ultimi decenni grazie alla tecnologia il mondo ha conosciuto profonde trasformazioni, tra cui la sempre più grande produzione e circolazione di immagini, che ha investito ogni aspetto della nostra vita – privata, collettiva, istituzionale – e ha modificato non solo il nostro modo di comunicare e di interpretare la realtà, ma anche la nostra modalità di apprendere e di relazionarci gli uni con gli altri.

In questo contesto, è essenziale che anche nella scuola si creino gli spazi e le condizioni per una rinnovata educazione alle immagini, intesa sia come fruizione e produzione consapevole di materiali visivi al passo con le trasformazioni in atto, sia come parte di una più ampia e fondamentale educazione ai media.

GenerAction

Questo è stato l’obiettivo di GenerAction. Innovare l’educazione all’immagine con metodi e tecnologie del XXI secolo, progetto nell’ambito del Piano Nazionale Cinema e Immagini per la Scuola promosso da MiC-Ministero della Cultura e MIM-Ministero dell’Istruzione e del Merito e realizzato da maggio a novembre 2023 da Fondazione Modena Arti Visive insieme a Wonderful Education, con la collaborazione di Associazione Fanatic About Festival – Biografilm Festival, PLIN – Project for Learning Innovation e tre scuole, l’IIS Venturi di Modena, l’ITET Einaudi di Bassano del Grappa e l’IIS Morra di Matera.

L’iniziativa è nata a Modena, una città che negli ultimi anni ha deciso di investire su digitale e tecnologie applicati ai linguaggi culturali e nel 2021 è entrata nel cluster delle città creative UNESCO per le Media Arts. GenerAction ha messo a sistema le esperienze di educazione all’immagine di Fondazione Modena Arti Visive, centro di produzione culturale, formazione e didattica finalizzato a diffondere l’arte e la cultura visiva contemporanee, e Future Education Modena, centro per l’innovazione educativa. Attraverso un programma di proposte formative diversificate, rivolte a docenti e classi di primarie, secondarie di I e II grado di tutta Italia, GenerAction ha sperimentato strumenti e metodologie didattiche per portare nelle scuole nuove modalità di educazione all’immagine in grado di relazionarsi con l’universo visuale attuale, in costante espansione ed evoluzione. Alla base dell’intero progetto c’è la concezione dei media visuali come luoghi di apprendimento profondo, attivo e personalizzato per l’acquisizione di chiavi interpretative del mondo contemporaneo ed un modello formativo improntato sulla multidisciplinarietà, che combina tra loro i diversi assi di consapevolezza mediale, competenze digitali e produzione artistica e audiovisiva.

Il programma per docenti – a cui hanno partecipato 89 insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado, provenienti da 13 regioni italiane – ha previsto corsi diversificati per argomenti e target, offrendo una formazione metodologica, tecnica e di contenuto sull’utilizzo consapevole delle immagini, per favorire in futuro la costruzione di percorsi didattici più accessibili e interdisciplinari, oltre che più vicini ai linguaggi contemporanei.

In quest’ottica è stato fondamentale per lo sviluppo del progetto inserire la proposta formativa “Arte, immagini e tecnologia nel Terzo Millennio”, i cui contenuti sono stati riportati anche in questo articolo, per coinvolgere i docenti in una lettura ad ampio raggio dello stato attuale del mondo delle immagini, delineandone le principali coordinate e approfondendo il contesto di creazione, condivisione e fruizione collettiva[8].

Inoltre, sono state analizzate la natura e le categorie dei media, le tecniche impiegate per costruire messaggi e produrre senso, studiandone i linguaggi specifici: è stato testato ad esempio come il videogame possa diventare uno strumento narrativo e come utilizzare a scuola le tecniche di media analysis, mediamaking e storytelling digitale.

Particolare attenzione è stata data agli elementi costitutivi del linguaggio fotografico e all’individuazione delle competenze necessarie a una produzione visiva efficace, delineando un utilizzo più integrato e consapevole delle immagini nella scuola, sia come linguaggio espressivo-comunicativo ma anche provando a capire come la didattica in classe possa integrare i diversi ambiti di produzione delle immagini usate oggi dalle giovani generazioni – dalla fotocamera degli smartphone alle piattaforme di gaming e fino all’intelligenza artificiale – sperimentando alcune nuove modalità possibili.

Infine, in maniera trasversale, si è posta particolare attenzione all’inclusione: l’introduzione di metodologie didattiche finalizzate alla promozione dell’inclusività nei percorsi di educazione all’immagine ha permesso da una parte la progettazione di scenari educativi inclusivi e dall’altro ha dimostrato come sia in questo strategico l’utilizzo del linguaggio visuale e delle tecnologie.

Un percorso speciale per le scuole secondarie di II grado

Tra le proposte formative rivolte alle classi, uno speciale percorso formativo ha coinvolto e messo in rete docenti e classi di 9 scuole secondarie di II grado nella creazione di nuovi audiovisivi attraverso tecniche digitali differenti, capaci di riflettere la complessità della produzione audiovisiva contemporanea – comunicativa, artistica e cinematografica – contraddistinta da una sempre maggiore ibridazione dei generi tradizionali in combinazione con animazioni digitali, realtà virtuale, gaming e intelligenza artificiale. Tre gli approcci tra cui i docenti hanno potuto scegliere:

  • Video-storytelling, ovvero la creazione di un racconto audiovisivo attraverso riprese video-fotografiche;
  • Machinima, ovvero la realizzazione di animazioni video attraverso piattaforme di videogioco e realtà virtuale;
  • Art of Coding, ovvero la generazione di composizioni grafiche in movimento attraverso il codice di programmazione.

Più di cinquecento studenti e studentesse hanno sperimentato nuove competenze per la produzione audiovisiva, lavorando con i propri docenti, con formatori, artisti e registi alla produzione di nuove animazioni, spot o brevi cortometraggi volti a promuovere gli obiettivi di sviluppo sostenibile evidenziati dall’Agenda 2030. Hanno così applicato le proprie capacità per affrontare e narrare in maniera creativa e collaborativa problemi di attualità dal forte impatto sociale e ambientale, come la sostenibilità ambientale, il bullismo o le discriminazioni.

La messa in rete dell’esperienza ha inoltre creato occasioni di incontro e di scambio tra i docenti e le classi coinvolte, permettendo loro di entrare in contatto con i meccanismi ideativi e produttivi del settore artistico, cinematografico e audiovisivo e acquisire specifiche competenze legate alle immagini (digitali, comunicative, artistiche, espressive e progettuali).

Conclusioni

L’educazione all’immagine nel terzo millennio si trova di fronte a sfide sempre più complesse e urgenti. La diffusione ubiqua delle immagini, alimentata dalle tecnologie digitali e dai social media, richiede un approccio educativo rinnovato e adattabile, in grado di fornire a studenti e studentesse le competenze necessarie per interpretare in modo critico e consapevole il vasto panorama visuale contemporaneo.

In questo contesto, il progetto GenerAction si è dimostrato un’importante iniziativa innovativa nell’ambito dell’educazione all’immagine. Attraverso la sperimentazione di nuove metodologie e tecniche che spaziano su diversi media, il progetto ha individuato alcuni strumenti utili per sviluppare percorsi didattici interdisciplinari e inclusivi, capaci di rispondere alle esigenze della società digitale attuale.

Le esperienze condotte all’interno del progetto hanno evidenziato l’importanza di un approccio olistico, che integri la comprensione dei linguaggi visivi con la consapevolezza critica delle tecnologie digitali e dei processi di produzione e circolazione delle immagini. Inoltre, GenerAction ha messo in luce il potenziale delle attività pratiche e laboratoriali, che permettono agli studenti di esplorare in modo creativo e collaborativo le nuove frontiere della produzione audiovisiva contemporanea.

Tuttavia, è fondamentale riconoscere che l’educazione all’immagine è un processo in continua evoluzione, che richiede un impegno costante da parte degli educatori e delle istituzioni, sia scolastiche che culturali. È necessario investire nella formazione dei docenti e nella disponibilità di risorse per sviluppare approcci didattici innovativi e sostenibili, in grado di preparare gli studenti a navigare in modo consapevole e critico nel complesso panorama visuale del mondo contemporaneo.

In conclusione, GenerAction rappresenta un importante punto di partenza per ripensare l’educazione all’immagine nel contesto scolastico. Tuttavia, per affrontare le sfide future, è indispensabile continuare a promuovere l’innovazione e la collaborazione tra istituzioni, educatori e comunità, al fine di garantire a bambini e ragazzi le competenze necessarie per comprendere e partecipare in modo attivo e responsabile alla cultura visuale del nostro tempo.

Bibliografia
  • S. Basar, D. Coupland, H. U. Obrist, The Age of Earthquakes, Penguin 2015
  • G. Boehm, La svolta iconica, Meltemi edu, 2009
  • A. Greenberg, Radical Technologies. The Design of Everyday Life, Verso, 2017
  • D.J. Gunkel, Of Remixology. Ethics and Aesthetics after Remix, MIT Press, 2022
  • N. Mirzoeff, Come vedere il mondo. Un’introduzione alle immagini: dall’autoritratto al selfie, dalle mappe ai film (e altro ancora), Johan & Levi, 2017
  • W.J.T. Mitchell, “Interdisciplinarity and Visual Culture”, Art Buulletin,Vol. LXXVII, n. 4, dicembre 1995
  • T. Paglen, The Last Pictures, University of California Press, 2012
  • M. Pasquinelli, The Eye of the Master. A Social History of Artificial Intelligence, Verso, 2023
  • S. Santilli, My Favourite Game. Fotografia e videogioco, Postmedia, 2023

Note:

[1] G. Boehm, La svolta iconica, Meltemi edu, 2009

[2] In ambito accademico, le discipline umanistiche e gli studi di cultura visuale stanno attraversando un momento di profonda ristrutturazione, metodologica e concettuale, che corona un percorso inaugurato intorno alla metà del secolo scorso dai cultural studies e proseguito nei decenni successivi dalle loro declinazioni: photography studies, visual culture studies, film studies, fashion studies, sono solo alcuni esempi. Il termine study in questo caso indica la volontà e la necessità di interrogare la forma e il metodo di una disciplina, analizzandola come materia situata nello spazio, nel tempo e all’interno di precise strutture sociali e culturali.

[3] Paglen T., The Last Pictures, University of California Press, 2012.

[4] Gunkel D. J., Of Remixology. Ethics and Aesthetics after Remix, MIT Press, 2022

[5] Greenberg A., Radical Technologies. The Design of Everyday Life, Verso, 2017

[6] Santilli S., My Favourite Game. Fotografia e videogioco, Postmedia, 2023

[7] K. Crawford, T. Paglen, Training Humans, Osservatorio Fondazione Prada, Milano, 12/09/2019-24/02/2020

[8] Strategico per questo quanto qui descritto nella prima parte che fa riferimento al corso “Arte, immagini e tecnologia nel terzo millennio”, tenuto nell’ambito del progetto GenerAction da Simone Santilli, con un focus preciso sull’arte, strumento capace di fornire chiavi di lettura per l’orientamento e per l’interpretazione trasversale della realtà contemporanea.