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La Prima Guerra mondiale fra storia e uso pubblico del passato

La Prima Guerra mondiale fra storia e uso pubblico del passato

Come la storia scolastica produce la comprensibilità del passato.

Abstract

Le condizioni che permettono ai nuovi concetti della ricerca storica di passare nei contenuti scolastici sono molto differenti da un tema all’altro. Nel mondo francofono, alcuni concetti relativi alla Grande Guerra – “cultura di guerra” e di “brutalizzazione” – sono transitati molto rapidamente dalla ricerca alla scuola, contrariamente a ciò che avviene abitualmente. Ciò per quanto siano molto discutibili e molto discussi effettivamente tra gli storici. I problemi che questi concetti pongono sono la ricostruzione del presente nel passato e la considerazione degli attori sociali della guerra.

Brutalizzazione e cultura di guerra

Fra le numerose questioni che si pongono alla storia scolastica, due attraggono particolarmente la nostra attenzione: da una parte, quella dei legami che essa intrattiene con la ricerca storica e le sue controversie, visto che la scuola tende naturalmente a privilegiare un racconto liscio, che mette poco in risalto le contraddizioni; dall’altra, quella del modo con cui la scuola affronta i traumi del passato, di come li riconosce o li occulta, e, in questo modo, di come affronta il tema della loro memoria.

Die Vernichtung Prima guerra mondiale

Die Vernichtung (La distruzione), di Hans Baluschek. 1915. Bröhan-Museum.

L’esempio della Prima Guerra mondiale è particolarmente interessante, nella misura in cui questa tragedia di massa dà luogo a una querelle storiografica molto viva, soprattutto nel mondo francofono, intorno al coinvolgimento dei soldati, alla loro attitudine a uccidere e al valore delle loro testimonianze, rese a caldo o dopo qualche tempo. Questo tema è’ rilevante, in particolare, perché presenta la singolarità del passaggio rapidissimo di alcuni concetti di storia culturale, discutibili e discussi dal mondo della ricerca, a quello dell’insegnamento nelle scuole.

Per questo, è interessante sottolineare fino a qual punto concetti quali la «brutalizzazione» dei soldati della Prima Guerra mondiale o la «cultura della guerra», malgrado il fatto che siano stati subito contestati nel mondo degli storici, siano stati velocemente integrati nei manuali scolastici e nei programmi francesi, molto più rapidamente, in ogni caso, di molte proposte e concezioni storiografiche emerse nella ricerca nel corso dello stesso periodo. Ed è evidente che è interessante chiedersi perché.

La grammatica delle domande della storia insegnata

Precisiamo subito che questa riflessione si sviluppa a partire da una concezione dell’insegnamento della storia che punta a permettere agli allievi di attivare delle capacità di interrogazione e dei modi di pensare propri della storia e della sua epistemologia. Ci riferiamo, su questo punto, al concetto di «elementazione», sviluppato dai rivoluzionari francesi (Condorcet, Lakanal ecc.), elaborati per formare rapidamente una coorte di maestri, capaci di mettere in pratica il principio del diritto per tutti all’istruzione pubblica primaria. Questo concetto consiste, per ogni disciplina scolastica, nel decostruire i saperi che le sono propri, per ricavarne dei nuclei fondanti di conoscenza, capaci di sollecitare un potenziale di sviluppo cognitivo. Così, l’elementazione si distingue dal “sunto”, che taglia le informazioni e riduce il senso di una realtà storica. Come è stato sottolineato qualche anno fa da un compianto studioso di didattica delle scienze, l’elementazione dei saperi corrisponde ad una attivazione dell’appetito, mentre il sunto ad uno smorzamento della fame1.

Dal canto suo, la “grammatica delle domande” designa un’intera serie di elementi organizzatori di un apprendimento della storia che permetta di esercitare i modi di pensare della disciplina, associandoli alle tematiche esaminate2. Essa parte dalle questioni fondamentali intorno alle nozioni di identità, di problematicità e delle questioni socialmente vive, queste ultime – poi – riguardanti per lo più i problemi memoriali. Essa comprende delle attività centrali del pensiero storico, come la comparazione, la periodizzazione o l’analisi critica delle interazioni fra la storia e i suoi usi pubblici (conflitti di memoria, produzioni letterarie o artistiche ecc.). Ancora, sottolinea la necessità di ricostruire i presenti nel passato, di capire ciò che hanno vissuto gli attori di quei tempi, nei propri campi di esperienza e nei propri orizzonti di attesa3. Mette in evidenza delle questioni fondamentali, che si presentano sotto la forma di opposizione, a monte di ogni narrazione storica, per esempio fra inclusione e esclusione, o fra la possibilità di uccidere e l’aspirazione di proteggere la propria vita. Insiste sull’interesse di dispiegare le ricerche storiche lungo scale temporali, spaziali e sociali. Infine, in una ricerca di pluralità di prospettive, incita a considerare la stessa tematica da differenti configurazioni storiografiche, capaci di illuminarla4.

La brutalizzazione dei soldati e la cultura di guerra: due temi al centro della tesi della teoria del consenso

Per lunghi anni, ci spiegano Prost e Winter, la storia della Grande Guerra è stata un affare diplomatico, politico e militare. Quando migliaia di sopravvissuti ai combattimenti, ancora traumatizzati dall’esperienza di guerra, scrivevano i loro ricordi, a volte senza avere il coraggio di farli leggere, la storia accademica e ufficiale privilegiava una prospettiva dall’alto. Uno dei grandi storici di questo periodo, lo specialista delle relazioni internazionali Pierre Renouvin, lui stesso ferito al fronte, rifiutava di integrare la sua esperienza personale nella storia che scriveva. Bisognò, dunque, attendere la fine degli anni ’50 per vedere l’emersione sia della parola dei testimoni, sia di una concezione della storia che prendesse in conto la dimensione economica e sociale della guerra, delle sue cause e del suo svolgimento.

Historial de Peronne

Historial de Peronne. By Bodoklecksel (Own work) [CC-BY-SA-3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0) or GFDL (http://www.gnu.org/copyleft/fdl.html)], via Wikimedia Commons

Una terza configurazione storiografica apparve ancora più tardi, attorno all’’Historial de Péronne, nel cuore dei luoghi della battaglia della Somme5, e attorno all’approccio culturale alla Grande Guerra6. Questa, certamente, apre dei nuovi campi di riflessione e di ricerca. Ma alcuni dei suoi animatori sostengono una storia “interamente” culturale, che metta da parte le configurazioni precedenti. Questi studiosi cercano, in particolare, di sviluppare proprio quei due concetti – quello della “brutalizzazione” dei soldati (dal basso) e quello della “cultura di guerra”.

Il concetto di brutalizzazione designa un fenomeno collettivo di banalizzazione della violenza e della sua percezione, una forma di indurimento generalizzato degli spiriti. Esso è strettamente associato all’idea del consenso, cioè al fatto che la possibilità stessa della Grande Guerra, della sua violenza e della sua durata, si spiegherebbe largamente col sentimento patriottico dei suoi attori principali, i soldati, coinvolti con grande fervore in una guerra contro coloro che percepivano profondamente come i loro nemici.

Questo concetto pone tuttavia diversi problemi.

Sottolineiamo subito che, in origine, lo storico americano George L. Mosse aveva elaborato questo concetto a proposito del periodo fra le due guerre e dell’interiorizzazione della violenza fra i vecchi combattenti, dopo la Prima guerra. Lo considerava una chiave esplicativa dell’emersione dei totalitarismi e in particolar modo dei fascismi. Questo punto di vista poteva già essere messo in discussione, se rapportato alla portata delle idee pacifiste fra i reduci, ivi compresi quelli della Germania. Tuttavia, questo concetto non riguardava la Grande Guerra in quanto tale.

Nel mondo francofono, i sostenitori dell’idea della brutalizzazione hanno tradotto e trasferito il concetto di Mosse, applicandolo ai soldati delle trincee, come si vede già nel titolo e nel sottotitolo della traduzione francese della sua opera Fallen Soldiers7. Là si trova un primo limite del concetto, al quale occorre aggiungere altre considerazioni: Per André Loez et Nicolas Offenstadt8,in effetti:

Il termine “brutalizzazione” ha conosciuto una fortuna storiografica e mediatica inversamente proporzionale alla sua pertinenza storiografica. Lo troviamo anche in numerosi manuali della secondaria, fatto che non cessa di inquietarci, in ragione della sua carica semplificatrice.

Nei lavori di Stéphane Audoin-Rouzeau e di Annette Becker, esso diventa una chiave interpretativa generale del conflitto e della violenza […]. In questa ottica, si attribuisce ai combattenti, “resi brutali”, una violenza che avrebbero esercitato in modo massiccio durante la guerra, dalla quale essi non sarebbero stati capaci, successivamente, di riprendersi, ma che avrebbero mascherato “asettizzandola” nei loro racconti.

Tuttavia numerosi lavori empirici mostrano come questo termine sia semplificatore – ossia ingannatore – quando si tratta della violenza del primo conflitto mondiale.

Nel complesso, questo termine non è al momento che poco o nulla presente nelle fonti. Il suo uso appare dunque essenzialmente metaforico, tale da falsare la rappresentazione comune del conflitto, in special modo nell’insegnamento.

E’ dunque molto riduttivo descrivere uniformemente i soldati come se fossero diventati tutti dei bruti. La realtà della loro disponibilità a uccidere era ben più complessa. Essa cambia sia nello spazio sia nel tempo. Dipende da circostanze particolari, che inducono – ad esempio – a vendette, ma presenta soprattutto numerose variazioni nel corso della guerra9.

La questione della nozione di «cultura di guerra» non è meno problematica. Gli stessi due autori ne mostrano da una parte tutta la polisemia, la pluralità delle significazioni successive, assunte dal concetto. Ci mettono, d’altra parte, in guardia contro i limiti di una spiegazione esclusivamente culturale della Prima Guerra e delle esperienze combattenti :

Si devono distinguere, in particolar modo, tre formulazioni. Inizialmente, la «cultura di guerra» è definita in maniera molto larga : «Il campo di tutte le rappresentazioni della guerra prodotte dai contemporanei» (Audoin-Rouzeau e Becker, 1997, p. 252). In seguito, molti autori scrivono questo concetto al plurale, declinando diverse «culture di guerra» nazionali. Inscrivendosi in questa prospettiva, Antoine Prost e Jay Winter la definiscono in questi termini: «un amalgama di elementi di ogni genere, alcuni materiali, altri discorsivi, attraverso i quali i gruppi sociali e gli individui hanno dato senso alla guerra e adattato le loro vite e i loro linguaggi alla situazione che questa ha creato» (Prost eWinter, 2004, p. 218). Infine, c’è una variante nettamente più densa di “cultura di guerra” che vede, nel caso francese, «una spettacolare pregnanza dell’odio», che alimenta una «pulsione sterminatrice» (Audoin-Rouzeau e Becker, 2000, p. 122).

E, più in profondità, sembra problematico legare l’emergenza spontanea di una “cultura” a un evento, per quanto grande come quello della Guerra. Si comprende poco come una “cultura”, cioè un insieme complesso e coerente di rappresentazioni condivise, potrebbe fare la sua comparsa in poche settimane. Per giunta, il termine «cultura di guerra», legando una cultura a un evento, cancella la lunga durata, sulla quale, per l’appunto, una «cultura» si costruisce, si modifica e si trasmette. Infine, occorre rilevare la circolarità dei ragionamenti che si basano su questa nozione: si dice – a seconda delle occasioni – che questa cultura è «scaturita» dal conflitto o che ne è la «matrice», dunque che la violenza spiega la cultura e al tempo stesso che la cultura spiega la violenza … (Audoin-Rouzeau e Becker, 2000, p. 259).

Wake up America, prima guerra mondiale

James Montgomery Flagg. Un manifesto propagandistico del 1917 contro l’Isolazionismo.

Malgrado questi limiti, i concetti di «brutalizzazione» e di «cultura di guerra» hanno fatto la loro rapida comparsa nelle pratiche scolastiche, nei programmi e nella maggior parte dei manuali10, per quanto la loro irruzione massiccia sia stata in seguito attenuata, senza dubbio sotto l’effetto della controversia pubblica. Certo, da molti punti di vista, questi concetti di storia culturale si presentano ricchi di interesse e piuttosto attraenti. Aprono nuovi interrogativi, nuovi campi di ricerca; ci fanno scoprire fonti originali, per esempio il campo della propaganda bellica e il processo di costruzione del fronte interno, specialmente delle donne e dei bambini, con il conseguente impegno finanziario e simbolico lungo tutto il periodo bellico. Ci inducono, tuttavia, in una rappresentazione molto riduttiva dei combattenti e del loro coinvolgimento, postulando il loro consenso collettivo alla guerra. Ora, questa tesi è anch’essa troppo semplificatrice. Non tiene conto della complessità del passato, della pluralità delle esperienze di guerra, molteplici e in cambiamento, e nemmeno del ventaglio dei fattori di motivazione dei comportamenti, in quella vasta tragedia che fu la Grande Guerra. Si fonda, infine, sull’illusione di una cancellazione delle disparità sociali nel fondo delle trincee11.

Il problema della comprensione del passato e delle testimonianze

Già durante la guerra, ma soprattutto nel corso del decennio seguente, molti furono i poilus [come erano chiamati i fanti francesi] che hanno scritto della loro esperienza di guerra e redatto una testimonianza. Tanti di loro hanno effettivamente sperimentato la difficoltà di raccontare l’orrore della loro esperienza a chi stava vicino a loro, e la difficoltà di farsi comprendere. Ma anche se non erano ancora integrati nella Storia che contemporaneamente si stava elaborando, questi testimoni erano portatori di un punto di vista che suscita un dibattito ancora oggi. In effetti, gran parte di questi racconti esprime idee pacifiste e la necessità di non tornare più all’assurdità della guerra, la cosiddetta “der des der”. Certamente, l’analisi critica dello storico lo conduce a interrogarsi sulla possibilità della ricostruzione di un sentimento pacifista tardivo, elaborato nel contesto del dopoguerra. Senza dubbio, si tratta di un’ipotesi pertinente, ma non sufficiente a invalidare il valore delle parole e degli scritti dei testimoni.

E’ in questo momento che appare un personaggio singolare e originale, Jean-Norton Cru. Fin dalle trincee, questo combattente leggeva e compilava liste di testimonianze, interrogandosi sulla loro credibilità e la loro veracità. In effetti, voleva che la parola dei suoi camerati fosse diffusa e ascoltata, senza però che fosse distorta e riutilizzata al servizio della propaganda. Questo lo condusse a redigere un’opera notevole sotto molti aspetti, il suo libro Témoins, pubblicato nel 192912. Egli passa al setaccio critico 252 testimonianze, cioè quasi 300 documenti, che organizza in cinque categorie: i giornali, i racconti, le lettere, i saggi e i romanzi. Fondandosi in primo luogo sul loro «valore di verità», ha ordinato queste testimonianze in una scala da uno a cinque, secondo la loro qualità documentaria. Ancora oggi, questo approccio critico è schernito da avversari che ne stigmatizzano l’ingenuità e l’impossibile oggettività. E’ una classificazione, pur tuttavia, molto interessante, nella misura in cui fornisce dei criteri per la critica e la messa in controluce delle testimonianze.

Ecco il racconto di guerra, quello che il pubblico ama, il racconto che fa palpitare di interesse senza far soffrire per le angosce dell’autore. Un ottimismo che nulla distrugge impregna tutto il libro […]

Piomba in piena mischia, una di quelle mischie serrate, compatte, fabbriche di rumore, di ubriachezza e di sangue come gli artisti le rappresentano da più di mille anni, che forse non sono mai esiste e come non sono mai esistite nella Grande Guerra.

In questo esempio13, l’autore se la prende con il racconto del frate belga Martial Lekeux, Mes cloîtres dans la tempête, apparso nel 1922. E’ allora interessante vedere quali tipi di rappresentazione Jean-Norton Cru fustiga come altrettante frottole, nate dalla propaganda di guerra e lontanissime dalla descrizione della guerra, per come essa fu, e per come gli apparve nel corso della sua esperienza.

Noi presentiamo qui, scrive l’autore nella sua introduzione, un insieme di testimonianze di combattenti, perché crediamo che serviranno sia al pubblico e sia agli specialisti in due modi diversi. I sociologi, gli psicologi, i moralisti vi apprenderanno che l’uomo non arriva a combattere se non per un miracolo di persuasione e di inganni, perpetrato in tempo di pace dalla falsa letteratura, dalla falsa storia dalla falsa psicologia di guerra: e se si sapesse ciò che il soldato apprende nel suo battesimo di fuoco, nessuno consentirebbe ad accettare il giudizio delle armi: né amici, né nemici, né governi, né parlamenti, né elettori, né riservisti, e nemmeno i soldati professionisti14.

Quali sono le trappole, i vicoli ciechi che Jean-Norton Cru vuole risparmiare ai lettori di queste testimonianze? Fra le leggende e i cattivi racconti, che egli mostra per meglio osservarli, ecco cosa sottolinea :

  • la lotta e il gusto per la lotta che avvince il combattente;
  • la carica e lo scontro nel combattimento, presentati come l’assalto, di corsa, in gran numero e in massa;
  • allo stesso modo, gli attacchi in ranghi serrati;
  • ma anche i cumuli di cadaveri, descritti con insistenza;
  • tutti con i loro fiotti di sangue;
  • l’uso ricorrente della baionetta, presentata come l’arma favorita del fante;
  • i coraggio indistruttibile del buon soldato, come anche la paura vergognosa del cattivo soldato;
  • il grido «Si levino i morti!» e l’idea che anche i caduti avrebbero difeso la trincea;
  • la trincea delle baionetta, marcata dai combattimenti corpo a corpo.

In generale, queste figure retoriche e queste tematiche creano l’immagine di una guerra eroica, descritta secondo i canoni e un’estetica letteraria che Jean-Norton Cru denuncia con vigore, in nome della memoria dei suoi compagni morti sul fronte. Per lui, l’esigenza di verità deve prevalere, per rendere loro l’omaggio dovuto.

Al cuore della controversia storiografica attuale, la figura del testimone dunque è convocata per mettere in chiaro i punti di vista. Sul versante della cultura di guerra e della brutalizzazione, la scelta è così quella di scartarla deliberatamente e di invalidarla, a vantaggio di altre fonti documentarie. Ed è anche rivelatore il fatto che l’Historial di Péronne non presenti la voce di un solo testimone, ma un gran numero di opere e di documenti di propaganda. La storia culturale vi viene sviluppata con brio, in questo museo, ma a detrimento della storia sociale, come se la terza configurazione storiografica dovesse annullare la precedente.

Jean-Norton Cru è in questo modo paradossalmente rifiutato per la sua pretesa soggettività, proprio mentre cerca di mettere in prospettiva le testimonianze e di leggerle con un metodo critico. E’ tuttavia interessante ricordare, e rileggere, gli autori che lui apprezza e che gli sembra rendano conto dell’esperienza di guerra, in particolare Maurice Genevoix. All’epoca della pubblicazione di Témoins, uno degli autori di romanzi che Norton-Cru fustigava, Roland Dorgelès, gli aveva replicato seccamente che «se fosse stato sufficiente aver vissuto un dramma per raccontarlo bene, non sarebbe stato Flaubert a scrivere Madame Bovary, ma il farmacista»15. Questo atteggiamento elitario e un po’ sprezzante, senza dubbio, non è del tutto scomparso oggi.

Delle tante porosità fra ricerca storica e trasmissione scolastica della storia

Riprendiamo ora la problematica delle interazioni fra ricerca accademica e insegnamento scolastico. Come, a quali ritmi e secondo quali modalità le nuove acquisizioni della ricerca passano nei contenuti scolastici? Questo meccanismo funziona in modo diverso, a seconda dei temi di studio? E perché?

Ciò che vogliamo mettere in evidenza, è il passaggio particolarmente rapido dei concetti di brutalizzazione e di cultura di guerra sia nei contenuti come nelle pratiche scolastiche francofone, in un contesto in cui, paradossalmente, si osserva nel campo dell’educazione e delle pratiche scolastiche una forte continuità, e specialmente la persistenza di stereotipi colti16. Questi concetti riduttori si sono agevolmente diffusi certamente per effetto della moda, come per la loro facilità. Ma come spiegare questo fenomeno? E’ in questione, sicuramente, un pensiero dominante, che riesce più di altri a imporsi. E’ anche l’effetto di un interesse per l’esaltazione di un certo pathos, rafforzato dall’uso di fonti iconografiche originali e attraenti, specialmente quando mostrano l’irregimentazione dei bambini nella propaganda di guerra.

Qui, tuttavia, vorremmo perorare la causa della complessità della storia. Anche per evitare che l’inclusione nei programmi degli apporti della storia culturale non induca le pratiche scolastiche a spazzar via la dimensione sociale nella comprensione del passato. Ancora una volta, occorre evitare che l’emergere di una nuova configurazione storica cancelli quella precedente. Questa esigenza è, d’altronde, tanto più importante quando si tratta di un tema, i cui problemi storiografici sono così fondanti, come è il caso della Grande Guerra. Questi, infatti, chiamano in causa proprio la questione della natura dell’uomo, dello spazio di iniziativa degli attori sociali e della complessità delle società.
Non rinchiudersi in concetti semplificatori, è in effetti la possibilità di rendere conto della molteplicità delle esperienze di guerra, evitando categorizzazioni abusive. E’ applicare alla Grande Guerra quello che Pierre Laborie ci incita a fare a proposito della Francia sotto l’occupazione tedesca: prendere le distanze dalle idee scontate. Prendere in considerazione la pluralità delle identità e delle esperienze, anche alla scala minima di un solo oggetto di ricerca; non limitarsi soltanto alla doxa (il sentire comune) e alle sue semplificazioni17.

Sullo stesso versante, questo problema delle testimonianze dei soldati ci porta a riflettere sulla natura umana e alle concettualizzazioni legate ad essa. Ora, ve n’è una che sembra nell’aria e che postula, con un certo compiacimento, la presenza dominante del male nella natura umana. Applicata alla Seconda Guerra mondiale, questo atteggiamento conduce a una forma di fascinazione verso il boia. Ma se ne trova un eco anche fra i testimoni dai quali Jean-Norton Cru cerca di liberarsi18.

Sembra, allora, che qui si giochino alcune questioni fondamentali, che la riflessione didattica e la pratica scolastica non dovrebbero sottovalutare.

Conclusioni

Abbiamo visto quali diversità di vedute e quali problemi per la comprensione delle società di ieri e di oggi erano sottintese alle maniere di studiare la storia della Grande Guerra19. Che ne è allora del dibattito del dibattito che li concerne? In quale misura ha diritto di cittadinanza nelle classi ?

Una tale questione, che si pone con forza nei paesi che combatterono, interviene con la stessa forza anche nella storia della Svizzera durante la Grande Guerra. Si tratta in effetti di un periodo poco studiato, soprattutto dal punto di vista della storia sociale, per quanto conduca diritto – in questo paese fuori dalla guerra, ma nel cuore delle economie di guerra – allo sciopero generale del 1918, dal momento che l’impoverimento degli strati popolari giocò un ruolo considerevole nella sua genesi20.

Parallelamente, in Europa e nelle regioni dei campi di battaglia, il centenario che stiamo osservando va senza dubbio ad esacerbare un fenomeno rilevante: le memorie della Prima Guerra mondiale danno luogo a delle pratiche commerciali e a un certo sviluppo turistico concorrenziale. E non sono meno preoccupanti alcune pratiche commemorative del mondo politico che privilegiano un discorso patriottico e identitario, pretendono di attribuire un senso civico a quel massacro pazzesco che fu la Grande Guerra, confondono in modo deplorevole le dinamiche specifiche delle due guerre mondiali21 e dimenticano pure di associare tutti paesi belligeranti alle cerimonie22. Queste tendenze forti pongono allora la questione del rapporto fra storia e memoria, e quella del peso della storia critica nella rimemorazione rituale del passato.

Tra questi due fenomeni, si ripropone pure la questione di una storia scolastica che sia capace di creare una intellegibilità di questo conflitto di massa, anche in Svizzera, dove ci furono considerevoli effetti sociali senza che la guerra l’avesse toccata direttamente. Questo implica che si costruiscano degli strumenti per trasformare in un dibattito scolastico quello che è ancora un dibattito fra storici. Ma comporta, ugualmente, in riferimento alla grammatica delle domande storiche, che si faccia in modo di organizzare i contenuti e le attività di apprendimento intorno a qualche problema fondamentale per la comprensione delle società di ieri e di oggi, sollevati da questa controversia sulla Grande Guerra e sui suoi soldati.

Non avrebbe senso una commemorazione che non conduca ad un lavoro di storia sviluppato con cura prendendo in considerazione gli attori del passato, le loro incertezze e le sofferenze da loro subite. Non avrebbe senso una commemorazione che non esamini la violenza di Stato e i profitti di guerra. E in questa prospettiva, l’accordo dei due ministeri italiani dell’educazione e della difesa per affidare delle presentazioni della commemorazione non a degli storici, ma a dei militari23, ispira qualche preoccupazione.

Note:

1- Jean-Pierre Astolfi, La saveur des savoirs. Disciplines et plaisir d’apprendre, Issy-les-Moulineaux, ESF, 2008.

2- Charles Heimberg e Valérie Opériol, «La didactique de l’histoire. Actions scolaires et apprentissages entre l’intelligibilité du passé et la problématicité du monde et de son devenir», in Marie-Laure Elalouf & al. (dir.), Les didactiques en questions. Étatdes lieux et perspectives pour la recherche et la formation, Bruxelles, De Boeck, 2012, pp. 78-88.

3- Reinhart Koselleck, Le futur passé. Contribution à la sémantique des temps historiques, Parigi, Éditions de l’ÉHÉSS, 1990 (1979).

4- Antoine Prost & Jay Winter, Penser la Grande Guerre. Un essai d’historiographie, Parigi, Le Seuil, 2004. Il concetto di configurazione storiografica ci interessa qui in particolare perché è stato proprio concepito a proposito della storia della Grande Guerra.

5- http://www.historial.org, consultato nel settembre 2014.

6- Di cui il volume di Stéphane Audoin-Rouzeau e Annette Becker, 14-18. Retrouver la guerre, Paris, Gallimard, 2000, costituisce il primo riferimento. Dagli stessi autori, si veda pure«Violence et consentement: la “culture de guerre” du premier conflit mondial», in Jean-Pierre Rioux et Jean-François Sirinelli (dir.), Pour une histoire culturelle. Parigi,Seuil, 1997, pp. 251-271.

7- George L. Mosse, Fallen Soldiers. Reshaping the Memory of the World Wars, Oxford, Oxford University Press, 1990 (trad. fr., De la Grande Guerre autotalitarisme. La brutalisation des sociétés européennes, Paris, Hachette, 1994).

8- www.crid1418.org/espace_scientifique/textes/conceptsgg_01.htm, consultato nel settembre 2014.

9- Antoine Prost, «Les limites de la brutalisation. Tuer sur le front occidental. 1914-1918», Vingtième siècle, Paris, Presses de Sciences-Po, n° 81, 2004, pp. 5-20; Nicolas Offenstadt, La Grande Guerre en 30 questions, La Crèche, Geste Éditions, 2007.

10- Si veda il contributo di André Loez, in Laurence De Cock & Emmanuelle Picard (dir.), La fabrique scolaire de l’histoire, Marsiglia, Agone, 2009.

11- Nicolas Mariot, Tous unis dans la tranchée? 1914-1918, les intellectuels rencontrent le peuple, Paris, Le Seuil, 2013.

12- Jean-Norton Cru, Du témoignage. Parigi, Éditions Jean-Jacques Pauvert, 1967 (1929 ; riedizione parziale, Parigi, Allia, 1997); e soprattutto Témoins. Essai d’analyse et de critique des souvenirs des combattants édités en français de 1915 à 1928, Nancy, Presses Universitaires de Nancy, prefazione & postfazione di Frédéric Rousseau, 2006 (1929).

13- Jean-Norton Cru, Témoins…, pp. 349-350.

14- Ibid., p. 15.

15- Citato in ibid., p. S 61.

16- Si veda la presentazione di questa nozione proposta da Antonio Brusa ne Le Cartable de Clio. Revue suisse sur les didactiques de l’histoire, Le Mont-sur-Lausanne, LEP, n° 4, 2004, pp. 119-129.

17- Pierre Laborie, Le chagrin et le venin. La France sous l’Occupation, mémoire et idéesreçues, Parigi, Bayard, 2011.

18- Charlotte Lacoste, Séductions du bourreau, Parigi, Presses Universitaires de France, 2010.

19- Per un recente aggiornamento, si veda L’ordinaire de la guerre. Agone. Histoire, politique& sociologie, Marsiglia, Agone, n° 53, 2014, coordinato da François Buton, André Loez, Nicolas Mariot, Philippe Olivera.

20- Charles Heimberg, «Face à la guerre : le pacifisme et l’internationalisme», Cahiers d’histoire du mouvement ouvrier, Lausanne, Éditions d’en bas e AÉHMO, n° 30, 2014, pp. 5-13.

21- Per una critica di questa confusione, si veda il volume «XXesiècle : d’une guerre à l’autre», En Jeu. Histoire et mémoires vivantes, Parigi, Fondation pour la Mémoire de la Déportation, n° 3, 2014.

22- Come è successo in Francia durante la commemorazione della battaglia della Marne nel settembre 2014.

23- «Da Moratti, a Gelmini a Giannini, l’elenco delle ministre della scuola affascinate dal mondo militare comincia a diventare lungo. Forse qualcuno ricorda l’idea che ai militari dovesse essere affidata la commemorazione scolastica del 4 novembre. Oggi si va più in là: è la memoria della Prima Guerra mondiale che ispira l’intesa fra Miur e Ministero della Difesa, intitolata “Favorire l’approfondimento della Costituzione italiana e dei principi della Dichiarazione universale dei diritti umani, in riferimento all’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione”». Da Antonio Brusa, in http://www.historialudens.it/didattica-della-storia/156-la-storia-della-guerra1.html, consultato nel settembre 2014.