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Cefalonia e Corfù, settembre 1943: due proposte didattiche

Cefalonia e Corfù, settembre 1943: due proposte didattiche

Soldati italiani fatti prigionieri dai tedeschi a Corfù dopo l’Otto Settembre 1943.
Foto di propaganda di guerra nazista nel settembre/ottobre 1943.
Di Bundesarchiv, Bild 101I-177-1459-32 / Cuno / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 de, Collegamento

Abstract

Nel quadro degli eventi militari collegati alla proclamazione dell’armistizio dell’8 settembre, la vicenda della divisione Acqui a Cefalonia e Corfù nel 1943 resta senz’altro la più significativa, non solo perché si tratta dell’azione più consistente di resistenza armata ai tedeschi tra quelle attuate nei giorni immediatamente successivi – e, almeno idealmente, può essere considerato, anche se questa interpretazione non è da tutti accettata, uno degli atti che apre la Resistenza al nazi-fascismo – ma perché rappresenta, per numero di vittime, la maggiore strage perpetrata dai tedeschi nel corso della Seconda guerra mondiale a danno di cittadini italiani e l’unico episodio in cui vengono uccisi in massa, dopo la resa, anche i soldati.
Data la complessità dei fatti e la presenza di contrapposte memorie e interpretazioni, anche nell’ambito della storiografia più accreditata, essa può costituire un’importante palestra su cui impegnare gli studenti, perché possono operare sui documenti ufficiali, sulle testimonianze dei superstiti e dei testimoni, sul confronto dei testi di ricercatori e storici.

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In the context of the military events connected to the proclamation of the armistice on 8 September, the events of the Acqui Division in Cephalonia and Corfu in 1943 remains undoubtedly the most significant, not only because it is the most consistent action of armed resistance to the Germans among those carried out in the days immediately following – and, at least ideally, can be considered, even if this interpretation is not accepted by all, one of the acts that opened the Resistance to Nazi-fascism – but because it represents, in terms of the number of victims, the largest massacre perpetrated by the Germans during the Second World War against Italian citizens and the only episode in which soldiers were also killed en masse after the surrender.
Given the complexity of the facts and the presence of opposing memories and interpretations, even in the sphere of the most accredited historiography, it can be an important gymnasium in which to engage students, because they can work on official documents, on the testimonies of survivors and witnesses, on the comparison of texts by researchers and historians.

TESTO ESPERTO: I fatti  

L’eccezionalità di un evento

Dopo trentanove mesi di guerra a fianco della Germania nazista, il governo italiano del maresciallo Pietro Badoglio – che ha sostituito da poche settimane Benito Mussolini, destituito dal re Vittorio Emanuele III il 25 luglio – sottoscrive l’armistizio con i Paesi delle Nazioni unite, in primo luogo con gli Stati uniti e con la Gran Bretagna, armistizio che viene reso noto nel pomeriggio dell’8 settembre 1943.

Considerato dagli Alleati una “resa incondizionata”, l’armistizio fu affrontato dal re Vittorio Emanuele, dal capo del Governo Badoglio, dal capo di Stato Maggiore Ambrosio in maniera, secondo la maggior parte dei commentatori, irresponsabile e tale da determinare la disgregazione di una forza armata che a quel momento contava più di due milioni di soldati e occupava la Provenza e parte dell’Area balcanica assieme alle truppe tedesche.

Nel giro di pochi giorni gli ex alleati disarmarono oltre un milione di italiani, i reparti, soprattutto in Iugoslavia, in Albania e in Grecia, si trovarono tra i due fuochi dei tedeschi e delle forze partigiane.

Il proclama di Badoglio letto al microfono dell’EIAR nel tardo pomeriggio concludeva, ambiguamente, con queste parole: “ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.”

Sulla base di queste disposizioni generali, poco dopo, il comandante dell’armata italiana in Grecia, il generale Vecchiarelli, faceva arrivare ai comandi divisionali dislocati sul continente e sulle isole un messaggio che confermava sostanzialmente la linea attendista: “Se i tedeschi non faranno atti di violenza, truppe italiane non rivolgeranno armi contro di loro. Truppe italiane non faranno causa comune con i ribelli né con truppe anglo-americane che sbarcassero, reagiranno con la forza ad ogni violenza armata”.

A Cefalonia e a Corfù queste disposizioni sono trasmesse ai reparti, che quindi si preparano, anche psicologicamente, a tenere le posizioni fino all’arrivo di ordini più precisi, comunque pronti a reagire a iniziative aggressive di qualsiasi provenienza.

Il mattino successivo da Atene arriva un secondo messaggio, che imporrebbe la cessione delle armi pesanti e di prepararsi al rientro in patria a cura dei mezzi tedeschi: l’ordine non viene comunicato ai reparti, perché appare o viene comunque interpretato come apocrifo, perché scritto sotto dettatura; i tedeschi, in effetti, avevano preso il sopravvento sul comando italiano nel corso della notte.

In alcune isole le truppe germaniche non hanno uomini e imbarcazioni per risolvere rapidamente a proprio favore lo scontro e la sottomissione delle divisioni italiane. I comandanti italiani hanno così il tempo per prendere coscienza della situazione complessiva e assumere le decisioni necessarie a fronteggiare un attacco, che prima o dopo sarebbe sicuramente avvenuto. Questa situazione si verifica in particolare in Sardegna, in Corsica, in alcune isole del Dodecaneso e, appunto, a Corfù e a Cefalonia.

È in questo contesto che vengono prese le decisioni dei comandanti delle due Isole dell’Eptaneso o Joniche: il generale Antonio Gandin a Cefalonia e il colonnello Luigi Lusignani a Corfù. A differenza della grandissima parte dei comandanti di Grandi Unità, assieme a pochi altri alti ufficiali, essi affrontano lo scontro con i tedeschi, che purtroppo si conclude con la sconfitta dei loro reparti e con la loro uccisione.

Che cos’è avvenuto nelle Isole Ionie nel settembre 1943?

A Cefalonia vi sono tra 9.000 e 11.000 soldati e sottufficiali italiani, gli ufficiali sarebbero secondo le valutazioni tedesche meno di 400, gli italiani indicano tradizionalmente la cifra di 525. Un presidio tedesco di 1.800 uomini è presente sull’isola, in una situazione di momentanea inferiorità. Tra il 9 e l’11 settembre, su richiesta del comandante tedesco, tenente colonnello Hans Barge, il generale Antonio Gandin accetta di consegnare l’importante posizione di Kardakata e il controllo del porto di Argostoli; il giorno 11 Barge chiede di cedere le armi sulla base dell’ordine giunto a Cefalonia dal Comando di Atene. Gandin rifiuta e avvia una trattativa per essere rimpatriato in Italia con le armi.
Il 12 settembre, Gandin ordina a cinque battaglioni di Fanteria di depositare le armi nei magazzini, ma è costretto a rinunciare per la reazione che si diffonde nei reparti e per l’opposizione di alcuni ufficiali.

Il giorno 13, le artiglierie italiane presenti nella baia di Argostoli, sede del Comando italiano, colpiscono due grosse zattere che cercano di sbarcare truppe tedesche e, divenuta evidente la diffusa avversione alla cessione delle armi, il generale decide di consultare anche i reparti sulle tre alternative possibili: «contro i tedeschi, insieme ai tedeschi, cessione delle armi». Prevale tra i soldati la prima scelta, anche se vi è la consapevolezza che i tedeschi sul continente interverranno rapidamente in appoggio al distaccamento presente sull’isola maggiore.

Il giorno 14 Gandin invia al Comando tedesco una «notifica» in cui comunica che la Divisione si rifiuta di accettare l’ordine di resa e che è disposta a combattere pur di mantenere le armi. Il giorno successivo, mentre sono ancora in corso trattative tra le due delegazioni, l’aviazione nemica inizia a bombardare la città di Argostoli e le postazioni italiane. Poco dopo inizia l’attacco da terra. I combattimenti vedono una iniziale prevalenza italiana, con la resa dei tedeschi attestati nel capoluogo; si cerca di riconquistare le posizioni cedute ai tedeschi nei giorni precedenti ma con scarsi risultati e con molte perdite, avendo subito i pesanti bombardamenti degli Stukas.

Mentre dall’Italia risulta impossibile inviare aiuti, nei giorni successivi, a ovest e a nord dell’isola, riescono a sbarcare reparti tedeschi con armamento pesante. Dopo una settimana di combattimenti, il giorno 22, la divisione Acqui si arrende. Nei combattimenti muoiono centinaia di soldati italiani e decine di ufficiali; i sopravvissuti ai combattimenti «sono trattati secondo gli ordini del Führer» e, man mano che si arrendono nel corso della battaglia, contrariamente a tutti i regolamenti internazionali che definiscono i comportamenti degli eserciti belligeranti, sono immediatamente passati per le armi. Secondo le valutazioni dei comandanti tedeschi e di una parte delle fonti italiane, i caduti sono complessivamente circa 4.000, compresi gli ufficiali; ma negli ultimi anni alcuni storici hanno ridimensionato queste cifre, indicando in circa 2.500 il numero dei militari italiani morti a Cefalonia tra il 15 e il 25 settembre 1943.

Dopo la resa della Divisione, avvenuta il 22 settembre, la vendetta tedesca si concentra sugli ufficiali sopravvissuti, che vengono separati dai soldati e dai sottufficiali e sistematicamente eliminati: tra il 24 e il 25 settembre, alla casetta rossa di capo San Teodoro, nei pressi di Argostoli, capoluogo di Cefalonia, vengono fucilati quasi tutti gli ufficiali prigionieri, forse 129 secondo i dati più accreditati, altri 7 il giorno 25, ma probabilmente i numeri reali sono più alti.

Si salvano dalle fucilazioni una quarantina di ufficiali, costretti ad aderire alla Repubblica sociale italiana e quasi tutti trasferiti in Germania in campi di addestramento. Una parte dei corpi dei soldati uccisi, oltre agli ufficiali caduti a capo San Teodoro, è gettata in mare all’entrata della baia di Argostoli, mentre altre centinaia di corpi sono bruciati in grandi falò che illuminano la notte dell’isola. Tutti gli altri resti sono abbandonati senza alcuna sepoltura.

Anche a Corfù il comandante, colonnello Lusignani, con circa 4.000 uomini, decide di respingere l’ultimatum tedesco e di combattere. Nei giorni successivi giungono due cacciatorpediniere italiani, che vengono però colpiti; gli inglesi promettono aiuti, ma non arriveranno in tempo.

Il 24 settembre i tedeschi riescono a sbarcare in forze e il giorno successivo gli italiani sono costretti alla resa. Nei combattimenti o in seguito alle fucilazioni avvenute immediatamente dopo la fine degli scontri muoiono 640 tra soldati, sottufficiali e ufficiali, tra questi i colonnelli Luigi Lusignani ed Elio Bettiniche sono fucilati assieme ad altri 25 ufficiali dopo la resa, mentre i feriti sono 1.200, ma non vi sono i massacri di massa di Cefalonia. Molti uomini cercano di fuggire via mare, la maggior parte viene catturata e trasferita in Germania.

La sorte dei sopravvissuti

Finita la strage, nelle Isole Ionie rimangono tra 9.000 e 10.000 prigionieri italiani, 5.000 dei quali sono i sopravvissuti di Cefalonia. Altri soldati moriranno, per la fame e gli stenti, nei centri di raccolta dell’isola, dove rimarranno circa un migliaio di prigionieri fino alla partenza dei tedeschi, nel settembre del 1944, o nei diversi campi di deportazione allestiti nell’area balcanica e nell’Europa dell’Est, circa 2.500 in totale, che seguiranno le vicissitudini degli altri 6-700.000 soldati italiani internati dal governo tedesco; dei 6.400 prigionieri imbarcati a Cefalonia per essere trasferiti sul continente, in Grecia, di cui alcuni provenienti da altre isole, circa 1.350, quasi tutti soldati sopravvissuti all’eccidio di Cefalonia, moriranno nell’affondamento di tre navi; da Corfù partiranno circa 9.100 soldati, molti però già provenienti da reparti catturati sul continente, l’affondamento di una nave trasporto provoca molte centinaia di morti, ma è impossibile attribuire le vittime ai reparti di origine. Nel novembre 1944, i militari italiani rimasti a Cefalonia, a cui si erano aggiunti uomini provenienti dal continente, in totale circa 1.300 soldati, inquadrati nel Raggruppamento banditi Acqui agli ordini del capitano Apollonio, rientrano in Italia, a eccezione di un centinaio di volontari che continueranno la lotta assieme ai partigiani comunisti. Alla fine della guerra, dei circa 5.000 sopravvissuti della divisione Acqui a Cefalonia solo 3.500 saranno riusciti a tornare in Patria.

L’armistizio dell’8 settembre 1943 e gli ordini contraddittori ai reparti

Sul piano analitico, è bene distinguere la logica degli avvenimenti delle due Isole: mentre essa è lineare e coerente nel caso di Corfù, appare assai più complicata e contradditoria a Cefalonia, aprendo così la porta a interpretazioni dei fatti e delle decisioni anche assai differenti.

A Corfù, il Comandante non dà seguito agli ordini di disarmo provenienti dai comandi superiori di Tirana e di Atene, perché considerati contrari a quanto deciso dal Governo e all’onore militare: egli respinge immediatamente l’ultimatum tedesco di resa, contrasta con successo il primo improvvisato tentativo di sbarco il giorno 13, quindi affronta l’attacco finale del 23-26 settembre, fino alla resa e alla fucilazione di 27 ufficiali il giorno 27, tra questi il colonnello Lusignani e il colonnello Bettini della divisione Parma. Non vi sono particolari divergenze nel giudizio su questi fatti e circa le scelte del Comandante.

A Cefalonia i fatti si sviluppano secondo linee meno nette e con maggiori ambiguità.

Da una parte, le truppe sono messe in stato d’allarme e si diffonde da subito la convinzione che il messaggio di Badoglio e il primo di Vecchiarelli, reso noto ai reparti, anche se non esplicitamente prevedano di predisporsi a reagire a un eventuale attacco tedesco, che appare inevitabile, e di impegnarsi a mantenere la situazione sul terreno esistente al momento dell’Armistizio.

Dall’altra, il Generale comandante si orienta verso la trattativa col nuovo nemico, alla ricerca di una soluzione la più possibile favorevole per i suoi uomini, ovvero il trasferimento con le armi individuali a cura dei mezzi navali tedeschi in Italia, anche giocando sul rispetto e la fiducia che in passato si era guadagnato nel rapporto diretto con alcuni dei massimi comandanti germanici.

Quella di una resa “onorevole”, su cui molti commentatori hanno espresso un giudizio accondiscendente e complessivamente assolutorio, è invece una mera illusione, considerando quali sono le intenzioni della controparte, che non ha dubbi sulla necessità di trasferire i reparti italiani, disarmati, verso i campi di internamento del centro Europa, nel più breve tempo possibile, con l’unica eccezione per coloro che scelgano di continuare a combattere con loro, giurando fedeltà al Reich tedesco.

Mussolini viene liberato dal suo luogo di detenzione sul Gran Sasso solo il giorno 12 e il regime collaborazionista della Repubblica sociale italiana nasce il 23 settembre: sono i giorni della trattativa e della battaglia di Cefalonia.

Quello che restava dei vertici della Monarchia italiana si era consegnata nelle acque del basso Adriatico alle navi inglesi nella giornata del 10 e l’11 aveva ripreso in qualche modo a dirigere quanto ancora poteva essere considerato efficiente delle forze armate italiane: i reparti presenti in Corsica e in Sardegna, a Cefalonia e a Corfù, in alcune isole del Dodecaneso che ancora non si erano arrese, in Puglia.

I tedeschi, che tra l’8 e il 9 si sono trovati nel momento di maggior crisi, tra il 10 e l’11 settembre riescono a contenere lo sbarco nella zona di Salerno, a disarmare le divisioni ben armate che difendono Roma, a distruggere gran parte del dispositivo militare italiano, con decine di migliaia di uomini ormai privi di comando che con ogni mezzo cercano di fuggire alla loro morsa e a quella delle formazioni partigiane in Iugoslavia, in Albania e in Grecia.

Per questo l’ordine di combattere i tedeschi, inviato da Brindisi l’11 settembre, non solo arriva tardi, ma mette gli ufficiali e i soldati italiani nelle peggiori condizioni per affrontare le truppe germaniche e la loro rappresaglia. Ben altri risultati avrebbe avuto un comportamento complessivamente coerente da parte dei vertici italiani, che avesse unito alla dichiarazione di armistizio, anche gli ordini operativi ai reparti per opporsi all’ex alleato e la dichiarazione di guerra alla Germania.

Al di là delle considerazioni di carattere più generale, è ormai convinzione di molti commentatori che riguardo a Cefalonia vi sia qualcosa di più, un accanimento particolare sui sopravvissuti della divisione Acqui, evidente anche a distanza di mesi, tanto che gli italiani prigionieri evitano di dichiarare la propria appartenenza alla Divisione, per evitare comportamenti ancora più sprezzanti e punitivi.

I tedeschi si sono convinti, durante le trattative, della buona disponibilità di Gandin, ma a partire dal giorno 13 si rendono conto dell’agitazione che domina i reparti italiani, prima quelli della Marina e dell’Artiglieria, poi quelli della Fanteria. Attraverso il loro comandante sull’isola, il tenente colonnello Barge, si convincono che il Generale non abbia più il controllo dei suoi uomini.

Certamente l’intenzione di Gandin non è di mettere i suoi uomini a disposizione della vendetta e della punizione, terribile, tedesca, ma purtroppo l’effetto è quello: gli uomini della Acqui a Cefalonia non sono solo “traditori” e “franchi tiratori”, ma “ammutinati” agli ordini del Comandante.

Effettivamente, la violenza e il disprezzo che seguiranno i combattimenti e la resa, saranno proporzionati al coraggio e alla capacità di resistenza degli italiani combattenti e gli uomini di Hirschfeld e di Klebe, gli ufficiali al comando dei battaglioni tedeschi, si accaniranno con maggiore violenza proprio su quelli che dimostreranno di volere combattere con più decisione e sprezzo del pericolo.

Bibliografia essenziale

Guida ad una bibliografia essenziale 

La prima pubblicazione “ufficiale”, dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito esce nel 1947, col titolo Cefalonia. E’ basato su poche testimonianze raccolte fino a quel momento da sopravvissuti all’eccidio di Cefalonia e Corfù rientrati in Italia nel corso del 1944. Da subito si coglie il contrasto che sarà al centro delle ricostruzioni successive tra “l’intimo dramma del generale italiano comandante delle truppe dell’isola” e gli orientamenti dei soldati: “per sette giorni, parte delle truppe dell’isola sono in rivolta contro il proprio generale”.

Nel 1946 viene pubblicato il libro di don Romualdo Formato, L’eccidio di Cefalonia, che concentra l’attenzione soprattutto sull’aspetto umano oltre che su quello militare del dramma di Cefalonia. Una successiva edizione del 1969 avvia la raccolta dei nominativi dei caduti.

Anche don Luigi Ghilardini, l’unico dei cappellani militari contrari alla resa e presente sull’isola fino al novembre 1944, dà il suo contributo con i volumi I martiri di Cefalonia. Esumazione dei caduti in Grecia, del 1952, e Sull’arma si cade ma non si cede. I martiri di Cefalonia e di Corfù. Settembre 1943, del 1963.

Sempre nel 1963 esce un romanzo che ha «valore di testimonianza», secondo quanto recita la prefazione scritta da Sandro Pertini, Bandiera bianca a Cefalonia, di Marcello Venturi.  Il successo del libro riporta l’attenzione dei media tedeschi e italiani su Cefalonia; Simon Wiesenthal si interessa della questione e comincia a raccogliere materiali per intentare un’azione legale; nel novembre 1964 la Procura di Stato di Dortmund avvia un procedimento istruttorio sull’eccidio di Cefalonia.

Solo tra gli anni Settanta e Ottanta emergono nuove fonti documentarie, in particolare dagli archivi tedeschi e dalle dichiarazioni di membri della missione militare alleata a Cefalonia.

Nel 1985 parte di questi documenti sono pubblicati dal generale Renzo Apollonio, allora presidente dell’Associazione nazionale superstiti reduci e famiglie caduti divisione Acqui, La Divisione da Montagna Acqui a Cefalonia e Corfù 1943.

Nel 1993 appare il volume collettivo curato da Giorgio Rochat e Marcello Venturi, La divisione Acqui a Cefalonia, che approfondisce il contesto della presenza italiana nei Balcani, la storia della Divisione e i differenti punti di vista italiano e tedesco. Le vicende militari sono trattate dagli storici Mario Montanari e Gerhard Schreiber, che ricostruiscono rispettivamente la documentazione italiana e quella tedesca.

Nel 1989 il ministro della Difesa dà vita a una Commissione per lo studio della Resistenza dei militari italiani all’estero (COREMITE), che termina i lavori nel 1995 con diverse relazioni finali per i vari settori geografici; quella che ci interessa, La resistenza dei militari italiani all’estero. Grecia continentale e isole dello Jonio, è affidata a Giovanni Giraudi.

Nel 2004 appare una nuova ricostruzione-interpretazione della vicenda, Cefalonia. quando gli italiani si battono, di Gian Enrico Rusconi; egli ritiene che Gandin fosse legittimato a trattare le migliori condizioni con i tedeschi, mentre l’azione degli ufficiali antitedeschi sarebbe giustificata dal contesto in cui si trovarono a operare.

Nel 2013 è stata pubblicata la traduzione italiana della ricerca di Hermann Frank Meyer col titolo Il massacro di Cefalonia e la 1a  divisione da montagna tedesca. Si tratta della più approfondita e minuziosa ricostruzione delle operazioni di guerra compiute dai reparti tedeschi nel settembre 1943 e della catena decisionale che si è attivata per non fare prigionieri a Cefalonia.

Una posizione eccentrica rispetto alla tradizione storiografica prevalente è quella di Massimo Filippini, autore di La vera storia dell’eccidio di Cefalonia, pubblicato nel 1998, poi ristampato nel 2004 come La tragedia di Cefalonia. Una verità scomoda, che considera ben più gravi le responsabilità italiane su quelle tedesche, in particolare quelle del Comando Supremo, e accusa gli ufficiali antitedeschi e gli ordini tardivi provenienti da Brindisi di aver provocato il massacro della Divisione. Divergenti sono anche i lavori di Paolo Paoletti, in particolare Cefalonia 1943. Una verità inimmaginabile, del 2007, che accusa Gandin di tradimento per avere coscientemente pianificato la resa fino all’ultimo momento, scaricando poi sulla Divisione il rifiuto di cedere le armi.

Elena Aga Rossi è tornata a trattare delle vicende che hanno riguardato la divisione Acqui nel settembre 1943 in Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito, con due diverse edizioni, una del 2016 e quella ampliata del 2021. L’autrice riesamina le motivazioni di Gandin nel mantenere in vita fino alla fine la trattativa con Barge e con Lanz, giudicando quella del generale «una scelta impossibile», mentre considera negativamente la volontà di quegli ufficiali, come Apollonio e Pampaloni, intenzionati a combattere, scelta che «verrà pagata purtroppo con un prezzo molto più alto di quello della deportazione in Germania».

Nel 2021 esce il volume di Carlo Palumbo, Arrendersi o combattere. La scelta della Divisione Acqui a Cefalonia e Corfù 1943, da cui sono tratti i materiali presentati in questo dossier.

Per finire, due volumi dal taglio più divulgativo, che uniscono ricostruzione storica e narrazione: Italiani dovete morire. Il massacro della divisione Acqui a Cefalonia, di Alfio Caruso, nuova edizione del 2021; Così la divisione Acqui salì in cielo. La battaglia e l’eccidio di Cefalonia 15-25 settembre 1943, di Pier Luigi Villari, uscito nel 2023.

Dettaglio:

  • E. Aga Rossi, Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito, Il Mulino, Bologna 2021.
  • R. Apollonio, La Divisione da Montagna Acqui a Cefalonia e Corfù 1943, Città di Torino, Torino 1985.
  • A. Caruso, Italiani dovete morire. Il massacro della divisione Acqui a Cefalonia, Neri Pozza, Vicenza 2021.
  • M. Filippini, La tragedia di Cefalonia. Una verità scomoda, IbN Editore, Roma 2004.
  • R. Formato, L’eccidio di Cefalonia, Mursia, Milano 1968.
  • L. Ghilardini, Sull’arma si cade ma non si cede. I martiri di Cefalonia e di Corfù. Settembre 1943, Opera SS. Vergine di Pompei, Genova 1974.
  • G. Giraudi, La resistenza dei militari italiani all’Estero. Grecia continentale e isole dello Jonio, «Rivista militare», Roma 1995.
  • H. F. Meyer, Il massacro di Cefalonia e la 1a divisione da montagna tedesca, Gaspari Editore, Udine 2013.
  • C. Palumbo, Arrendersi o combattere. La scelta della Divisione Acqui a Cefalonia e Corfù 1943, Gaspari Editore, Udine 2022.
  • P. Paoletti, Cefalonia 1943 una verità inimmaginabile, Franco Angeli, Milano 2007.
  • G. Rochat – M. Venturi (a cura di), La Divisione Acqui a Cefalonia. Settembre 1943, Mursia, Milano 1993.
  • G. E. Rusconi, Cefalonia. quando gli italiani si battono, Einaudi, Torino 2004.
  • Stato Maggiore Esercito – Ufficio Storico, Cefalonia, Roma 1947.
  • M. Venturi, Bandiera bianca a Cefalonia, Mondadori, Milano 1963.
  • P. L. Villari, Così la divisione Acqui salì in cielo. La battaglia e l’eccidio di Cefalonia 15-25 settembre 1943, IBN Editore, Roma 2023.
    La documentazione comprende due sezioni che permettono di approfondire altrettanti argomenti al centro del confronto di questi decenni.

ATTIVITÀ CON LA CLASSE: ricostruire i fatti attraverso le fonti 

Premessa: documenti, testimonianze, interpretazioni storiografiche

Le prime notizie sugli eventi di Cefalonia giungono in Vaticano già nel mese di dicembre 1943, grazie alla memoria che il cappellano militare, don Romualdo Formato, consegna al Segretario della Missione Apostolica di Atene. Rientrato in Italia nel gennaio 1944, il Cappellano viene ricevuto in udienza privata da Pio XII e, dopo la liberazione di Roma, anche da Badoglio, da Umberto di Savoia e dal Ministro della Guerra.

L’altra importante e precoce fonte sugli stessi fatti è quella del capitano Ermanno Bronzini, unico sopravvissuto del Comando divisionale, che fornisce ulteriori informazioni in una deposizione del luglio dello stesso anno. A novembre, poi, rientrano in Puglia i militari italiani trattenuti dai tedeschi sull’Isola o trasferitisi dal continente dopo il ritiro germanico. Essi saranno interrogati dagli ufficiali del Servizio Informazioni Militari in un campo di transito di Taranto.

I due reduci (don Formato e il capitano Bronzini) forniscono una versione che intende mettere in buona luce le decisioni del generale Gandin. Ma dalle deposizioni rilasciate a Taranto da altri sopravvissuti, cominciano ad emergere le tensioni e i diversi comportamenti tenuti nelle due settimane di trattativa e dei combattimenti e dopo la resa, con le differenti scelte fatte da chi sottoscrive, per avere salva la vita, una dichiarazione di adesione al Reich tedesco, chi combatte con la Resistenza greca, chi rimane sotto il controllo germanico a Cefalonia, utilizzato in servizi ausiliari, ma sotto il comando di ufficiali italiani.

A rendersi conto dell’esistenza di queste tensioni sono innanzitutto gli ufficiali del SIM che conducono gli interrogatori, successivamente tocca ai responsabili dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito fare i conti con interpretazioni che, a mano a mano che diventano pubbliche, appaiono sempre più polarizzate.

Nelle linee essenziali, si tratta, da una parte, di difendere il comportamento e la memoria del generale Gandin, dall’altra di comprendere o giustificare le critiche al Generale provenienti da diversi reduci, ufficiali o soldati, e il comportamento dei reparti, che secondo alcuni sarebbe stato sobillato da ufficiali inferiori, tra questi Gasco, Mastrangelo, Ambrosini, Pampaloni e Apollonio. I primi tre sono stati uccisi a Cefalonia, Pampaloni sopravvissuto alle fucilazioni, aveva poi aderito alle formazioni partigiane dell’ELAS, Apollonio invece era rimasto sull’isola, sotto il dominio tedesco, ma aveva dato vita ad una rete di resistenza tra i soldati in contatto con i partigiani e con la missione militare alleata. Egli rientrerà in Italia nel novembre 1944 a capo di un reparto di soldati italiani in gran parte già prigionieri, il Raggruppamento banditi Acqui, che ottiene dagli Alleati di tenere le armi individuali.

A complicare l’interpretazione di quanto accaduto nel settembre 1943, interviene, tra il 1955 e il 1957, una controversa e dolorosa istruttoria formale contro 28 militari italiani, per “cospirazione” e “rivolta”. Contro Apollonio e Pampaloni l’accusa è anche di “insubordinazione”. L’assoluzione piena arriva solo nel 1957, ma lascia, ovviamente, pesanti strascichi tra i reduci e i familiari dei caduti. Tutto ciò rende complicata e faticosa la gestione della memoria degli eventi, col rischio, di cui i Comandi militari sono coscienti, di riaprire ferite pubbliche che sarebbe meglio tenere sottotraccia.

Vi è tuttavia, ai vertici istituzionali delle nostre Forze Armate del dopoguerra, la consapevolezza dell’importanza che comunque ha la difesa della scelta fatta da Comandante, Ufficiali, Sottufficiali e Soldati nelle due Isole ioniche. Si è da subito convinti che la presenza di contraddizioni e critiche non possa mettere in discussione un’esperienza che ha valore inestimabile per la ricostruzione di un’immagine più positiva e più legata ad una visione costituzionale del ruolo delle nuove Forze Armate della Repubblica.

Per questo vi sarà da parte dell’Ufficio Storico dell’Esercito la ricerca di un equilibrio tra le differenti interpretazioni, per sottolineare una visione che ribadisca la continuità delle Forze Armate prima e dopo l’8 settembre, pur nel drammatico passaggio tra la guerra e il fascismo da una parte e la resistenza e la democrazia dall’altra.

Si tratta perciò di riaffermare i valori della disciplina, dell’onore, della gerarchia, propri di ogni forma organizzata militare, ma insieme di riconoscere il valore dell’“azione su iniziativa” messa in campo da soldati, sottufficiali e giovani ufficiali per andare allo scontro con i tedeschi. Per questo, “La loro scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza, di un’Italia libera dal fascismo”, come ha ricordato il Presidente Ciampi nel 2001.

PRIMA ATTIVITÀ DIDATTICA
Le principali comunicazioni riguardanti Cefalonia e Corfù nel settembre 1943

Per comprendere la complessità della vicenda, è particolarmente importante seguire la successione anche contraddittoria degli ordini provenienti in particolare da Atene e da Brindisi, oltre che quelli tedeschi e alleati.

Documenti da analizzare 

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Consegna

Sulla base di un’attenta analisi degli ordini giunti al generale Gandin a Cefalonia dai diversi comandi superiori (Comando alleato, tedesco, italiano), la classe si confronti su quali possibili decisioni corrispondessero a quanto previsto dalle condizioni armistiziali sottoscritte dal Governo italiano a Cassibile.

 

7-8 settembre 1943
Il Promemoria n. 2, datato 6 settembre, inviato dal Comando Supremo italiano raggiunge il Comando dell’11a Armata ad Atene la sera del 7, portato dal generale Cesare Gandini rientrato da Roma. Al punto IV ordina: «Indipendentemente da dichiarazione di armistizio o meno, e in qualsiasi momento, tutte le truppe di qualsiasi Forza Armata dovranno reagire immediatamente ed energicamente e senza speciale ordine ad ogni violenza armata germanica e delle popolazioni in modo da evitare di essere disarmati o sopraffatti». Comunque precisa: «Dite francamente ai tedeschi che se non faranno atti di violenza armata le truppe italiane non prenderanno le armi contro di loro, non faranno causa comune coi ribelli né colle truppe angloamericane, che eventualmente sbarcassero».[1]
L’annuncio dell’armistizio giunge a Cefalonia nella serata dell’8 settembre. Un radiotelegrafista della Marina ascolta da Radio Londra la notizia, sono quasi le 19,00.
Un’ora dopo c’è il comunicato letto alla radio italiana dal capo del governo Pietro Badoglio: «Il Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze anglo-americane alleate. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».[2]
Alle 21,30 giunge a Cefalonia un fonogramma partito alle 20,00 da Atene, sede del Comando misto italo-tedesco dell’11^armata, da cui dipendono le otto divisioni italiane in Grecia, firmato dal generale Carlo Vecchiarelli. Il testo conferma quasi alla lettera il proclama di armistizio. Il messaggio viene ricevuto da Gandin e trasmesso ai comandanti di reparto.[3]
9 settembre 1943
Alle 0,20 del 9 settembre, giunge ad Atene un altro messaggio dal Comando italiano, un telescritto del generale Ambrosio che aumenta la confusione e giustifica lo stato d’inerzia:
«Non deve essere presa iniziativa di atti ostili contro i germanici».[4]
Alle ore 11,45 del 9 settembre, il generale Vecchiarelli, che all’alba di quel giorno era stato preso prigioniero dai tedeschi, dirama un’ulteriore disposizione che impone la cessione dei presidî costieri entro le ore 10,00 del giorno successivo, la sostituzione graduale delle grandi unità, la cessione ai reparti tedeschi delle armi collettive, di tutte le artiglierie con relativo munizionamento, mantenendo solo le armi individuali e di trasferire il controllo del territorio ai reparti tedeschi subentranti entro le ore 10 del giorno successivo. Quest’ordine, che giunge a Gandin verso le 20,00 del giorno 9, pervenuto attraverso il Comando di Agrinion con molte ore di ritardo, non viene trasmesso ai reparti.[5]
10 settembre
Ai comandanti tedeschi in Grecia giunge nella mattinata del 10 settembre un telegramma dal Gruppo armate E: «Dove vi sono reparti italiani o nuclei armati che oppongono resistenza bisogna dare un ultimatum a breve scadenza. Nell’occasione occorrerà dire con veemenza che gli ufficiali responsabili di questo tipo di resistenza verranno fucilati quali franchi tiratori se, alla scadenza dell’ultimatum, non avranno dato alle loro truppe l’ordine di consegnare le armi».[6]
Barge alle 8,30 del giorno 10 settembre, assieme al tenente Fauth, raggiunge il Comando italiano ad Argostoli, dove si incontra con Gandin e col tenente colonnello Fioretti. Barge chiede la consegna delle armi per il giorno successivo alle 10, nella piazza di Argostoli, davanti alla popolazione greca; gli ufficiali avrebbero conservato le pistole, ma tutte le altre armi andavano consegnate; viene anche promesso il rimpatrio della Divisione.
Alle 11,20 e alle 15,30 Gandin invia due messaggi al Comando Supremo di Brindisi, con la richiesta di chiarimenti circa il comportamento da tenere, ma senza ottenere risposta.[7]
Il 10 settembre viene anche diffuso per radio un comunicato del generale H. M. Wilson:
«Soldati delle Forze Armate Italiane: un armistizio è stato firmato dal vostro governo. La guerra tra l’Italia e il Regno Unito è terminata. Secondo i termini del suddetto armistizio, questi sono i miei ordini immediati a tutti i membri delle Forze Armate Italiane nell’area dei Balcani. Dovranno cessare tutti gli atti di ostilità verso le popolazioni dei paesi in cui vi trovate. Sarà mantenuta la più ferrea disciplina in tutte le unità e tutte le truppe rimarranno unite nelle loro unità. Tutti i tentativi da parte dei tedeschi o dei loro satelliti di disarmare o di sciogliere le forze armate italiane o di impossessarsi delle loro armi, dei loro magazzini, della benzina, dell’acqua o di impadronirsi delle loro guarnigioni saranno respinti fino all’ultimo. Tutti gli ordini diramati dai tedeschi non saranno eseguiti. Le forze italiane del Dodecaneso si impossesseranno con la forza delle posizioni ora occupate dai tedeschi. […]. Disubbidire a questi ordini o agli ordini successivi che io emanerò sarà considerato come una violazione dei termini armistiziali, accettati dai vostri comandanti in capo e condizioneranno il nostro futuro trattamento nei vostri confronti».[8]
Nel pomeriggio del giorno 10, Vecchiarelli stipula con il Comando tedesco un accordo di resa. Sarà lo stesso Vecchiarelli a diramare quest’ultimo ordine alle ore 21,00 del 10 settembre.[9]
11-12 settembre. Comunicazioni.
Sono chiari, grazie alla documentazione tedesca, i tempi e le modalità delle decisioni tedesche, in particolare la comunicazione, avvenuta alle ore 10,30 dell’11 settembre da parte del tenente colonnello Barge dell’ultimatum formale a Gandin.[10]
Di fronte all’ultimatum tedesco Gandin risponde con una richiesta di «Chiarimenti».
Al punto 3 c’è la protesta del generale: «La consegna delle armi ad Argostoli assumerebbe l’aspetto e il reale carattere di una umiliazione che la divisione Acqui non merita in alcun modo, in quanto ha sempre collaborato in pieno e stretto cameratismo e fraterno accordo militare con le truppe tedesche».[11]
La risposta tedesca arriva sempre nella giornata dell’11:
«Le unità e i reparti, fino al livello di reggimento, mantengono temporaneamente oltre alle loro armi anche i loro ufficiali e i loro Comandanti, se questi vogliono continuare a combattere sotto il Comando tedesco […]. Tutte le armi portatili e le munizioni devono essere tolte ai soldati da disarmare entro le ore 18,00 del 12 settembre e riunite per battaglione in locali sorvegliati. […] I soldati o le unità che sono pronti a continuare a combattere agli ordini e al fianco dei reparti tedeschi devono essere segnalati numericamente in Ufficiali, Sottufficiali e Truppa entro le ore 17,00 del 12.9.1943».[12]
L’11 settembre dal Comando di Brindisi viene inviato l’ordine di resistenza ai tedeschi ai reparti ancora efficienti delle isole del Mediterraneo. Solo Sardegna, Corsica, Corfù e Cefalonia ricevono le nuove disposizioni.
Su richiesta del generale Eisenhower, il giorno 11 vengono diramati via radio un annuncio del re: «Per assolvere i miei doveri di Re, col Governo e colle autorità militari mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale» e un proclama di Badoglio alla Nazione, in cui si precisano i nuovi rapporti con le truppe anglo-americane e con i tedeschi. I messaggi vengono ricevuti in tutto il Mediterraneo centrale e orientale.[13]
Lo stesso giorno da Roma il feldmaresciallo Kesselring dichiara che l’Italia centro-meridionale è sottoposta alla legge di guerra tedesca. Gandin dovrebbe avere almeno nelle linee essenziali consapevolezza della nuova situazione strategica, in particolare per la nuova distribuzione delle forze in Italia.
12 settembre. Trattative.
Alle ore 4,00 del 12, il capitano Tomasi porta a Fauth il messaggio che la resa è accettata, ma non se ne precisano i termini. I tedeschi la considerano una resa senza condizioni.
Per le fonti tedesche, Gandin si sarebbe accordato per la resa e per la consegna delle armi.[14]
13-14 settembre
Gandin fa giungere due messaggi alla Divisione in cui comunica che sono ancora in corso le trattative con i tedeschi, egli sarebbe impegnato a trattare il mantenimento delle armi e il contemporaneo rientro in Italia.[15]
Alle ore 16,30 del 13 settembre Lanz comunica al generale Löhr, al comando di Salonicco: «Nonostante l’intesa col generale Gandin di consegnare le armi entro le 18,00 del 13 settembre, i comandanti si rifiutano di procedere al disarmo […]. Il generale Gandin non ha saputo esercitare la sua influenza sui suoi comandanti. Finora solo due batterie disarmate. I termini di consegna stabiliti non sono stati rispettati».[16]
Barge è incaricato, sempre nel pomeriggio, di consegnare un ultimatum di Lanz: «Il comandante generale del XXII corpo d’armata da montagna all’Ufficiale Comandante della divisione Acqui, Gandin: 1. Alla divisione Acqui viene ordinato, con effetto immediato, di cedere le armi, eccetto le piccole armi degli ufficiali, al Comandante tedesco dell’isola, tenente colonnello Barge, come è già stato fatto da tutte le parti dall’VIII e dal XXVI corpo d’armata italiano. 2. Se non verranno cedute le armi, le forze armate tedesche costringeranno alla cessione. 3. Io, con la presente, dichiaro che la divisione ai suoi ordini, che ha fatto fuoco sulle truppe tedesche e su due navi tedesche, questa mattina alle ore 7, causando la perdita di cinque morti e otto feriti, ha compiuto un aperto ed evidente atto di ostilità. Lanz, tenente generale delle truppe da montagna».[17]
A partire dall’1,30 della notte tra il 13 e il 14, Gandin fa giungere ai reparti la richiesta di esprimere un orientamento circa le alternative poste dai tedeschi nell’ultimatum dell’11 settembre: «I soldati o le unità che sono pronti a continuare a combattere agli ordini e a fianco dei reparti tedeschi devono essere segnalati numericamente in Ufficiali, Sottufficiali e Truppa entro le ore 17,00 del 12.9.1943». La “consultazione” si svolge sulle tre opzioni: 1) continuare a combattere a fianco dei tedeschi; 2) cedere le armi ai tedeschi; 3) resistere all’intimazione tedesca di disarmo. A maggioranza la Divisione si esprime contro la resa.[18]
Alle 10,00 del 14 settembre Gandin, dopo avere raccolto i risultati della consultazione, prepara una «notifica» o Verlautbarung di risposta per Barge, in cui nei fatti respinge l’ultimatum tedesco. Questa la traduzione della versione conservata nel diario di guerra del 22° corpo d’armata tedesco: «La Divisione si rifiuta di eseguire l’ordine di radunarsi nella zona di Sami, poiché teme di essere disarmata, contro tutte le promesse tedesche, o di essere lasciata sull’isola come preda per i greci, o, peggio, di non essere portata in Italia ma sul Continente greco per combattere contro i ribelli. Perciò gli accordi di ieri non sono stati accettati dalla Divisione. La Divisione vuole rimanere nelle sue posizioni, fino a quando non ottiene assicurazione – come la promessa di ieri mattina, che subito dopo non è stata mantenuta – che essa possa mantenere le sue armi e le sue munizioni, e che solo al momento dell’imbarco possa consegnare le artiglierie ai tedeschi. La Divisione assicurerebbe, sul suo onore e su garanzie, che non rivolgerebbe le armi contro i tedeschi. Se ciò non accadrà, la Divisione preferirà combattere, piuttosto di subire l’onta della cessione delle armi, ed io, sia pure con rincrescimento, rinuncerò definitivamente a trattare con la parte tedesca, finché rimango a capo della mia Divisione. Prego che mi venga data una risposta entro le ore 16. Nel frattempo, le truppe provenienti da Lixuri non debbono essere portate avanti e quelle di Argostoli non debbono avanzare, altrimenti ne possono derivare gravi incidenti. Il Generale Comandante della Divisione Acqui. F.to Gandin».[19]
15 settembre
Nel rapporto giornaliero del Gruppo armate Est tedesco, alle ore 14,30 del 15 settembre troviamo questa frase: «La guarnigione italiana di Cefalonia si è improvvisamente ribellata con le armi, ciononostante continua il suo disarmo».[20]
Alle ore 15,20 del 15 settembre Gandin comunica alla 7a Armata nelle Puglie: «Prego informare autorità competente che oggi sono stato costretto aprire at Cefalonia ostilità con tedeschi».[21] Si tratta in realtà della risposta al violento attacco tedesco di due ore prima.
16-24 settembre
Barge comunica a Lanz di non avere forze sufficienti per un attacco che abbia garanzia di successo e chiede rinforzi.
Dal 16 settembre tutti i messaggi che partono da Cefalonia per Brindisi richiedono l’intervento dei caccia, che però non arrivano. In realtà a Brindisi non ci si rende conto della drammaticità della situazione nelle isole.
Il 18 settembre arrivano gli ultimi contingenti tedeschi di rinforzo. Per decisione di Hitler giunge al Comando Supremo delle forze armate tedesche e successivamente al Gruppo ar- mate E e al generale Löhr l’ordine seguente: «Con riferimento all’ordine emanato il 15 settembre, il Comandante in Capo del Fronte Sud-Est riceve disposizione che, a Cefalonia, non deve essere fatto alcun prigioniero italiano a causa dell’insolente e proditorio contegno da essi tenuto».[22] La stessa disposizione non sarà invece applicata a Corfù.
Secondo fonti italiane, già alle ore 11,00 del 22 settembre il generale Gandin aveva fatto alzare la bandiera bianca sul quartier generale che aveva spostato a Keramies, presso Metaxata, e verso le 12,00 aveva inviato ad Hirschfeld una delegazione per offrire la resa: «La divisione Acqui è stata dispersa dall’azione degli Stukas. La resistenza è divenuta impossibile. Di conseguenza, al fine di evitare un ulteriore inutile spargimento di sangue, offre la resa».[23]
A sera, alle 22,25, il generale Lanz comunica al Gruppo armate E che la divisione Acqui è stata annientata.
24 settembre 1943. Ordine generale Lanz a Comandante 1^ Divisione Alpina. «Per ordini superiori non si devono fare prigionieri nell’operazione Tradimento».[24]
SECONDA ATTIVITÀ DIDATTICA
I processi relativi alle stragi di Cefalonia e Corfù

I processi che hanno riguardato le stragi di Cefalonia e Corfù danno un’idea della complessità delle questioni etiche, storiche, giuridiche proposte dalle vicende seguite all’8 settembre 1943 e risentono del diverso stato delle relazioni internazionali nei differenti periodi.
Nell’immediato dopoguerra, con i processi di Norimberga, che agiscono soprattutto sul livello politico dei responsabili della Germania nazista, i procedimenti contro i capi delle forze armate tedesche sono poco significativi, in quanto soprattutto gli inglesi vogliono salvaguardare il buon nome dei reparti regolari, che sono quelli impiegati per il disarmo italiano in Grecia.
Le indagini della Procura militare italiana degli anni Cinquanta sono condizionate dalla guerra fredda e dalla necessità di non riportare a galla eventi che possano contrastare nell’opinione pubblica l’accettazione dell’ingresso della Repubblica Federale Tedesca nella NATO; contemporaneamente, il governo italiano è impegnato a non soddisfare le richieste di altri Paesi di estradare militari e civili italiani responsabili di crimini di guerra.
Le tardive iniziative giudiziarie di Germania e Italia dopo gli anni Sessanta, per quanto lodevoli nelle intenzioni, finiscono con accumulare grandi quantità di documentazione, utile a questo punto in sede storica più che giudiziaria, ma senza particolari risultati.
L’ultima tornata di processi è quella che segue la scoperta dei fascicoli archiviati nel 1960 e riscoperti nel 1994 relativi ai crimini tedeschi contro cittadini italiani. Ridistribuiti tra le diverse procure militari agli inizi degli anni Duemila, sono stati conclusi progressivamente negli anni successivi, fino alla chiusura, che possiamo considerare ormai definitiva del 2013-14.

Quadro dei processi che si sono interessati delle vicende di Cefalonia e Corfù del settembre 1943.

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Consegna

La classe individui le principali ragioni che hanno impedito ai tribunali attivati in Germania e in Italia nel dopoguerra di giungere ad una condanna per l’eccidio di militari della divisione Acqui a Cefalonia nel settembre 1943.

 

1. Processo di Norimberga (1947)
Nel 1948, davanti al Tribunale internazionale di Norimberga, nell’ambito del procedimento n. 7 dei processi per crimini di guerra, è inquisito il generale Lanz, già comandante del 22° corpo d’armata da montagna, e il suo superiore, generale Wilhelm Speidel, comandante militare della Grecia. Tuttavia in relazione a questo procedimento, sorgono le stesse difficoltà del procedimento contro altri alti ufficiali della Wehrmacht, della Luftwaffe e della Marina già processati in precedenza, ovvero l’ostilità diffusasi soprattutto nel mondo politico e militare inglese contro i processi ai militari tedeschi in quanto tali, indipendentemente dal coinvolgimento nelle strutture di comando nazista. In generale, i giudizi dell’International Military Tribunal commineranno tutte le condanne a morte sui militari tedeschi non per “crimini contro l’umanità”, ma solo per “violazione delle tradizionali leggi di guerra”.
Lanz potrà avvalersi delle dichiarazioni di sostegno di molti ex commilitoni, che in questo modo cercavano di salvare «l’onore delle forze armate tedesche». La corte si convince che Lanz sia intervenuto per mitigare l’ordine di Hitler facendo fucilare solo gli ufficiali responsabili della resistenza, in particolare quelli di Stato Maggiore, avendo ordinato ad Hirschfeld, il comandante tedesco sull’isola, di “sottoporre gli ufficiali colpevoli ad un procedimento davanti ad una corte marziale”. La responsabilità dell’eccidio viene anzi rigettata su Gandin.
Nel corso dell’interrogatorio Lanz farà costantemente ricorso al «non ricordo», oppure, a proposito delle fucilazioni degli ufficiali, egli ribadisce che sarebbero avvenute secondo la legge marziale, affermazione chiaramente negata da tutti i sopravvissuti italiani agli eccidi. Questi testimoni, però, come quelli greci, non saranno sentiti nel corso del processo.
La Corte americana non aveva voluto o potuto prendere visione della documentazione tedesca e aveva respinto i testimoni tedeschi e greci, per cui si trovava nell’impossibilità di verificare la gravità delle accuse, nonostante avesse stabilito il principio che anche l’uccisione di un “numero limitato” di ufficiali italiani era un “crimine di guerra” e chiarito che i soldati italiani che facevano resistenza contro gli aggressori tedeschi non potevano essere considerati “franchi tiratori”.
Il Tribunale, nella sentenza emessa il 19 febbraio 1948, accetterà parzialmente l’interpretazione della difesa di Lanz, limitando così la condanna a dodici anni, una sentenza certamente mite, anche se era la più alta rispetto a quella degli altri 11 imputati, di cui solo cinque scontati effettivamente. Nel 1951, il cancelliere Adenauer ottenne la liberazione di quasi tutti i criminali di guerra tedeschi detenuti in carceri del paese.
2. Le indagini della Procura militare italiana (1955-1960)
L’azione penale inizia a seguito di tre denunce presentate dal dott. Roberto Triolo, genitore di un caduto, il sottotenente Lelio Triolo. Con sentenza del 26 febbraio 1955, la Corte di Cassazione a Sezioni Riunite decise che sui fatti di Cefalonia avrebbe dovuto provvedere l’Autorità Giudiziaria Militare.
Il Procuratore Militare della Repubblica in Roma, in data 30 settembre 1955, apre un’istruttoria formale contro 30 militari tedeschi (tra cui Stettner, Hirschfeld, Rademacher, Barge) per: «Concorso nel reato di violenza con omicidio continuato commesso da militari nemici in danno di militari italiani prigionieri di guerra» e «Concorso nel reato di spoliazione di cadaveri» e contro 28 ufficiali, sottufficiali e truppa della Acqui (tra cui ufficiali come Apollonio, Pampaloni, Boni, Longoni, Barone, Di Rocco, Bianchi, Briganti, Ghilardini), accusati di «cospirazione e rivolta» contro il generale Gandin, che sarebbe stato spinto allo scontro coi tedeschi contro la sua volontà. Tra gli imputati vi sono i capitani Renzo Apollonio e Amos Pampaloni, accusati anche per: «insubordinazione con minaccia verso superiore ufficiale, perché il 12.9.1943 minacciavano il comandante la divisione di far rifiutare la truppa alla obbedienza, al fine di influire sul superiore onde farlo desistere dal proposito di ordinare la consegna ai tedeschi delle armi pesanti».
Già alla fine del 1956, il Procuratore militare aveva chiesto alle autorità di governo, in particolare al ministro degli Esteri Martino, di attivare il procedimento di estradizione per gli imputati tedeschi da presentare alla Repubblica federale di Germania. Ma la magistratura tedesca rifiuta di collaborare con quella italiana: subito dopo la guerra, molti ex ufficiali, anche quelli condannati per crimini di guerra, sono stati reinseriti nell’esercito della Repubblica federale tedesca, e questo col consenso esplicito del governo inglese e di quello americano. Tra questi l’ex maggiore Reinhold Klebe, cioè uno dei massimi responsabili della strage di Cefalonia, che nel 1956 era ancora in servizio nei reparti di truppe da montagna. Con l’ingresso della Repubblica federale tedesca nella Nato, intorno al 1956 vengono archiviati, nei paesi occidentali, la gran parte dei procedimenti contro militari tedeschi per crimini di guerra. Inoltre, in tempi di guerra fredda e di riarmo della Germania federale, non conviene mettere in cattiva luce la «gloriosa» tradizione della Wehrmacht.
Nonostante la requisitoria del Pubblico Ministero Piero Stellacci, depositata in data 20 marzo 1957, che accoglieva nella sostanza le accuse contro i militari italiani, con sentenza dell’8 luglio 1957, il giudice istruttore militare Giuseppe Mazzi rigettava l’istanza contro gli ufficiali italiani per “non luogo a procedere”, perché la loro attività non costituiva reato. La seconda parte dell’inchiesta viene proseguita ancora per qualche anno, inizialmente vengono prosciolti 21 militari tedeschi, poi, nel giugno 1960, il procedimento si conclude definitivamente col proscioglimento dei 9 imputati rimasti.
3. La giustizia tedesca: la Procura di Dortmund si attiva (1964-1969 e 2001-2007)
Nel 1963 viene stampato il romanzo Bandiera bianca a Cefalonia, di Marcello Venturi. L’autore si avvale della collaborazione di Amos Pampaloni e può utilizzare le memorie e la documentazione allora disponibile. Il successo del libro riporta l’attenzione dei media tedeschi e italiani su Cefalonia; nel 1964, Simon Wiesenthal si interessa della questione e comincia a raccogliere materiali per intentare un’azione legale. Nel novembre 1964 la Procura di Stato di Dortmund avvia un procedimento istruttorio sull’eccidio di Cefalonia. Fino ad allora per la giustizia tedesca quanto avvenuto sull’isola era assolutamente sconosciuto. L’istruttoria, condotta dal procuratore generale di Stato Nachweh, si conclude con l’archiviazione, comunicata allo stesso Wiesenthal nel 1969. Nonostante abbia sentito 231 testimoni e individuato ben 19 località in cui sarebbero avvenute stragi, il procuratore tedesco non riesce o non vuole rintracciare alcuni dei protagonisti della strage. Se Hirschfeld era morto in Ucraina all’inizio del 1945, la maggior parte dei responsabili sono ancora vivi, in particolare Lanz, Barge, Heidrich e Kuhn. Vengono ascoltati solo due greci e due italiani: lo scrittore Marcello Venturi e padre Luigi Ghilardini. Ai sensi della legge tedesca, l’impossibilità di dimostrare che si fosse trattato di assassinio aggravato e non di omicidio semplice, cioè di un delitto particolarmente efferato oppure commesso per bassi motivi, rende obbligatoria la chiusura delle indagini.
La stessa Procura di Dormund, competente per i crimini di guerra, a partire dal 2001 ha riaperto le indagini. Nell’archiviazione del 1969 pesò anche il tipo di accusa, «omicidio colposo di subordinato [i prigionieri italiani]», che per la legislazione tedesca prevede la prescrizione dopo 15 anni. Ora si parla invece di omicidio «volontario» e «concorso in omicidio».
Dalle prime indagini emergono i nomi di almeno 200 Gebirgsjaeger (le truppe speciali da montagna); 10 di loro sono stati rintracciati, 9 ufficiali e 1 sottufficiale, che avevano allora tra i settantanove e novantadue anni. Viene rintracciato il capo di uno dei plotoni d’esecuzione, il sottotenente Mühlhauser, che fucilò il generale Gandin e il primo gruppo di ufficiali. Nel luglio 2006 il giudice istruttore di Monaco di Baviera (dove il procedimento era giunto per competenza) August Stern decide l’archiviazione dell’accusa contro l’ex ufficiale, perché “nel caso dell’imputato si deve riconoscere un reato di omicidio, prescritto e non di omicidio aggravato”. Nella motivazione della sentenza si legge:
«Le forze militari italiane non erano normali prigionieri di guerra. Inizialmente erano alleati dei tedeschi e si sono poi trasformati in nemici combattenti diventando traditori: in questo caso è come se parti delle truppe tedesche avessero disertato e si fossero schierati dalla parte del nemico».
Nel 2007 viene rigettato l’appello presentato dalla figlia del capitano Francesco De Negri, l’unica a costituirsi parte civile nel processo. Nello stesso anno si chiude con l’archiviazione anche l’inchiesta del procuratore di Dormund Ulrich Maaß contro 7 ufficiali della Wehrmacht accusati per le stragi di Cefalonia: non luogo a procedere a seguito delle indagini svolte in due distinti periodi tra il 1964 e il 1968, tra il 2001 e il 2007, nel corso delle quali sarebbero state coinvolte 2.400 persone in Germania, 860 in Austria e 86 in Italia, interrogati oltre 500 testimoni oculari. L’unico ad avere ammesso i fatti, Mühlhauser, era stato già prosciolto.
4. L’armadio della vergogna e la giustizia italiana
Nel 1994, il procuratore militare di Roma, Antonino Intelisano, mentre sta indagando su due criminali di guerra, Erich Priebke e Karl Hass, si imbatte, all’interno del palazzo Cesi di via Acquasparta a Roma, sede della Procura militare, in un armadio con le ante rivolte contro il muro, in una stanza da tempo abbandonata, chiusa da un cancello. L’armadio contiene 695 fascicoli sulle stragi fasciste e naziste, il timbro risale al 1960, ai tempi in cui era Procuratore generale militare Enrico Santacroce, a cui spettava la decisione di archiviare «provvisoriamente» i fascicoli. In un registro è contenuto l’elenco di 2.274 procedimenti iscritti nel Ruolo generale dei procedimenti contro criminali di guerra tedeschi, quello su Corfù è il n. 5, quello su Cefalonia è il numero 1.188. In quest’ultimo vi sono anche i nomi dei militari tedeschi coinvolti nel procedimento: tenente colonnello Barge, maggiore Hirschfeld, maggiore Nennstiel, capitano von Stoephasius, tenente Radenaker, sottotenenti Lepiold, Stettner, Heindrich, Bauer, Fremmel, Lulai, Gregor, Wiener, Hart, Kuller, Kiker, Kaiser. L’accusa è «Violenza con omicidio art. 211 c.p.m.g.»; i tribunali di riferimento: «Ministero Esteri per Londra, Procuratore militare di Roma». In realtà l’archivio è stato occultato per quarantaquattro anni.
Effettivamente, il 14 giugno 1960, il giudice istruttore militare designato Carlo Del Prato, aveva prosciolto in istruttoria “per non aver commesso il fatto“ molti imputati per la strage di Cefalonia, tra cui il generale Hubert Lanz, il comandante del XXII° corpo d’armata, che ne era il massimo responsabile. Di nuovo, nel 1994, il procuratore Antonino Intelisano decide di archiviare il fascicolo 1188 riguardante la strage di Cefalonia, poiché ritenne che la vicenda sia già stata chiusa con il proscioglimento in istruttoria da Carlo Del Prato. Purtroppo non ebbe l’iniziativa di informarsi se in Germania si sapesse qualcosa di più su criminali ancora viventi e possibili responsabili della strage. In Germania, già nel 1967 e poi nel 2003, Dehm e Mühlhauser avevano fatto le loro deposizioni a Dortmund, prima come persone informate dei fatti, poi come indagati. Quindi il fascicolo n. 1188 fu nuovamente archiviato.
Nel 2007 Marcella De Negri e Paola Fioretti, figlia del tenente colonnello Giambattista, decidono di presentare un esposto alla procura Militare di Roma affinché proceda all’apertura di un procedimento contro Otmar Mühlhauser, reo confesso dell’uccisione di un numero non precisato di ufficiali tra cui il generale Antonio Gandin. Il procuratore militare di Roma Antonino Intelisano, nel novembre 2007, iscrive nel registro degli indagati i 7 imputati già assolti in Germania per omicidio plurimo aggravato. I materiali raccolti in Germania vengono richiesti dall’Italia. Mühlhauser nel 2009 viene rinviato a giudizio dal Pubblico ministero del Tribunale militare di Roma, Gioacchino Tornatore. Questo procedimento ebbe termine nel luglio 2009, nel corso dell’Udienza Preliminare, per “morte del reo”.
Il nuovo procuratore militare a Roma, Marco De Paolis, aveva avviato un’indagine contro il soldato Störk, tra i militari tedeschi impiegati nei plotoni di esecuzione contro gli ufficiali italiani. In una sua confessione, rilasciata nel 2005, ammette che il plotone di cui faceva parte fucilò 73 ufficiali. Marcella De Negri si costituisce nuovamente parte civile. De Paolis annuncia la richiesta di rinvio a giudizio per Störk. Il processo contro Alfred Störk si è svolto dal 15 giugno 2012 al 18 ottobre 2013, giorno della sentenza. Paola Fioretti, Marcella De Negri, il nipote Francesco De Negri erano le parti civili. Durante le molte udienze sono state ascoltate le parti civili e molti reduci di Cefalonia, ancora vivi. Alla fine dell’udienza del 18 ottobre 2013, Alfred Störk, nonostante la Corte avesse deciso che la sua confessione non era utilizzabile poiché resa senza la presenza – assistenza di un avvocato difensore, è stato condannato all’ergastolo. Nel settembre 2014, Störk rinuncia al ricorso in appello e la sentenza diviene definitiva. Muore in libertà nel 2018.

Note:

[1] In AUSSME, H5, 1RR, Fasc. 9. Il testo del Promemoria n. 2 è pubblicato in E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 216-18.

[2] Vedi Stampa Sera, 9 settembre 1943, Pagina 1, Torino.

[3] L’ordine di Vecchiarelli è nel Diario Storico del Comando del XXVI corpo d’armata; in E. Aga Rossi, Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito, Il Mulino, Bologna 2021, p. 193.

[4] C. Vecchiarelli, «Relazione sull’operato del comandante dell’XI armata in dipendenza e a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943», Allegato n. 2, AUSSME, Accertamenti, Grecia, DS 2128/A/1/1, in E. Aga Rossi, Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito, cit., p. 322.

[5] C. Vecchiarelli, «Relazione sull’operato del comandante dell’XI armata in dipendenza e a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943», Allegato n. 2, AUSSME, Accertamenti, Grecia, DS 2128/A/1/1, in Aga Rossi, 2021, p. 322.

[6] Telegramma dello Heeresgruppe E ai comandanti delle grandi unità dipendenti, in A. Caruso, Italiani dovete morire, Longanesi, Milano 2000, p. 48

[7] Allegato al Diario di guerra del Comando Supremo; vedi il commento di P. Paoletti, Cefalonia 1943, Una verità inimmaginabile, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 63-66.

[8] Il testo dell’ordine del giorno del tenente generale Sir Henry Maitland Wilson, indirizzato per radio alle forze italiane nei Balcani e nell’Area Egea è pubblicato dal «Times» di New York il 9 settembre 1943. Lo si trova in G. Fioravanzo (a cura di), La Marina dall’8 settembre 1943 alla fine del conflitto, vol. XV, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 1971, pp. 15-16. Vedi anche Aga Rossi, 2003, p. 22 e p. 295, n. 34.

[9] C. Vecchiarelli, «Relazione sull’operato del comandante dell’XI armata in dipendenza e a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943», Allegato n. 2, AUSSME, Accertamenti, Grecia, DS 2128/A/1/1, in Aga Rossi, 2021, p. 322.

[10] Diario di guerra del XXII corpo d’armata da montagna tedesco, trad. it. in AUSSME, H5, fondo Acqui; vedi Aga Rossi, 2021, pp. 194-95.

[11] Il testo completo è in G. Giraudi, La resistenza dei militari italiani all’estero. Grecia continentale e isole dello Jonio, «Rivista Militare», Roma 1995, tradotto dal tedesco da Renzo Apollonio nel 1986.

[12] Il testo completo in Giraudi, 1995, pp. 344-45.

[13] In A. Tamaro, Due anni di storia, Vol. 1, pag. 474, Tosi Editore, Milano 1948-49.

[14] Diario di guerra del XXII corpo d’armata tedesca, COREMITE 31/182, p. 340.

[15] G. Giraudi, 1995, pp. 373-74.

[16] Diario di guerra del XXII corpo d’armata da montagna tedesco, 13 settembre 1943; BA-MA, RH 24-22/3 allegato 49.

[17] Diario di guerra del XXII corpo d’armata da montagna tedesco, allegato n. 43a.

[18] Testimonianza del caporal maggiore Brunetto Guerrieri, in Fondo ANEI di Firenze, Busta 05, fasc. 59.

[19] Diario di guerra del XXII corpo d’armata da montagna tedesco, Allegato 43, traduzione in Rusconi, Cefalonia. Quando gli italiani si battono, Einaudi, Torino 2004, pp. 46- 47.

[20] Diario di guerra del XXII corpo d’armata da montagna, allegato n. 59a; BA-MA, RH 24-22/3.

[21]  Allegati al Diario di guerra del Comando Supremo. Si tratta del primo di quattro telescritti inviati da Gandin al Comando Supremo di Brindisi il 15 settembre dopo l’inizio dei bombardamenti tedeschi. Nel terzo, 20 minuti dopo il primo, si dice che «Tedeschi non accettano mia richiesta che divisione conservi armi at violenza risponderò con violenza».

[22] In S. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945, Stato Maggiore Esercito, Roma 1997, p. 206. Quest’ordine segreto speciale non risulta agli atti del Diario di guerra del XXII corpo d’armata da montagna tedesco. Vedi H. F. Meyer, Il massacro di Cefalonia, Gaspari Editore, Udine 2013, cap. V, par. 6. L’ordine di Hitler di fucilare gli italiani a Cefalonia, pp. 228-240.

[23] Relazione del capitano Italo Tomasi, M. Montanari, «Cefalonia settembre 1943. La documentazione italiana», in G. Rochat-M. Venturi, La divisione Acqui a Cefalonia Settembre 1943, Mursia, Milano 1993, p. 120.

[24] Parte della documentazione tedesca con le comunicazioni tra Lanz e Barge, e quelle tra Lanz e i comandanti tedeschi della Marina (settore Egeo e Atene) e dell’Aviazione (X corpo aereo), sono riportati in G. Giraudi, cit., pp. 401-5.