Il colonialismo italiano: un dibattito storiografico non risolto
“L’Abissinia e le colonie italiane sul mar Rosso” – Foto tratta da The British Library – Image taken from page 285 of ‘L’Abissinia e le Colonie italiane sul Mar Rosso, con due carte, etc’, No restrictions, Link
Debate presentato alla Summer school 2018
dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri
e legato al dossier tematico
Tolleranza e intolleranza. Stranieri e diversi nel mondo contemporaneo
Abstract
La memoria coloniale italiana è un tema storiografico poco dibattuto e controverso. Da una parte esiste un senso comune dominato dall’idea del “colonialismo buono” ad opera degli italiani “brava gente”, dall’altra si sta sviluppando, più recentemente, una visione storica critica, che parte dalle fonti e assimila la politica dell’Italia a quella degli altri stati colonialisti.
Indice
Il debate e l’insegnamento della storia
Sottoporre a processo un evento, una fase, un tema storico – in questo caso la presunta bontà degli italiani –, analizzare criticamente i vari aspetti del problema e soppesare la legittimità storiografica di tesi contrastanti, consente allo studente, impegnato nella controversia, di cogliere la complessità e problematicità della questione presa in esame, non riducibile a banali schematizzazioni o a generici giudizi.
Il debate, applicato alla storia, non deve mirare a incentivare abilità retoriche negli studenti o a sviluppare una vis polemica fine a se stessa, ma si ripromette di far crescere in loro la capacità critica, l’attitudine all’analisi dei documenti e al dibattito storiografico.
Un obiettivo da perseguire tramite un’attività didattica stimolante, innovativa e coinvolgente.
Sequenza didattica
- l’insegnante introduce il tema del colonialismo italiano tramite la lettura di due brevi brani che propongono tesi opposte.
- dopo aver brevemente introdotto e inquadrato l’argomento oggetto della discussione, l’insegnante propone un piccolo dossier, composto da una decina/quindicina di brevi documenti, preceduti da sintetiche note esplicative sull’autore. All’occorrenza il docente può fornire rapide informazioni o ulteriori delucidazioni sugli autori dei brani, sul contesto storico ecc.
- divisa la classe in due gruppi, si estrae a sorte (oppure decide il docente) il compito, apologetico o critico, affidato ad ognuno di essi: il gruppo A dovrà quindi difendere la tesi degli italiani “brava gente”, il gruppo B dimostrarne l’infondatezza e gli aspetti maggiormente critici e problematici.
- i due gruppi avranno assegnato un tempo determinato per esaminare il dossier e prepararsi al proprio compito, apologetico o critico.
- il giorno convenuto – o la stessa mattina, qualora il tempo a disposizione per il debate sia di almeno 2 ore consecutive – si terranno le due “orazioni”, che dovranno risultare ben impostate e convincenti.
- dopo aver ascoltato le due relazioni, ogni gruppo farà le obiezioni alle tesi dell’altro; la discussione dovrà vertere sulla bontà e fondatezza degli argomenti portati a sostegno della propria tesi. Si dovranno citare i documenti, si potrà criticare la lettura che di questi è stata fatta dal gruppo avversario, si potrà rispondere alle critiche. Sarà cura del docente garantire l’ordinato svolgimento della discussione.
- la “giuria”, composta dall’insegnante, affiancato eventualmente da altri colleghi disponibili a prendere parte al progetto didattico, prenderà nota delle obiezioni e delle risposte, ai fini di una valutazione storiografica. Il docente può assegnare un punteggio alle argomentazioni delle due squadre in base alla loro maggiore o minore attendibilità. Nel caso di un debate multidisciplinare si terrà conto, ovviamente, anche degli aspetti linguistici, letterari ecc.
- l’insegnante alla fine della discussione comune potrà stabilire il punteggio finale e decretare il gruppo vincitore. Questa opzione, demandata alla libera scelta del docente, riveste un carattere puramente strumentale ai fini della riuscita dell’attività didattica: si può anche decidere di non decretare la vittoria di un gruppo sull’altro per puntare invece alla individuazione dei punti forti e deboli delle argomentazioni dei due gruppi.
- alla fine – in realtà è questo il momento decisivo del laboratorio – il docente presenterà agli studenti un testo da lui ritenuto tra i più aggiornati, autorevoli e significativi sull’argomento. Entrambi i gruppi, a prescindere dal punteggio ottenuto e dalle argomentazioni svolte, si confronteranno con questo testo. Lo scopo è quello di osservare se e in quale misura gli studenti riescono a cogliere differenze e analogie tra il ragionamento professionale dello storico e le argomentazioni portate nel dibattito a sostegno o detrimento di determinate tesi.
Per iniziare. Due tesi a confronto
Tesi #1
“Raffaele Guariglia ha scritto nei suoi Ricordi che la guerra di Etiopia costituì non solo una bellissima pagina militare ma anche un’azione politica, audace sì ma brillante e fortunata, il cui merito spettò indubbiamente a Mussolini, tanto dal punto di vista militare che da quello politico, e che i suoi risultati sarebbero stati utilissimi per il nostro popolo se le ulteriori vicende politiche non li avessero frustrati […]. Questo giudizio è per noi estremamente interessante, sia perché nel ’35-36 Guariglia coordinò a palazzo Chigi l’attività dei vari uffici che si occupavano della questione etiopica e, pertanto, ne conobbe direttamente e a fondo le vicende, sia perché egli ha espresso su altri aspetti della politica estera mussoliniana valutazioni assai più caute e critiche, che quindi, danno un particolare valore a questo giudizio, soprattutto a quella parte di esso che si riferisce all’aspetto politico della vicenda etiopica e al ruolo personale del duce, sia, infine, perché vi sono elementi per ritenere che l’atteggiamento verso l’impresa etiopica di Guariglia non sia stato molto diverso di quello di gran parte della carriera.”
[Renzo de Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-1936, Einaudi, 1980]
Tesi #2
“In 75 anni in Africa, l’Italia accumula più sconfitte che vittorie, più umiliazioni che glorificazioni. Il che può significare molte cose: che i piani di conquista sono stati elaborati maldestramente; che le guerre coloniali non sono sentite dal popolo italiano; che si è commesso l’errore di sottostimare l’avversario, per leggerezza o per disprezzo, o per entrambe le cose. La serie nera delle sconfitte costringe più volte l’Italia a mobilitare corpi di spedizione sempre più ingenti ed estremamente onerosi per l’erario. Per cui, anche sul piano economico, l’avventura coloniale africana si conclude con un netto fallimento. E neppure si può affermare che l’Italia riesca ad aumentare il proprio prestigio con le sue imprese d’oltremare, l’ultima delle quali, contro l’Etiopia, viene concepita ed attuata in un’epoca in cui le altre potenze colonialiste cominciano già a porsi il problema, sotto la spinta del nazionalismo africano ed asiatico, di come liquidare senza troppe perdite e traumi i loro imperi.”
[Angelo del Boca, L’Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori,sconfitte. Laterza 1992,]
Dossier per il debate
Ogni docente potrà naturalmente individuare i documenti che riterrà più opportuni per il lavoro con la propria classe; il presente dossier ha quindi un valore puramente indicativo. Noi abbiamo deciso di proporre anche brevi estratti da due manuali scolastici, editi in anni diversi, per valutare la ricezione di questo dibattito storiografico anche nella manualistica scolastica.
I materiali proposti per lo svlgimento di questo debate non appaiono suddivisi nelle due tesi “pro” e “contro” come nelle esemplificazioni proposte nei numeri precedenti, in quanto sono stati pensati per essere “mischiati nel sacchetto delle fonti” e “pescati” dai partecipanti che devono così anche compiere l’operazione preliminare di individuare le fonti più adatte a sostenere la tesi loro assegnata, con un preliminare lavoro di analisi sui materiali a disposizone e una riflessione sulle possibilità di utilizzo strumentale delle fonti stesse.
Documenti
Il “bravo italiano”
Tra i maggiori sostenitori delle tesi del fallimento dell’impresa coloniale e dell’allineamento dell’Italia a quello degli altri Stati europei c’è Angelo del Boca, storico, giornalista, autore di molti saggi sul colonialismo italiano. Secondo Del Boca c’è stata una vera e propria rimozione collettiva di quella esperienza, tanto da far scaturire il mito del “bravo italiano”, la cui origine coinciderebbe con la prima campagna d’ Africa.
“Per l’esattezza, il mito comincia a imporsi con la politica coloniale inaugurata da Pasquale Stanislao Mancini. L’Italia giungeva ultima in Africa, a spartizione già avvenuta. Ma, come ebbe a precisare Mancini il 16 giugno 1885, essa «non poteva continuare a rimanere spettatrice inerte di fronte alla battaglia tra la civiltà e la barbarie»”
[Angelo Del Boca Italiani brava gente. Un mito duro a morire, Neri Pozza 2005]
La penetrazione in Africa non fu facile, nonostante l’esercito italiano possedesse delle armi e delle attrezzature più moderne.
Del Boca sostiene che per riuscire ad avere la meglio sulle popolazioni africane, gli italiani non lesinarono metodi brutali, come accadde, ad esempio, in Etiopia, all’indomani dell’attentato a Graziani.
“Il 19 febbraio 1937, in seguito a un attentato alla vita del viceré d’Etiopia, maresciallo Rodolfo Graziani, alcune migliaia di italiani, civili e militari, uscivano dalle loro case e dalle loro caserme e davano inizio alla più furiosa e sanguinosa caccia al nero che il continente africano avesse mai visto.
Armati di randelli, di mazze, di spranghe di ferro, abbattevano chiunque – uomo, donna, vecchio o bambino – incontravano sul loro cammino nella città-foresta di Addis Abeba. E poiché era stabilito che la strage durasse tre giorni, e l’uso dei randelli si era rivelato troppo faticoso, già dal secondo giorno si ricorreva a metodi più sbrigativi ed efficaci. Il più praticato era quello di cospargere una capanna di benzina e poi di incendiarla, con dentro tutti i suoi occupanti, lanciando una bomba a mano”.
[Angelo Del Boca Italiani brava gente. Un mito duro a morire Premessa]
Il racconto del periodo coloniale soffre quindi di troppe dimenticanze, sostiene anche Nicola Labanca, come accade, ad esempio, al protagonista del romanzo di Ennio Flaiano Tempo di uccidere (1947), ambientato in Etiopia, durante la guerra con l’Italia (1935-36). Egli, una volta ritornato in patria, ricorda le meraviglie dell’Africa orientale e l’amore di una bella donna, ma dimentica di averla uccisa. Il protagonista dice:
«“Il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri”.
“Meglio così”, dissi. “Se nessuno mi ha denunciato, meglio così”».
Per Labanca il romanzo sintetizza quello che è accaduto alla memoria storica, che ha preferito lasciare in Africa i ricordi brutti:
“Un’esperienza di dominio italiano durata grossomodo sessant’anni, dall’Eritrea (1882) alla Somalia, dalla Libia all’Etiopia.
Una storia per quarant’anni liberale e per vent’anni fascista, bruscamente interrotta perché il regime perse in guerra (1941-43) tutte le sue colonie. Di quella storia è rimasta una memoria nazionale fortemente ambigua, parziale. Solo una parte della storia è stata ricordata. Come tutti i colonizzatori europei, gli italiani amano ricordarsi e immaginarsi come “brava gente” affascinata dalle bellezze della natura africana, sinceramente interessata delle popolazioni
dominate, prodiga di interventi in loro favore. È difficile negare che anche questo furono (ma quanto rispetto ad altri imperi coloniali? già a questa domanda non si vuole rispondere).”
[Nicola Labanca, La memoria ambigua degli italiani, La Repubblica, 16 dicembre 2005]
Secondo Filippo Foccardi tale narrazione non è nata casualmente, ma ha una sua motivazione storico-politica:
“L’elogio del presunto colonialismo ‘dal volto umano’ servì alla classe dirigente, compresa gran parte della sinistra antifascista, per rivendicare il mantenimento della sovranità sulle colonie prefasciste (Libia, Eritrea e Somalia), ‘civilizzate’ dall’alacre contributo del lavoro italiano. All’immagine del ‘bravo italiano’ scaturita dalla guerra e intrecciata all’immagine specchio del ‘cattivo tedesco’, si univa pertanto – con effetto di rafforzamento – quella degli ‘italiani brava gente’ che si erano prodigati per mettere a frutto i territori d’oltremare costruendo strade, scuole, ospedali e impiantando attività economiche (come se le altre potenze coloniali non avessero fatto lo stesso, ovviamente curando il proprio tornaconto).”
[Filippo Foccardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza 2014]
Canzoni
Le canzonette hanno sempre rappresentato un po’ il senso comune; leggendo quelle a tema colonialistico è possibile capire come sia cambiato nel tempo l’immaginario collettivo. Le due versioni italiane di Faccetta nera (la prima versione è in romanesco) risentono ad esempio del clima mutato dopo l’applicazione delle leggi razziali.
L‘Africa nelle canzoni del primo colonialismo italiano (1882-1912)
Africanella
1894 – Testi di Roberto Bracco per celebrare la vittoria e la conquista di Cassala. Due anni dopo ci sarà la sconfitta di Adua
Musiche di Claudio Clausetti
Curretteno mazzate!
Scuppette, lanze e ferrimene
lassaje abbandunate
‘o capo d’ ‘a tribù.
Na nenna africanella
m’addimannaie de Napule:
– Dell’Africa è cchiù bella?
– Gnorsì!.. Nce viene tu?…
Io tengo na medaglia
Ch’avette p’ ‘a battaglia
e tengo na bannera
cu na faccella nera.
Africanella, a Cassala
vincetteme, over’è:
L’ITALIA RESTA IN AFRICA,
tu rieste mpiett’a mme.
– “Si vede e non si tocca”
dicette ‘o capitano
e le vasaje la vocca
mentr’io steva a guardà.
– “Sordato, che volete?”
– “Io so’ napulitano…
Se lei mi premmettete
i’ saccio ch’aggia fa’”
Io tengo na medaglia
Ch’avette p’ ‘a battaglia
e tengo na bannera
cu na faccella nera.
Africanella, a Cassala
vincetteme, over’è:
L’ITALIA RESTA IN AFRICA,
tu rieste mpiett’a mme.
Mprigione, a lu quartiere
mann’essa li suspire.
Va trova ‘o carceriere
che le vo’ cumbinà.
Si faccio n’auta guerra
io primma de murire
mmiez’a lu serra serra
la voglio libberà.
La musica italiana al tempo dell’avventura coloniale in Libia (1911)
A Tripoli o Tripoli bel suol d’amore
1911 – Testi di Giovanni Corvetto (giornalista de La Stampa)
Musiche di Colombino Arona
Sai dove s’annida più florido il suol?
Sai dove sorride più magico il sol?
Sul mar che ci lega con l’Africa d’or,
la stella d’Italia ci addita un tesor.
Ci addita un tesor!
Tripoli, bel suol d’amore,
ti giunga dolce questa mia canzon!
Sventoli il tricolore
sulle tue torri al rombo del cannon!
Naviga, o corazzata:
benigno è il vento e dolce la stagion.
Tripoli, terra incantata,
sarai italiana al rombo del cannon!
A te, marinaro, sia l’onda sentier.
Sia guida Fortuna per te, bersaglier.
Và e spera, soldato, vittoria è colà,
hai teco l’Italia che gridati:”Và!”
Tripoli, bel suol d’amore,
ti giunga dolce questa mia canzon!
Sventoli il tricolore
sulle tue torri al rombo del cannon!
Naviga, o corazzata:
benigno è il vento e dolce la stagion.
Tripoli, terra incantata,
sarai italiana al rombo del cannon!
Al vento africano che Tripoli assal
già squillan le trombe,
la marcia real.
A Tripoli i turchi non regnano più:
già il nostro vessillo issato è lassù…
Tripoli, bel suol d’amore,
ti giunga dolce questa mia canzon!
Sventoli il tricolore
sulle tue torri al rombo del cannon!
Naviga, o corazzata:
benigno è il vento e dolce la stagion.
Tripoli, terra incantata,
sarai italiana al rombo del cannon!
Di questa canzone esiste anche una parodia che dimostra che non tutti condividevano la guerra intrapresa dall’Italia contro l’impero ottomano.
Tripoli suol del dolore
1911 – Autore incerto, testo attribuito a Luigi Castagna, operaio
Sai dove si stende
più sterile il suol?
Sai dove dardeggia
sanguigno più il sol?
Di madri il singhiozzo
di spose il dolor
son doni che reca
quest’Africa d’or
Tripoli suol del dolore
ti giunga in pianto
questa mia canzon
sventoli il bel tricolore
mentre si muore
al rombo del cannon
Naviga su fornitore
benigna è l’ora
e bella è l’occasion
Tripoli tu sei l’amor
il dolce sogno
dell’italo succhion
Tripoli suol del dolore
ti giunga in pianto
questa mia canzon
sventoli il bel tricolore
mentre si muore
al rombo del cannon
A te marinaio
va mesto il pensier
tu salva la pelle
se puoi bersaglier
va e spera vittoria
soldato perchè
vi resta in Italia
chi mangia per te
Naviga su fornitore
benigna è l’ora
e bella è l’occasion
Tripoli tu sei l’amor
il dolce sogno
dell’italo succhion
Al nero fratello
del suolo fatal
darem la pellagra
e marcia real.
A Tripoli i turchi
non regnano più
le forche d’Italia
rizziamo laggiù
Tripoli suol del dolore
ti giunga in pianto
questa mia canzon
sventoli il bel tricolore
mentre si muore
al rombo del cannon
Naviga su fornitore
benigna è l’ora
e bella è l’occasion
Tripoli tu sei l’amor
il dolce sogno
dell’italo succhion
L’Africa nella musica italiana nel periodo fascista
Ritorno dall’Africa Orientale
Ritorno vincitore,
O amorosa mia
Ti porto un fiore,
II fiore dell’Etiopia.
I ricordi di Dessiè
E dell’Altipiano,
Le more di Macallè
Coi Ras e il Sultano.
E dall’Africa Orientale
Porto l’amore,
E dall’Africa Orientale,
Porto l’amore
Del militare.
Memorie d’istanti
Degli arditi avieri
La fedeltà dei fanti
Che vinsero i neri.
In torride battaglie,
Allo scontro d’Ascianghi
Le nostre mitraglie,
E l’impeto dei tanghi.
E dall’Africa Orientale
Porto l’amore,
E dall’Africa Orientale,
Porto l’amore
Del militare.
L’Era umana,
Impose alla schiavitù,
La civiltà romana,
Col fior della gioventù.
Di Roma gli emissari,
Nemici delle barbarie,
D’astuti avversari,
Posero un sole, e le melodie.
E dall’Africa Orientale
L’echeggiar dei canti,
Al lago di Tana,
La voce dei fanti
Alla Patria lontana.
Lo splender sui volti,
Delle donne italiane,
Ai nostri ritorni,
Dalle terre Africane.
E dall’Africa Oriental
Me ne frego
Testo di: R. Visconti
Musica di: Manfredo Lina
Il motto pregiudicato e schietto
Fu detto da un baldo giovanotto
Fu trovato molto bello se ne fece un ritornello
E il ritornello allegro fa così
Me ne frego non so se ben mi spiego
Me ne frego con quel che piace a me
Me ne frego non so se ben mi spiego
Me ne frego con quel che piace a me
Albione la dea della sterlina
S’ostina vuol sempre lei ragione
Ma Benito Mussolini
Se l’italici destini sono in gioco può ripetere così
Me ne frego non so se ben mi spiego
Me ne frego con quel che piace a me
Me ne frego non so se ben mi spiego
Me ne frego con quel che piace a me
Franchezza di marca italiana
Non vana baldanza che disprezza
Chi sa bene quel che vuole
Non può dir tante parole
Per sbrigarsi gli conviene dir così
Me ne frego non so se ben mi spiego
Me ne frego con quel che piace a me
Me ne frego non so se ben mi spiego
Me ne frego con quel che piace a me
L’Italia che chiede un posto al sole
Non vuole non può star sempre a balia
Il linguaggio suo rivela che le è uscita di tutela
E a chi si scandalizza può ripetere così
Me ne frego non so se ben mi spiego
Me ne frego con quel che piace a me
Me ne frego non so se ben mi spiego
Me ne frego con quel che piace a me
È strano c’è un ascaro che è allegro
È negro ma parla in italiano
Per provar che parla bene
Proprio come si conviene
Ripete a perdifiato tutto il dì
Me ne frego non so se ben mi spiego
Me ne frego con quel che piace a me
Me ne frego non so se ben mi spiego
Me ne frego con quel che piace a me
Faccetta Nera
Le due versioni italiane di Faccetta Nera
1. La prima versione
Se tu dall’altipiano guardi il mare,
Moretta che sei schiava fra gli schiavi,
Vedrai come in un sogno tante navi
E un tricolore sventolar per te.
Faccetta nera,
Bell’abissina
Aspetta e spera
Che già l’ora si avvicina!
Quando saremo
Insieme a te,
Noi ti daremo
Un’altra legge e un altro Re.
La legge nostra è schiavitù d’amore,
Il nostro motto è libertà e dovere,
Vendicheremo noi camicie nere,
Gli eroi caduti liberando te!
Faccetta nera,
Bell’abissina
Aspetta e spera
Che già l’ora si avvicina!
Quando saremo
Insieme a te,
Noi ti daremo
Un’altra legge e un altro Re.
Faccetta nera, piccola abissina,
Ti porteremo a Roma, liberata.
Dal sole nostro tu sarai baciata,
Sarai in Camicia Nera pure tu.
Faccetta nera,
Sarai Romana
La tua bandiera
Sarà sol quella italiana!
Noi marceremo
Insieme a te
E sfileremo avanti al Duce e avanti al Re
2. La seconda versione
Se tu dalle ambe or guardi verso il mare
moretta ch’eri schiava tra gli schiavi
vedrai come in un sogno vele e navi
e un tricolor che sventola per te.
Faccetta nera
ch’eri abissina,
aspetta e spera
– si cantò – l’ora è vicina
Or che l’Italia
veglia su te
noi ti portiamo
un’altra legge e un vero Re!
La legge nostra è libertà o piccina
e ti ha recata una parola umana
avrai la casa e il pane o morettina
e lieta potrai vivere anche te.
Faccetta nera
ch’eri abissina
aspetta e spera
– si cantò – l’ora è vicina.
Or che l’Italia
veglia su te
avrai tu pure a Imperatore
il nostro Re.
Faccetta nera il sogno s’è avverato
non sei più schiava e più non lo sarai
dal ciel d’Italia, libera, vedrai
il sol di Roma splendere su te.
Faccetta nera
ch’eri abissina
tornò l’Impero
ed or l’Italia è a te vicina.
La nostra Patria
veglia su te
e lo giuriamo
al nostro Duce e al nostro Re.
Economia coloniale
A spingere l’Italia ad intraprendere avventure coloniali furono vari motivi, di caratttere politico e di carattere economico. Tra essi spicca la perenne mancanza di lavoro in Patria. I possedimenti delle colonie vennero immaginati come una valida alternativa all’emigrazione.
Anche Giovanni Pascoli non sfugì a questa logica e nel suo testo del 26 novembre 1911, La grande proletaria si è mossa, spingeva gli italiani ad affrontare l’impresa di Libia con questo spirito:
“La grande Proletaria si è mossa. Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in Patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre Alpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar carbone, a scentar selve, a dissodare campi, a iniziare culture, a erigere edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più difficile ancora: ad aprire vie nell’inaccessibile, a costruire città dove era la selva vergine, a piantar pometi, agrumeti, vigneti dove era il deserto; e a pulire scarpe al canto della strada.
Il mondo li aveva presi a opra i lavoratori d’Italia; e più ne aveva bisogno, meno mostrava di averne, e li pagava poco e li trattava male e li stranomava. Diceva: Carcamanos! Gringos! Cincali! Degos!
Erano diventati un po’ come i negri, in America, questi connazionali di colui che la scoprì; e come i negri, ogni tanto erano messi fuori della legge e della umanità, e si linciavano. Lontani o vicini alla loro Patria, alla Patria loro nobilissima su tutte le altre, che aveva dato i più potenti conquistatori, i più sapienti civilizzatori, i più profondi pensatori, i più ispirati poeti, i più meravigliosi artisti, i più benefici indagatori, scopritori, inventori del mondo, lontani o vicini che fossero, queste opre erano costrette a mutar patria, a rinnegare lanazione, a non essere più d’Italia.
Era una vergogna e un rischio farsi sentire a dir Sì, come Dante, a dir Terra, come Colombo, a dir Avanti!, come Garibaldi. Si diceva: “Dante? Ma voi siete un popolo”.
Per ottenere il consenso di molti italiani, la conquista coloniale era presentata come necessità economica per far fronte alla piaga della disoccupazione. Vi era poi una motivazione più squisitamente culturale, che la proponeva come via di salvezza per i popoli colonizzati. L’annessione della Somalia venne ad esempio propagandata come liberazione dei somali dal lavoro forzato.
“L’abolizione della schiavitù in Africa orientale fu sempre uno dei compiti addotti a giustificazione della penetrazione italiana. In Somalia la maggior parte della popolazione, dedita all’allevamento, non conosceva la schiavitù, che era invece diffusa nelle zone agricole lungo il corso dell’Uebi Scebeli; la coltivazione della terra era infatti riservata agli schiavi e considerata inadatta ad un uomo libero. Con la conquista italiana della regione la schiavitù venne formalmente abolita, ma di fatto tollerata per non suscitare le opposizioni dei proprietari. Quando poi fu iniziata un’opera di colonizzazione di un certo rilievo, la riluttanza dei somali a prestarsi come manodopera nelle piantagioni italiane provocò un graduale ricorso al lavoro forzato, cioè ad una forma di schiavitù per certi aspetti peggiore di quella tradizionale, organizzata dalle autorità statali a favore dei privati che possedessero concessioni”.
[Rochat G. 1988, II colonialismo italiano, Torino, Loescher]
Il caso Montanelli
Chi difese sempre la memoria positiva degli italiani nelle colonie fu Indro Montanelli. Egli negò ogni eccesso di violenza e l’uso di agenti chimici in Etiopia da parte dell’esercito. Ebbe, a questo proposito, un acceso e lungo confronto con Angelo Del Boca. Alla fine dovette riconoscere la veridicità delle fonti storiche portate a conferma. In quell’occasione si giustificò dicendo: “negavo i gas semplicemente perché, sul posto, non li avevo visti né sentiti”.
[Stanza di Montanelli, 13 febbraio 1996]
Su un’altra questione Montanelli non retrocesse; vale a dire l’abitudine dei soldati italiani di contrarre matrimoni fittizi con ragazzine del luogo.
Egli stesso infatti sposò la giovane Destà, com’era usanza della popolazione locale, con un contratto pubblico, sollecitato dal responsabile del battaglione eritreo guidato da Indro.
Secondo Montanelli, l’evento non solo non era stato negativo per la ragazza, ma aveva migliorato la sua vita.
“… Dopo la fine della guerra e delle operazioni di polizia, uno dei miei tre “bulukbasci” che stava per diventare “sciumbasci” in un altro reparto (si tratta di gradi militari delle truppe indigene), mi chiese il permesso di sposare Destà. Diedi loro la mia benedizione… Nel ‘52 chiesi e ottenni di poter tornare nell’Etiopia del Negus e la prima tappa, scendendo da Asmara verso il Sud, la feci a Saganeiti, patria di Destà e del mio vecchio bulukbasci, che mi accolsero come un padre. Avevano tre figli, di cui il primo si chiamava Indro. Donde la favola, di cui non sono mai più riuscito a liberarmi, che fosse figlio mio…”
[Stanza del Corriere, 12 febbraio 2000]
Mancata giustizia
Angelo del Boca ritiene che la mancanza della memoria relativa al Colonialismo italiano dipenda anche dalla mancata giustizia italiana, che non ha mai processato i crimini perpetrati. Non c’è stata dunque una Norimberga italiana.
“A differenza di altre nazioni, dove è stata coraggiosamente affrontata una seria riflessione sul passato coloniale, l’Italia si è sottratta a questo obbligo; anzi ha favorito la rimozione delle colpe coloniali, con palesi falsificazioni, che hanno ostacolato la ricerca storica. Questo spiega perché ancora oggi, a sessant’anni dagli avvenimenti, si accendano roventi polemiche sull’utilizzo o meno dei gas in Etiopia, e non accenni a tramontare il mito degli “italiani brava gente”.
[Angelo del Boca, Il colonialismo italiano, tra miti, negazioni, rimozioni ed indempienze”, a cura di Enzo Collotti, Laterza 2000]
È dello stesso parere il giudice di Torino Antonino Repaci
“Per una più retta intelligenza dello spirito che ha animato e del clima in cui si è svolto il processo a carico dell’ex-maresciallo Rodolfo Graziani, giova richiamare brevemente quelli che sono stati i principi fondamentali della giustizia politica postfascista in Italia. Considerata nel suo complesso, la giustizia politica anzidetta non può essere raffigurata come un corpus organico di leggi e di discipline, ma invece come un caotico susseguirsi di disposizioni, intese, parte a contraddire, parte ad abrogare, parte a integrare le precedenti. È comunque mancato fin dall’ inizio un principio direttivo e coordinatore che si ispirasse a un obbiettivo preciso, ovverossia alla esigenza morale del popolo a veder reintegrato il diritto nazionale, quale appagamento di una delle più urgenti istanze poste dalla lotta di liberazione contro il fascismo. La giustizia politica, che in tal senso sarebbe dovuta essere giustizia rivoluzionaria, si presenta invece, fin dalle origini, quale un ibrido miscuglio di rivoluzionismo formale con un legalitarismo sostanziale: miscuglio nel quale fatalmente, e favorito peraltro dal corso degli eventi politici, il secondo fattore avrebbe finito — come in effetti finì — per prevalere sul primo, se non pure con l’annullarlo”.
[Antonino Repaci, Il processo Graziani, Milano, INSMLI, 1952].
La narrazione
Come si sviluppò il racconto del “buon Italiano”? Con la diffusione dei concetti attraverso dei canali popolari. Ad esempio Rodolfo Graziani, qualche anno dopo la fine della Seconda guerra mondiale, fu al centro dell’interesse di una buona parte della stampa periodica e anche dei fumetti destinati all’infanzia.
“Già nel 1949 il settimanale «Oggi» aveva pubblicato le memorie di Rodolfo Graziani, accompagnandole con una fotografia sulla prima pagina che lo ritraeva circondato da alcuni guerrieri somali durante gli anni del suo vicereame in Africa orientale. Si rammenti che Graziani, nonostante le richieste dell’Etiopia, non fu mai processato per i suoi crimini africani, e che il processo italiano per la sua collaborazione con la Germania si sarebbe concluso con una pena risibile, peraltro subito amnistiata […]. Se il cinema di produzione italiana proponeva gli stessi schemi di un colonialismo “buonista” – come nella pellicola Tripoli bel suol d’amore del 1954, che tra umorismo e tragedia rievocava la conquista della Libia con attori del calibro di Alberto Sordi e Mario Riva –, la stampa quotidiana, a cominciare dal «Corriere della sera», oltre ad articoli di fondo sulla politica estera tutti volti al mantenimento delle colonie, tra il 1949 e il 1953 pubblicò numerosi servizi sull’Africa pervasi da un filo nero razzista, scritti dai più importanti inviati di quel periodo, come Max David, Vittorio G. Rossi, Leonardo Bonzi, Maner Lualdi o Indro Montanelli. Fu proprio quest’ultimo nel biennio 1952- 1953 a pubblicare una lunga serie di articoli, dal titolo portante In Etiopia 10 anni dopo, nei quali venivano ribaditi i meriti dei colonizzatori italiani, portatori di progresso e civiltà. In questo contesto, la stampa periodica per ragazzi non poteva certo differenziarsi dal clima generale e si limitò, nel migliore dei casi, a pubblicare storie di ambientazione africana ricche di tavole e racconti, dove persistevano i classici miti dell’esotismo e dell’avventura ispirandosi alle vicende dei vari esploratori, da Bottego e Livingstone, a Gessi e Stanley; mentre nella stampa per ragazzi di area cattolica venivano proposte le gesta e gli eroismi dei missionari. Tra queste testate si distinse il «Corriere dei piccoli» che, su ispirazione del suo direttore Giovanni Mosca, pubblicò una serie di servizi dedicati alla Somalia, spiegando ai piccoli lettori il senso della missione italiana secondo i canoni della più scontata retorica dell’Italia civilizzatrice”.
[Emilio Cavalleris, Strisce di sabbia, Il colonialismo italiano nei fumetti del dopoguerra, in “Zapruder” Storie in movimento Rivista di storia della conflittualità sociale, n. 23, settembre-dicembre 2010]
“Dopo la perdita delle colonie in guerra, la rinuncia da parte della nuova Italia repubblicana ai possedimenti africani venne formalmente sancita dal Trattato di pace di Parigi del 1947, eppure la nuova classe dirigente italiana con un’ampia convergenza d’intenti che comprendeva anche i partiti di sinistra promosse un progetto alternativo e opposto per ritornare in colonia. La nuova Italia ambiva a recuperare il suo status internazionale e gli ex possedimenti furono così rivendicati in una logica di “continuità della politica estera al di là di ogni rivolgimento interno” (Rossi 1980, 581). I governi repubblicani giocarono la partita per il ritorno dell’Italia in Africa su tre livelli differenti, ma strettamente interconnessi. Sul piano internazionale, l’Italia si spese a fondo nel cercare una soluzione a lei favorevole nel rapporto con le quattro potenze vincitrici che furono chiamate in prima istanza a decidere sulla sistemazione delle ex colonie. A partire poi dal settembre 1948 quando il dossier coloniale passò all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia, forte dell’appoggio dei paesi amici dell’America Latina, rinnovò il suo tentativo di raggiungere un compromesso in primis con l’Inghilterra e conseguentemente con la Francia e gli Stati Uniti. In Africa, la nuova Italia lavorò a fondo per riannodare le relazioni con i vecchi intermediari della passata amministrazione coloniale. Furono infatti diverse le operazioni più o meno segrete che attraverso il MAI vennero ideate e finanziate nelle ex colonie con il preciso obiettivo di appoggiare gruppi, associazioni o veri e propri partiti politici che si impegnarono a sostenere il programma politico di un ritorno dell’amministrazione italiana. La BMA, che deteneva la potestà militare sulle ex colonie a seguito della guerra e in attesa di una decisione internazionale sulla loro sistemazione, inaugurò una politica di defascistizzazione e liberalizzazione della società coloniale. La conseguenza diretta fu la nascita di diverse associazioni o veri e propri partiti politici che inaugurarono una discussione pubblica sul destino delle colonie che non coinvolgeva solo gli ex colonizzatori e le potenze vincitrici, ma pur limitatamente anche gli ex colonizzati. Diventava allora indispensabile nella prospettiva italiana poter contare su una serie di referenti politici simpatetici all’idea del ritorno italiano in colonia. Furono così considerevoli i fondi concessi per lo più ai vecchi intermediari del governo coloniale, ascari e funzionari ‘indigeni’, affinché lavorassero per il ritorno di un’amministrazione italiana. In vista del passaggio del dossier coloniale alle Nazioni Unite e poi a maggior ragione durante le discussioni in Assemblea Generale, il ruolo delle diverse associazioni e partiti pro-Italia e all’opposto dei movimenti nazionalisti portò a una crescente conflittualità politica che diede luogo alla fine degli anni Quaranta a veri e propri episodi di violenza politica che in Somalia e in Eritrea ebbero come bersaglio i coloni italiani. I risultati furono almeno in parte paradossali se proprio la propaganda in favore di un ritorno dell’Italia in colonia finì per attirare sui coloni italiani la violenza degli estremisti e indusse molti italiani a emigrare verso l’ex madrepatria”.
[Antonio M. Morone, L’Italia repubblicana e coloniale,FROM THE EUROPEAN SOUTH 1(2016) 129-137 http://europeansouth.postcolonialitalia.it]
Testi di riferimento
La mancanza di una storia dei popoli e delle nazioni oggetto della conquista italiana, incapaci come tali di difendere e organizzare le loro sovranità, fu uno dei postulati su cui anche in Italia andò sviluppandosi un’idea prettamente coloniale di sé e dell’«altro».[…].
I resoconti di viaggiatori, missionari e funzionari stimolarono la fantasia degli italiani e contribuirono a determinare il modo d’essere del colonialismo italiano mettendo a disposizione degli operatori sul campo raccolte, magari improvvisate, di leggi, consuetudini e tradizioni (più raramente di nozioni linguistiche). Ironicamente, i «praticoni» ebbero più peso degli accademici […]. Nel programma del fascismo «l’attuazione di una forma di dominio diretto pieno [con la totale esautorazione dei capi locali] portava con sé anche un di-sinteresse per l’etnografia coloniale»: le opere etnografiche del passato furono
rimpiazzate da studi propagandistici e pseudo-scientifici, che davano comunque più rilievo «alle caratteristiche fisiche dei sudditi coloniali», necessarie fra l’altro a giustificare le leggi razziali (Sorgoni, 2001, p. 22). […]
Il mondo coloniale era un medioevo immaginario in cui le metropoli erano giuste e i sudditi dovevano rispettare l’ordine lealmente. […]
Nella storiografia italiana sul nostro colonialismo, soprattutto quella che ha accompagnato le conquiste, sono evidenti i pregiudizi tipici del pensiero coloniale.[…]
Prende corpo così una storia coloniale che simpatizza per il colonialismo reputandolo un passaggio benefico nella storia di Africa e Asia e dell’«incivilimento» del mondo. […]
A questa sottovalutazione del colonialismo, che in realtà fu un’epopea di grosse proporzioni e dalle conseguenze non facilmente cancellabili, si affianca la constatazione che gli imperialismi sono sempre esistiti. Tutte le grandi potenze del passato e del presente (Stati Uniti e Russia compresi) hanno fatto imperialismo; nessuna di esse è esente. […].
A garantire la storia del nostro colonialismo da rivelazioni o distorsioni sgradite, nel 1952 venne istituito con decreto interministeriale un Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa. Il Comitato era composto da alcuni africanisti di provata fede colonialista come Ciasca e Giglio, Cerulli, Giuseppe Vedovato, e molti ex governatori o alti funzionari del ministero dell’Africa italiana, ma anche da Mario Toscano, uno storico estraneo sia al colonialismo sia all’africanistica che fungeva da consulente storico del Ministero degli Esteri. Si arrivò a pubblicare 40 tomi nelle varie sezioni disciplinari, per lo più opere di «semplice compilazione» (Lenci, 2004, p. 109) e prive «di qualsiasi requisito di serietà e scientificità» (Rochat, 1978, p. 109), che hanno celebrato più che documentato, un «monumento» come voleva il suo presidente onorario Brusasca, schivando i passaggi più imbarazzanti e insistendo sulle benemerenze e l’eccezionalità del colonialismo nostrano, un requisito quest’ultimo che ha accomunato, ciascuna per i propri fini, l’accademia e la politica. La serie storica produsse da sola 14 volumi (con una precedenza ai primissimi anni della presenza italiana in Africa) più altri 8 volumi nella serie storico-militare. I documenti d’archivio restarono per anni requisiti ostacolando la ricerca degli studiosi italiani e stranieri. È così che «troppo a lungo la Repubblica italiana non è riuscita a esprimere un’interpretazione propria del passato coloniale, anche a livello storiografico» (Labanca, 2009, p. 77). Per Uoldelul Chelati Dirar, un italoeritreo che ha insegnato sia in Eritrea che in Italia, è singolare e sconcertante constatare come una concezione basata su «assunti totalmente acritici, il cui fondamento è riconducibile all’ideologia imperiale fascista, non solo [abbia] resistito alla fine del fascismo, ma [sia] tuttora la chiave di lettura dominante del colonialismo italiano, se si eccettua il ristretto ambiente degli storici» (Uoldelul Chelati Dirar, 1996, p. 36). L’indagine del colonialismo italiano, soprattutto nella sua ultima fase, fu viziata dalla difficoltà di affrontare lo stesso fascismo in termini scientifici e non ideologici pro o contro […].
Dopo il colonialismo, la storia dell’Africa incorpora a tutti gli effetti il colonialismo con il suo bagaglio di verità e di finzioni, con le dislocazioni nell’economia e nelle istituzioni[…].
Passò un bel po’ di tempo tuttavia prima che si ritenesse normale, o addi-rittura obbligato, ammettere nei simposi organizzati in Italia sul colonialismo, storici provenienti dalle ex colonie […].
Da questo punto di vista un progresso netto è stato il convegno organizzato dall’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia (INSMLI) a Milano nel 2006, settantesimo anniversario della proclamazione dell’impero (Bottoni, 2008). Il convegno risentiva di un’impostazione diplomatico-militare, se non altro per la specializzazione disciplinare di alcuni dei più qualificati membri del comitato scientifico (Del Boca, Rochat e Labanca), che affiancò Riccardo Bottoni nella preparazione, ma aprì decisamente a contributi innovativi e diede il giusto spazio ad alcuni esponenti della storiografia africana, in particolare a due professori dell’Università di Addis Abeba.
La moltiplicazione di cultori degli studi culturali e postcoloniali con aperture di credito per temi come la scienza, la tecnologia, la medicina, il genere e la produzione letteraria ha sicuramente arricchito la storiografia sull’imperialismo e sullo stesso colonialismo italiano recuperando voci tacitate e storie emarginate. Il percorso della narrazione si inverte e si decentralizza. La storiografia non riguarda più solo da una parte la conquista e dall’altra il compimento dell’indipendenza dei popoli subalterni, ma la catena discontinua di lotte dall’occupazione al riscatto di cui si sono perdute le tracce e la stessa paternità. […]
Trasformando il colonialismo in una metafora, si dà surrettiziamente nuovo valore a un approccio eurocentrico che tutti davano ampiamente per obsoleto. I testi che si occupano della questione sessista parlano più dei coloni o degli italiani in generale che subiscono il fascino del colonialismo che non dei coloniali: il maschio bianco si redime dalla mediocrità o dalla crisi con la guerra per le colonie, la bella morte o la bella vita; la posta della conquista è costituita dall’Africa, ma anche da una terra vuota e soprattutto dalla donna «indigena», l’una e l’altra anelanti un «padrone». Con un salto logico, l’esotismo, l’avventura personale, diventa un tutt’uno con la volontà del blocco al potere di espandere un’economia e una politica. […]
Nelle colonie italiane le trasformazioni economiche e sociali si intensificarono con il fascismo, che era depositario di una robusta ideologia coloniale o addirittura imperiale, che accelerò i tempi della colonizzazione delle terre in Africa e che per la prima volta mobilitò attivamente nelle operazioni oltremare le forze produttive.
Una frattura si è prodotta negli anni novanta del Novecento quando a essere minata dalle fondamenta è stata la storia consolidata del fascismo e della Seconda guerra mondiale, svilita via via come una vulgata di parte. Se non altro, tuttavia, il colonialismo italiano è stato oggetto di più attenzione: un «ritorno di colonia» non solo per anniversari ineludibili, come Adua, o per le peripezie della stele di Axum, ma per la fortunosa riabilitazione di certi universi simbolici e mitologici […].
La memoria del colonialismo in Italia rimane divisa. Si può misurare qui la responsabilità che spetta alla storia. Il suo scopo è di accertare cosa è accaduto in passato, ma anche di stabilire come il passato operi nel presente. Nell’intreccio spesso perverso fra politica e storia – la politica sta competendo con la storia nel compito di trasmettere la memoria, come dimostrano le leggi memoriali che tante discussioni hanno sollevato soprattutto in Francia (Brondino, 2007; Palma 2007) – una memoria comune fra ex metropoli ed ex colonie può rivelarsi un bene insostituibile, soprattutto se include la memoria della sofferenza, chiunque l’abbia subita, che quella storia ha comportato.
[Gian Paolo Calchi Novati, Gli italiani e l’Africa tra colonialismi e migrazioni; Id, Alla ricerca di una storia. Il colonialismo italiano e l’Africa
https://www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=2ahUKEwik9Napv5zfAhUNNOwKHS1MBk8QFjAAegQICRAC&url=http%3A%2F%2Fwww.altreitalie.org%2Fkdocs%2F813172%2Fcalchinovati.pdf&usg=AOvVaw1MchQjUyScr5BLLFqOAbqh]
Bibliografia
- Calchi Novati, G. P., 1994, Il corno d’Africa, Torino, Sei
- De Felice R., 1974, Mussolini il Duce. Gli anni del consenso, 1929-1936, Torino, Einaudi
- Del Boca A., 1992, L’Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte. Bari, Laterza.
- Del Boca A., 1999, Gli italiani in Africa orientale, Milano,Mondadori
- Del Boca A., 2005, Italiani brava gente, Vicenza, Neri Pozza
- Foccardi F., 2014, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, Bari, Laterza
- Guerriero A., 2005, Ascari d’Eritrea. Volontari eritrei nelle forze armate italiane, 1899-1941, Firenze, Vallecchi.
- Labanca N., 2002, Oltremare, storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino
- Labanca N., 2009, Perché ritorna la brava gente. Revisioni recenti sulla storia dell’espansione coloniale italiana, in Del Boca, A. (a cura di), La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, Vicenza, Neri Pozza.
- Morone, A.M., 2010, I custodi della memoria, in Zapruder, 23, pp. 25-38.
- Nani, M., 2004, , Il lutto, la nazione, la storia, in Novecento, 10, pp.165-75.
- Palma, S., 2000, L’Italia coloniale, Roma, Editori Riuniti.
- Rochat G., 1973, Il colonialismo italiano, Loescher
Filmografia
a. Adwa , di Haile Gerima – https://www.imdb.com/title/tt0209898
b. Il leone del deserto di Moustapha Akkad
www.formacinema.it/index.php?option=com…view…il-leone-torna-a-ruggire…
https://youtu.be/ITJ9-tGNB_U