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Le memorie del Vajont

Le memorie del Vajont

La diga del Vajont nel 1963, pochi giorni prima del disastro.
Di VENET01Opera propria, CC BY-SA 4.0, Collegamento

Abstract

Proposta didattica con le fonti per far lavorare e riflettere studenti e studentesse sul disastro del Vajont (9 ottobre 1963). Per il tema trattato, la traccia è particolarmente indicata per essere inserita nelle attività funzionali a rispondere alle esigenze dell’asse riguardante ambiente e sostenibilità della legge sull’insegnamento dell’educazione civica. La proposta didattica è stata non a caso inclusa tra i Workshop della Summer school 2021 dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, intitolata “Sviluppo sostenibile, ambiente e patrimonio nell’Educazione civica. La centralità della Storia”.

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Teaching proposal with sources to make students work and reflect on the Vajont disaster (9 October 1963). Due to the subject matter, the outline is particularly suitable for inclusion in the functional activities to meet the requirements of the axis on the environment and sustainability of the Civic Education Teaching Act. The teaching proposal was not by chance included among the Workshops of the 2021 Summer school of the Ferruccio Parri National Institute, entitled ‘Sustainable development, environment and heritage in Civic Education. The centrality of History’.

Premessa

Il 24 gennaio 2019 la Regione Veneto approvava la legge regionale n. 5 Istituzione della “Giornata in ricordo della tragedia del Vajont” e del riconoscimento “Memoria Vajont”. Pochi mesi più tardi, con la legge n. 10 dell’8 luglio, analoga iniziativa era presa anche dal Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia.[1] I due testi, molto simili nell’impianto (le divergenze più vistose sono relative agli stanziamenti economici), introducevano nei calendari civili regionali una nuova celebrazione che, a distanza di 56 anni dal disastro, rimarcava l’alto valore non solo storico ma anche culturale e sociale di uno degli eventi più tragici della storia repubblicana, e ciò non solo per le comunità colpite, ma per tutti i cittadini delle due regioni.[2]

Se indubbiamente queste leggi andavano a lenire la sofferenza e a dar voce e visibilità a quanti sopravvissero al disastro riportando alla ribalta una vicenda ancor oggi sconosciuta a molti, vale la pena sottolineare come esse parlino di “memoria del Vajont”, sottintendendo di fatto la presenza di una ricostruzione e di una rappresentazione univoca della tragedia. Nulla di più lontano dalla realtà. Ai tempi della tragedia le voci che contribuirono a costruire una memoria pubblica dei fatti furono assai diverse e spesso contrastanti e del resto ancor oggi, nell’area Longaronese, la sua trasmissione è in capo a tre soggetti (la fondazione Vajont-9 ottobre 1963,[3] il Comitato sopravvissuti del Vajont[4] e l’associazione Vajont-Il futuro della Memoria)[5] a testimoniare quanto, a distanza di quasi sessant’anni, alcuni aspetti della vicenda siano ancora divisivi.

La storia del Vajont

Troppo lungo sarebbe riproporre qui i fatti del Vajont, ci si limita dunque ad indicare alcuni passaggi chiave utili al loro inquadramento.[6] La vicenda dell’utilizzo delle acque del Vajont, torrente che scorre nell’omonima valle friulana per confluire nel Piave all’altezza del paese di Longarone, iniziò nel 1900 quando il longaronese Gustavo Protti presentò domanda per sfruttarne le acque attraverso la costruzione di una diga di 7m nel territorio di Erto e Casso, allora in provincia di Udine, al fine di produrre energia per la sua cartiera. Caduta questa ipotesi, nel 1929 l’ing. Carlo Semenza (che negli anni a venire firmerà tutti i successivi progetti) presentò a nome della Siv (Società Idroelettrica Veneta), filiazione della Sade (Società adriatica di elettricità), un nuovo piano per la realizzazione di una diga di 130m di altezza e un invaso di 33.000.000 m3 d’acqua. Senza che si arrivasse ad una conclusione della vicenda, nel 1934 la Siv fu incorporata nella Sade che nel 1937 presentò un nuovo più ambizioso progetto che prevedeva la costruzione di una diga di 190m di altezza e un bacino di 46.000.000 m3.

Va detto che la Sade era nel Triveneto un vero colosso nel campo dell’idroelettrico, destinato in quegli anni e nei decenni successivi a realizzare in provincia di Belluno numerose dighe e bacini artificiali. Nel 1940, ad esempio furono presentati due progetti per l’utilizzazione del Boite (Valle di Cadore) e del Piave (Pieve di Cadore), primo passo verso un nuovo piano complessivo che, unificando questo due sistemi a quelli del Vajont e di Pontesei (Valle di Zoldo), avrebbe dato origine a quello che sarebbe stato ribattezzato “grande Vajont”, in cui l’omonimo bacino sarebbe stato, attraverso un sistema di condotte scavate in roccia o a sfioro, il punto nodale ove far confluire tutte le acque già sfruttate dagli altri serbatoi. La forza della Sade era tale che addirittura tra luglio e settembre del 1943, nel momento più tragico vissuto dall’Italia nel corso del secondo conflitto mondiale, la Direzione generale delle acque del Ministero dei lavori pubblici espresse parere favorevole al progetto, tale era la sete di energia anche in un’epoca in cui il nostro Paese non poteva certamente definirsi industrializzato.

I lavori a Pieve di Cadore iniziarono nel 1947 senza che – e sarà una costante nel modus operandi della società – fossero neppure state rilasciate le necessarie autorizzazioni. Nel frattempo, nel 1948, veniva presentato un nuovo progetto esecutivo per l’impianto del Vajont, ove si pensava ora ad una diga di 202m di altezza con un invaso di 71.000.000 m3.

Bisogna attendere il 1952 per il decreto presidenziale che concedeva definitivamente la realizzazione delle dighe di Pieve di Cadore (di fatto già ultimata due anni prima) e di Valle di Cadore (lavori conclusi nel 1951). Per quel che riguardava il Vajont, invece, il 31 gennaio 1957 fu presentato un nuovo progetto, questa volta definitivo, di una diga di 263,50m. Senza alcuna autorizzazione (che sarebbe arrivata con decreto interministeriale solo nel 1959) furono subito iniziati gli espropri dei terreni e i lavori di costruzione della diga: il “grande Vajont” era nato. Nel frattempo, la Sade chiese al geologo austriaco L. Müller una consulenza sullo stato del monte Toc, su cui poggiava una spalla della diga e in cui si stavano verificando piccoli fenomeni franosi. Lo studioso rilevò sotto il Toc una situazione di sfascio che di fatto sconsigliava di procedere con i lavori per evitare eventi catastrofici. La Sade tuttavia decise di non rendere pubblici gli esiti della consulenza e si limitò a proibire l’utilizzo di sentieri sotto il paese di Erto, collocato sull’altro versante della valle, e sulle pendici del Toc.

Tutto ciò non lasciò indifferente la popolazione della valle. Se infatti il 1° aprile 1958 il ministro Togni nominava una commissione di collaudo (ma va notato che uno dei membri era anche consulente della Sade!), l’anno successivo nasceva il Consorzio per la difesa e la rinascita della Val Ertana che si poneva l’obiettivo di contrastare i piani della Sade: tra la popolazione infatti serpeggiava sempre più la preoccupazione per le conseguenze che tale impresa avrebbe potuto avere. Certo nessun abitante aveva competenze e dati per contrastare sul piano scientifico la Sade, tuttavia le tensioni erano molto alte e per diverse ragioni: espropri forzosi dei terreni, impossibilità di raggiungere i pascoli sfruttati fino a pochi anni prima, ansia per eventi franosi non solo locali. Ma quelle comunità restarono sostanzialmente inascoltate. Unica penna capace di dar loro voce fu quella di Tina Merlin. A quel periodo risale infatti la pubblicazione nelle pagine de L’Unità, organo del Pci, del suo articolo «La Sade spadroneggia ma i montanari si difendono» che portò la questione alla ribalta nazionale ma allo stesso tempo costò alla giornalista bellunese una denuncia, perché le sue parole avrebbero turbato l’ordine pubblico: la sentenza assolutoria arrivò nel novembre del 1960.

Nel frattempo, però erano avvenuti alcuni fatti che avrebbero acuito le tensioni e le preoccupazioni. Il 22 marzo 1959, ad esempio, in Val Zoldana, nel bacino di Pontesei (inglobato nel sistema complessivo del “grande Vajont”) precipitava una frana di 3.000.000m3 causando anche una vittima. Ciò evidentemente non poteva che accrescere l’ansia degli abitanti della valle del Vajont, dove intanto nell’ottobre 1959 arrivavano la seconda visita della commissione ministeriale e la concessione di nuovi finanziamenti statali. Nel frattempo la costruzione della diga arrivava alla conclusione: erano bastati due anni perché lo sbarramento artificiale a doppia curvatura più grande del mondo fosse realtà. E immediatamente la Sade chiese l’autorizzazione a procedere ad un primo parziale invaso (erano previste tre prove). Del resto, per non perdere i contributi pubblici, era necessario concludere il collaudo entro il 1960 e poiché consenso tardava, come di consueto si procedette in sua assenza. Ma l’evento più preoccupante in quel periodo accadde senz’altro il 4 novembre 1960: verso le 12.30, su un fronte di circa 300 m, una grande frana si staccò dal monte Toc precipitando nel lago sottostante. Non ci furono vittime ma alcune abitazioni sul versante del monte furono lesionate. Prudenzialmente la Sade fece evacuare la zona, ma chiaramente questo destò paure sempre maggiori tra gli abitanti.

Gli eventi spinsero la Commissione ministeriale ad una terza visita (28 novembre 1960), in seguito alla quale il geologo dello Stato, Francesco Penta, sostenne che non vi erano sufficienti elementi per accreditare le teorie più catastrofiche di Müller. Piuttosto la Sade, incurante dei pericoli incombenti, decise di costruire una galleria di sorpasso che avrebbe dovuto fungere da by-pass nel caso in cui una frana più consistente, precipitando a valle, avesse diviso il lago in due parti. In sostanza, il problema, non era la presenza e la sicurezza delle persone, ma il salvataggio dell’opera.

Dicembre 1962: la nazionalizzazione dell’industria elettrica, di cui si parla ormai da diversi mesi, diviene realtà e con essa la costituzione dell’Enel, che dovrà rilevare tutti gli impianti italiani. A questo punto per la Sade si tratta di terminare i collaudi sul Vajont, testando il bacino alla massima capienza per vendere il manufatto al miglior prezzo possibile. Il 14 marzo 1963 lo Stato rileva l’impianto, benché la sua gestione sia demandata ai dipendenti della Sade medesima. Intanto, però, la montagna continua a cedere, con progressivi piccoli assestamenti e slittamenti verso fondo valle, ovvero verso il lago. La cosa si fa sempre più preoccupante in particolare da settembre (ad esempio, il 15 si registra uno slittamento di 22cm nella zona della frana del 1960): è chiara ormai la pericolosità dell’impianto e la direzione della diga punta disperatamente a svasare il bacino per raggiungere la quota ritenuta di sicurezza (700m slm). Ormai è però troppo tardi: l’abbassamento del livello del lago, infatti, non fa che accelerare il cedimento del terreno che ai propri piedi non trova neanche il pur limitato sostegno dell’acqua.

La sera del 9 ottobre 1963, alle 22,39, una massa franosa di 260 milioni di metri cubi precipita nel lago artificiale. In pochi minuti, un’ondata gigantesca, dopo aver causato vittime e danni ingenti negli abitati della valle del Vajont, raggiunge Longarone spazzandola via e provocando centinaia di morti cui si assommano quelle delle frazioni di Rivalta, Pirago, Villanova, Faè e Codissago: come detto, saranno registrati circa 1450 decessi nell’area del comune.[7]

Nei giorni immediatamente successivi, mentre si cercava di portare aiuto ai superstiti, le autorità giudiziarie cominciarono la raccolta di documenti e testimonianze che avrebbero potuto chiarire fatti ed eventuali responsabilità. Il lavoro fu assai arduo e si concluse solo il 28 febbraio 1968 con la sentenza istruttoria del giudice Mario Fabbri che rinviava a giudizio esponenti della Sade, dell’Enel e funzionari dello Stato. Il processo fu però incardinato a L’Aquila, ove era stato trasferito per motivi di legittima suspicione e ordine pubblico. Iniziato il 25 novembre 1968, si concluse il 17 dicembre dell’anno successivo con la condanna a sei anni dei tre principali imputati (Alberigo Biadene, direttore del Servizio costruzioni idrauliche della Sade, Curzio Batini, presidente della IV Sezione del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, Almo Violin, ingegnere capo del Genio civile di Belluno). Mario Pancini, direttore dei lavori della diga, si era suicidato alla vigilia dell’inizio del processo. Gli altri imputati furono invece assolti. Nella sentenza i giudici esclusero la prevedibilità dell’evento, ciò che destò molte recriminazioni e l’impugnazione della sentenza. L’appello si chiuse a L’Aquila il 20 luglio 1970 con la condanna di Biadene a sei anni (3 condonati) e Francesco Sensidoni (capo Servizio Dighe e membro Commissione di collaudo) a quattro anni e sei mesi, e l’assoluzione degli altri imputati; fu però riconosciuta la responsabilità per reati di frana e inondazione e omicidi colposi e la prevedibilità dell’evento. La sentenza della Cassazione, che confermava le condanne (con leggero alleggerimento) e l’impianto della sentenza d’appello, giunse il 25 marzo 1971: mancavano 14 giorni alla prescrizione.

Il quello stesso anno presero avvio i processi civili per i risarcimenti che si protrassero per quasi trent’anni. Solo nel 2000 la vicenda poté dirsi definitivamente conclusa, con la transazione di 900 miliardi di lire pagati in parti eguali dai corresponsabili: Stato italiano e eredi della Sade, ovvero Enel e Montedison.

 

Il laboratorio

L’attività didatticha che qui si propone, già presentata all’interno della Summer School Sviluppo sostenibile, ambiente e patrimonio nell’Educazione civica. La centralità della Storia organizzata dall’Istituto Parri nel 2021, intende avvicinare gli studenti alla complessità della storia, invitandoli a tentare la ricostruzione dei fatti del Vajont (e del post-Vajont) e della trasmissione del ricordo, attraverso fonti diverse, spesso antagoniste, sicuramente parziali.

Naturalmente, volendo parlare delle memorie del Vajont si potrebbero chiamare in causa un’infinità di voci: dalla stampa ai sopravvissuti e testimoni, dalle istituzioni (sindaci, Regione, Stato, Onu, ecc.) alla magistratura; per non parlare del mondo della cultura: dai documentari di Luigi Di Gianni La tragedia del Vajont e Vajont (Natale 1963), entrambi del 1963, all’orazione civile di Marco Paolini Il racconto del Vajont (1993), dalla poesia di Roberto Roversi Iconografia ufficiale (1965) al film di Renzo Martinelli Vajont (2001) molte sono le voci che nel tempo hanno affrontato la vicenda da prospettive e con modalità differenti, ognuna aggiungendo qualcosa, ognuna qualcosa trascurando. L’attività pensata per gli studenti, non potendo tener conto di tutte le tipologie di fonti, si è concentrata su articoli di stampa, racconti di sopravvissuti e testimoni, discorsi commemorativi dei sindaci, requisitoria del Pubblico ministero nel processo istruttorio, leggi e dichiarazioni di istituzioni. Naturalmente, essendo impossibile prendere in considerazione le voci di tutte le comunità coinvolte, si è preferito concentrare l’attenzione sull’area di Longarone, che fu peraltro quella maggiormente colpita in termini di vittime, contando circa 1450 morti sui 1910 accertate dalla magistratura.[8]

L’attività didattica prevede una fase introduttiva curata dal docente che presenta da una parte i fatti e il contesto storico in cui avvenne il disastro e dall’altra i dossier di documenti (1 ora). Successivamente gli studenti, divisi in gruppi (quattro o cinque a seconda del livello della classe e del tempo a disposizione per lo svolgimento del laboratorio), affronteranno il tema della costruzione della memoria del Vajont attraverso documenti riferiti ai seguenti ambiti: la stampa nell’immediatezza degli eventi, la voce dei superstiti e dei testimoni a distanza di trent’anni, il ruolo delle istituzioni, ossia i sindaci, la magistratura, i Consigli regionali, l’Onu. Si tratta della parte centrale dell’attività che potrà essere svolta interamente in classe o, diversamente, consegnati i documenti ai diversi gruppi, chiedendo agli studenti di leggerli preventivamente a casa per poi discuterne in classe all’interno del gruppo. Ogni documento è corredato da una serie di esercizi che hanno lo scopo di accompagnare gli studenti verso la comprensione. Tuttavia, qualora all’interno dei gruppi ogni ragazzo sia autorizzato ad occuparsi di un singolo documento, sarà necessario prevedere un tempo congruo perché ciascun membro lo possa presentare e discutere con i propri compagni (2 ore). Alla conclusione di questa fase, ogni gruppo presenterà ai compagni di classe i documenti studiati e gli elementi che ne emergono (1 ora). Il confronto consentirà di cogliere come, nel tempo, le voci in campo abbiano affrontato i fatti del Vajont da punti di vista assai differenti, determinati da effettiva presenza ai fatti, pregiudizi più o meno radicati, lontananza anche cronologica dagli eventi, ecc. In sostanza, per tornare al titolo del laboratorio, si arriverà a comprendere come non esista una sola memoria e condivisa del Vajont, ma molte memorie a volte tra loro fortemente divergenti.

Per quel che attiene gli esercizi proposti, detto che sono suscettibili di modifiche, integrazioni e aggiustamenti in base alle esigenze dell’insegnante e della sua programmazione didattica, essi vogliono fungere da stimolo per una più profonda comprensione dei documenti e del punto di vista espresso da ciascun soggetto. Alcuni chiedono agli studenti di reperire informazioni nei libri di testo e in rete. Ciò ovviamente comporta un maggiore dispendio di tempo, ragion per cui, desiderando comprimere la durata del laboratorio senza rinunciare a parte degli esercizi, sarà opportuno che il docente predisponga una semplice guida in cui vengano presentati sommariamente giornali, nomi, luoghi citati dalle fonti. In coda al dossier di documenti se ne propone un esempio.

 

Il dossier dei documenti. La stampa

Il primo nucleo del documenti è costituito da articoli di stampa. Nei giorni immediatamente successivi alla tragedia i giornali dedicano spesso diverse pagine ai fatti del Vajont. Naturalmente, anche tenendo conto dei propri lettori e delle loro aspettative, ogni testata affronta la questione da un proprio punto di vista, contribuendo così a costruire una memoria collettiva tutt’altro che omogenea. La prima questione naturalmente è legata alla definizione di ciò che era accaduto. Scrive in proposito Maurizio Reberschak:

Si usava indifferentemente per il Vajont la medesima nomenclatura delle calamità della natura e delle rovine dell’ambiente, adoperata per le ricorrenti emergenze divenute ormai pressoché abituali nel territorio italiano: disastro, catastrofe, tragedia, sinistro, calamità, sciagura, disgrazia, incidente, fatalità, frana, alluvione, inondazione, cataclisma, distruzione… Tutti stereotipi collaudati, di sicura efficacia. Ma i termini identificativi corretti per il Vajont erano allora – e rimangono tuttora – senza alcun dubbio i primi due: disastro sotto il profilo giuridico, catastrofe sotto l’aspetto epistemologico, ad indicare rispettivamente i meccanismi dei procedimenti tecnici e decisionali e le soglie degli equilibri naturali forzati dalla violenza dell’uomo.[9]

Ai vocaboli ricordati da Reberschak possiamo poi aggiungere il termine genocidio utilizzato da Tina Merlin in un suo articolo, incluso nel dossier dei documenti. Una tale varietà di definizioni rispecchia le notevoli differenze d’approccio rispetto all’accaduto e i cinque articoli proposti consentono di metterne in luce alcune.

Il primo, pubblicato dal Corriere della Sera l’11 ottobre, porta la firma del giornalista e scrittore bellunese Dino Buzzati. Già dal titolo del pezzo, «Natura crudele», si può evincere la posizione del suo autore, che nelle sue righe dimostra ancora una volta la sua straordinaria vena di scrittore. Il testo è infatti un racconto appassionato e dolente che tratteggia le ultime ore dei paesi poi devastati dall’onda del Vajont. Si tratta di un mondo da lui ben conosciuto, ma che nel suo articolo riesce solo ad immaginare non essendo presente sui luoghi al momento del disastro. Del resto, lo stesso tenore dell’articolo mostra una scarsa conoscenza della vicenda, e l’autore indica nella natura incontrollabile la causa del disastro:

Un sasso è caduto in bicchiere colmo d’acqua è l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere, quindi non si può (…) dare della bestia a chi l’ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d’arte, testimoniava della tenacia, del talento e del coraggio umani. La diga del Vajont era ed è un capolavoro persino dal lato estetico. (…)
Intatto, di fronte ai morti del Bellunese, sta ancora il prestigio della scienza, della ingegneria, della tecnica, del lavoro. Ma esso non è bastato. Ancora una volta la fantasia della natura è stata più grande ed astuta che la fantasia della scienza.[10]

Sappiamo dalle risultanze dei successivi processi e dalla posteriore ricerca storica che la prospettiva di Buzzati era decisamente sbagliata, ma in quel frangente il suo articolo, pubblicato per giunta sul quotidiano allora più diffuso in Italia, contribuì a creare nell’opinione pubblica un’idea distorta dei fatti. Per lui, dunque è la natura, crudele matrigna, che irrompendo tra gli uomini ne scompagina e travolge le vite.

Il secondo articolo del dossier fu scritto da Mario Alicata e apparve il 13 ottobre su L’Unità, quotidiano del Pci. Lo stesso titolo, «Rischio calcolato», lascia intendere un orientamento affatto diverso dal precedente. Alicata, al tempo direttore del giornale, parte citando un articolo di Tina Merlin del febbraio 1961 per dimostrare fin dalle prime righe al lettore quanto la tragedia fosse prevedibile e, forse, evitabile. Come è e facile intuire, il suo j’accuse si rivolge innanzitutto contro il sistema capitalistico italiano, reo di aver posto gli interessi economici davanti alle questioni di sicurezza. Ecco allora la richiesta di una indagine seria da parte dello Stato:

Stanno dinanzi alla coscienza degli italiani oltre duemila morti. (…) Di questi morti cerchiamo di rispondere una volta sola almeno in modo più serio e severo di quanto non abbiamo risposto di altri morti. Per una volta sola almeno (…) colpiamo dove bisogna colpire, colpiamo chi bisogna colpire.[11]

Una posizione analoga ritroviamo nelle righe di cui è autrice Tina Merlin. L’11 ottobre, sempre dalle colonne de L’Unità, la giornalista bellunese, da anni impegnata nel sostenere la lotta degli abitanti della valle del Vajont sempre più preoccupati ed esasperati dalla costruzione della diga, ricorda il processo subito per aver dato loro voce e parla, con termine assai radicale, di genocidio:

È stato un genocidio. Lo gridano i pochi sopravvissuti, resi folli dal terrore della valanga d’acqua e dalla disperazione di trovarsi soli e impotenti a superare una realtà tragica, fatta oramai di nulla, o meglio fatta di sassi e melma amalgamati dal sangue dei loro cari. (…)
Genocidio quindi, da gridare ad alta voce a tutti, affinché il grido scuota le coscienze del popolo e il popolo (…) spazzi via alfine con un’ondata di collera e di sdegno chi gioca impunemente, a sangue freddo, con la vita di migliaia di creature umane, allo scopo di accrescere i propri profitti e il proprio potere.[12]

Perché genocidio? Non risulta che Merlin abbia mai spiegato chiaramente la ragione dell’uso di tale vocabolo, quindi ci si muove sul piano delle ipotesi. Il termine, come noto, compare a partire dal 1944 a indicare i crimini nazisti contro gli ebrei;[13] nel nostro caso, forse, l’autrice intendeva semplicemente impiegare il vocabolo più duro e violento che si potesse immaginare, ma è possibile che ella leggesse in questa vicenda lo scontro tra due mondi alternativi. Siamo, tra la fine degli Anni ’50 e i primi Anni ’60, in un momento di passaggio eccezionale per il nostro Paese: l’Italia sta rapidamente cambiando pelle trasformandosi da Paese essenzialmente agricolo a realtà industriale. Nell’uso della parola “genocidio” sembra di poter vedere dunque lo scontro violento tra l’Italia agricola e un mondo che avanza e pur di imporsi è pronto ad annientare tutto ciò che di vecchio e superato incontra sulla sua strada. Nelle sue righe, poi, l’autrice ricorda il processo subito due anni prima assieme al suo giornale, rivendicando il proprio ruolo ma anche del suo giornale e della sua parte politica, quali unici baluardi contro i potentati economici.

Di tutt’altro tenore l’articolo di un altro importante giornalista italiano, Giorgio Bocca, che nel Bellunese fu a ridosso della tragedia. In un articolo dell’11 ottobre pubblicato sulle pagine de Il Giorno, egli pare molto più vicino al punto di vista di Dino Buzzati. Nelle sue parole, e fin dal titolo, si legge un profondo sconforto, dettato dalla consapevolezza della forza inarrestabile e distruttiva della natura. Anch’egli dunque parte dal presupposto che il disastro non fosse il frutto dell’avidità dell’uomo:

Ecco la valle della sciagura: fango, silenzio, solitudine. E capire subito che tutto ciò è definitivo: più niente da fare o da dire. Cinque paesi, migliaia di persone: ieri c’erano, oggi sono terra, e nessuno ne ha colpa, nessuno poteva prevedere, nessuno può riparare.
In tempi atomici, si potrebbe dire che questa è una sciagura “pulita”, gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è buona, non è cattiva, ma indifferente.[14]

L’ultimo articolo del dossier fu scritto da un’altra firma illustre del giornalismo italiano: Indro Montanelli. Pubblicato il 10 novembre su La Domenica del Corriere, lo scritto, dal significativo titolo «Impresa facile lo sfruttamento del dolore»,[15] appare inizialmente una semplice autodifesa contro l’accusa mossa dal Pci di essersi appiattito sulle posizioni del mondo capitalistico, ma in realtà si rivela un duro attacco contro il maggior partito della sinistra italiana. Nota è del resto la posizione visceralmente anticomunista del giornalista che in questo articolo da una parte nega le responsabilità della Sade (sostenendo che mai avrebbe iniziato un’impresa tanto rischiosa sul piano economico, ma trascurando l’interesse fortissimo della società per il completamento della diga in vista di una sua cessione allo Stato) e dall’altra chiama in causa unicamente le eventuali responsabilità dello Stato, reo di non aver controllato le fasi della costruzione (e ciò risponde al vero, tuttavia Montanelli sottovaluta il peso “politico” della Sade). Ma il vero bersaglio delle sue righe sono il Pci e i suoi giornalisti colpevoli a suo dire di sfruttare il dolore per bieche ragioni politiche.

I cinque articoli, in sostanza, contribuiscono a costruire diverse memorie dei fatti. Chi, al tempo dei fatti, non avesse letto gli articoli de L’Unità, ma si fosse affidato alle parole di Buzzati, Montanelli o Bocca, firme di primo piano del giornalismo italiano, si sarebbe radicato nella convinzione di una tragedia imprevedibile. Solo i lettori più accorti e interessati, seguendo la vicenda processuale, avrebbero potuto ricredersi arrivando a comprendere la reale natura della vicenda. Ma certo lo spazio che i quotidiani avrebbero riservato a questa storia non sarebbero più stati tanto ampi da catturare l’attenzione totale dei lettori. Infine, i cinque articoli dovrebbero spingere gli studenti ad interrogarsi sul ruolo delicato della stampa e in generale dell’informazione nel dare notizie corrette e verificate, tema quanto mai attuale in quest’epoca di proliferazione delle cosiddette fake news.

 

Il dossier dei documenti. Le parole dei sopravvissuti e dei testimoni

Una seconda parte del materiale concerne i racconti dei sopravvissuti e del testimoni di Longarone. A ridosso degli eventi drammatici del 9 ottobre 1963 sul luogo del disastro giunsero molti giornalisti che ebbero modo di raccogliere storie e testimonianze, ma dopo questa prima fase, tendenzialmente, la comunità dei sopravvissuti si richiuse in se stessa. Ciò era dovuto alla convinzione che “gli altri”, guardando al dramma dall’esterno non avrebbero potuto comprenderlo veramente. Ed in effetti, passato il primo periodo in cui la vicenda del Vajont fu sulle prime pagine dei giornali, la vicenda finì sullo sfondo, da molti dimenticata. Le cose cominciarono a cambiare solo alcuni decenni più tardi, in particolare agli inizi degli Anni ’90 per l’effetto congiunto della ricerca storica e dell’azione di alcuni uomini dello spettacolo. Già il volume Il grande Vajont curato da Maurizio Reberschak, nel 1983 aveva portato alla ribalta la vicenda del disastro,[16] tuttavia fu solo nel 1992 che, per la cura di Ferruccio Vendramini, venne pubblicato il volume Superstiti e testimoni raccontano il Vajont,[17] primo tentativo di ricostruire la vicenda attraverso le parole di sopravvissuti e testimoni: ciò aprì una nuova stagione in cui altre voci si unirono per raccontare la propria esperienza. Il nuovo corso poi fu facilitato dalla messa in scena dello spettacolo di Marco Paolini Il racconto del Vajont[18] (1993) che, soprattutto dopo il passaggio televisivo del 1997, riportò la vicenda al centro dell’interesse nazionale.

Il dossier raccoglie alcune testimonianze tratte dal volume del 1992, cercando di mettere in luce da una parte i ricordi dei sopravvissuti e dei testimoni a ridosso della tragedia e fino agli inizi degli Anni ’70 e dall’altra il valore della trasmissione della memoria. Per quanto attiene il primo aspetto, si sono scelti brani di cinque testimonianze che evidenziano le difficoltà affrontate dalla comunità dei sopravvissuti nel tentativo di riprendere una vita normale. La lettura dei brani mette in evidenza come, se pure non mancarono casi di reciproco aiuto (testimonianza di Franco Tovanella), in alcuni casi i longaronesi furono poco uniti, ad esempio attorno al tema della ricostruzione del paese (Luigi Dall’Armi). Nel contempo don Pietro Bez vedeva nel parroco e nella parrocchia il punto di riferimento per la comunità, laddove invece per Mario De Marchi questo andava cercato nel medico del paese. Infine Maurizio Busatta ricorda come, a dieci anni di distanza, la comunità fosse ancora frantumata:

Dieci anni dopo la catastrofe, Longarone non era più un paese ma una collettività di persone molto litigiose, dove emergevano figure particolari quali il parroco e i vari sindaci succedutisi. Era priva di coesione, ma cercava di uscirne in quanto cosciente di essere caduta dentro una spirale.

Altro punto di vista tenteranno di far prevalere i sindaci nei loro discorsi commemorativi, come avremo modo di dire più avanti. Le testimonianze, dunque, aiutano da una parte a ricostruire i difficili momenti successivi al disastro, ma nel contempo evidenziano i limiti insiti nel singolo ricordo, spingendo a riflettere sulla necessità di confrontarsi con più fonti.

 

Il dossier dei documenti. La trasmissione della memoria

Un secondo aspetto, come detto, riguarda la trasmissione della memoria. In questo caso sono state selezionate dieci brevi testimonianze di altrettanti superstiti. Anche in questo caso le posizioni sono assai differenti. C’è chi richiama il valore civile della storia (al di là delle questioni processuali) e del ricordo, come ad esempio don Giuseppe Capraro quando dice che «Non basta fare giustizia, bisogna imparare anche dalla storia; la vita umana è la prima e grande energia che deve essere salvaguardata ad ogni costo». Altri però sottolinea i limiti delle istituzioni nel favorire una diffusione delle conoscenze. Tuttavia, di fronte alla vicenda e al suo ricordo, alcuni sostengono di preferire l’oblio, in particolare perché le nuove generazioni e comunque chi è estraneo a quella storia non potrebbe comprenderne la portata. E d’altra parte c’è chi invece rivendica con forza il proprio ruolo di medium. Madri che parlano con i figli, come nel caso di Luciana De Bona che spiega: «I miei figli si incantano quando parlo del disastro o di Longarone e mi irrito mentre ne parlo (pensando ai colpevoli), tanto che i miei figli mi dicono di calmarmi, perché mi sale la pressione». O maestre che spiegano i fatti ai propri alunni, come Maria Pia De Biasio che dice:

Ora insegno a Sospirolo in una scuola elementare e cerco di non far dimenticare la data del 9 ottobre; anche ai bambini spiego cosa è avvenuto e come è avvenuto (…). Mi ascoltano con attenzione (…). È giusto che questi bambini sappiano; così andando a casa e raccontando cosa gli ho detto anche i genitori ed i nonni ricordano, altrimenti tutto va perduto.

In generale pare che le depositarie della memoria e della sua trasmissione siano in particolare le donne.

In queste testimonianze, dunque, si affronta la questione non secondaria della trasmissione del sapere e della memoria come strumento di auto-rappresentazione personale, ma senza la necessità di assumere una prospettiva unitaria e condivisa, come avviene invece nel racconto proposto dalle autorità.

 

Il dossier dei documenti. Il ruolo delle istituzioni – I discorsi dei sindaci

Ogni anno, a partire dal 1964, il sindaco di Longarone tiene un discorso pubblico davanti a cittadini e autorità. Non un oratore esterno, chiamato a riflettere sui fatti, ma la voce più autorevole della comunità che si incarica di celebrare la memoria del disastro, a sottolineare che la commemorazione è prima di tutto un fatto della gente di Longarone. Nel corso degli Anni ’60 tali discorsi furono addirittura pubblicati in opuscolo in modo che ne rimanesse traccia, tuttavia tale abitudine è andata persa nel tempo e ciò rende oggi molto difficile recuperare, tra le carte pubbliche o private dei sindaci che si sono succeduti, i testi pronunciati nelle diverse occasioni. Il materiale compreso in questa sezione del dossier è dunque il più raro: si tratta di brani particolarmente significativi degli interventi tenuti nel 1965, 1973, 1982, 1995.

L’obiettivo è verificare quali temi ricorressero con costanza e quali nuove questioni si affacciassero nel corso degli anni. In ciò gli studenti sono, come di consueto, guidati attraverso domande che agevolino da una parte la comprensione del singolo documento e dall’altra il confronto tra gli stessi. E uno dei temi che compare con costanza e solitamente in apertura è il ricordo della notte del 9 ottobre. Ad esempio, Gian Pietro Protti nel 1965 (ma la cosa viene ribadita nel discorso del 1973) apre il suo intervento con queste parole:

Persone e cose sono state cancellate in un attimo e ciascuno di noi si chiede come egli stesso non abbia subìto la medesima sorte; come abbiamo vissuto insieme a loro, come insieme li abbiamo perduti, così tutti uniti li dobbiamo ricordare e commemorare.

In secondo luogo, almeno nei primi anni, mentre la magistratura è impegnata a raccogliere le prove per l’incriminazione dei responsabili, i sindaci ritornano frequentemente sul tema della giustizia. Tuttavia, per sgombrare il campo da eventuali fraintendimenti, si afferma che nessuno va alla ricerca di una vendetta. D’altra parte, però, il fatto che le massime autorità del comune si premurino di affermare e ribadire il concetto, rivela che forse nella comunità serpeggiava un desiderio di rivalsa, vuoi per rabbia, vuoi per timore che la giustizia non fosse in grado di arrivare alla auspicata condanna dei responsabili. Del resto, nel discorso del 1973, a due anni dalla sentenza definitiva della cassazione, il sindaco Polla nel ripercorrere l’iter giudiziario che aveva portato non solo alle condanne ma anche a riconoscere la prevedibilità dell’evento, ricordava anche le difficoltà nel trovare periti e consulenti, al punto che il giudice istruttore era stato costretto a ricorrere (primo caso nella giurisprudenza italiana) ad esperti di altre nazioni.

Se il tema della giustizia è un filo rosso che collega i discorsi dei primi dieci anni, altre questioni si affacciano con il passare del tempo. Innanzitutto il tema della ricostruzione. Con la legge speciale per il Vajont, nei decenni successivi arrivarono a Longarone e in provincia notevoli quantità di denaro che furono impiegate in parte per la ricostruzione degli abitati e delle infrastrutture e in parte per il rilancio economico del comprensorio del Vajont, di cui beneficiarono diverse aree della provincia grazie al lavoro del Consorzio per il nucleo di industrializzazione della provincia di Belluno (Conib) che operò sino al primo decennio del XXI secolo.[19] Diversi sindaci fecero nel tempo riferimento ai passi avanti compiuti, ma nei documenti selezionati un riferimento a questo aspetto si ritrova solo nel discorso del sindaco Bratti del 1995. In questo stesso discorso si affacciano anche altri temi quali la causa civile per i risarcimenti e il paventato progetto di riutilizzo del bacino del Vajont, in realtà poi non concretizzatosi.

Ma interessante è anche il breve brano del discorso del sindaco Venturoli (1982) nel quale il primo cittadino invita a guardare avanti e superare la fase del solo dolore per cominciare a osservare con occhi diversi alla tragedia:

Da questa riflessione è nata l’opera è l’attività culturale della nostra Amministrazione dando vita e vitalità al “Progetto 83” che, articolandosi su temi della MEMORIA, della RICOSTRUZIONE e della PARTECIPAZIONE, ha voluto e vuole significare la volontà precisa di questa amministrazione comunale di raccogliere il seme fruttuoso gettato da chi è scomparso in quella tragica notte. (…)
Iniziative culturali, quindi, e non solo culturali, per ricordare e commemorare degnamente la tragedia del 9 ottobre 1963.

A vent’anni di distanza, dunque, la cultura viene presentata quale strumento per la rielaborazione del lutto. Va anche tenuto presente che, nel frattempo, la comunità longaronese era molto cambiata. Il succedersi di nuove generazioni e il fenomeno dell’immigrazione stavano mutandone profondamente la composizione sociale.[20] Era necessario evidentemente rilanciare il tema del disastro utilizzando nuovi e differenti strumenti, primo fra tutti la cultura; non a caso erano quelli gli anni in cui Maurizio Reberschak aveva fatto della vicenda del Vajont un tema di ricerca storica, arrivando a pubblicare la prima edizione del già ricordato volume Il grande Vajont.

Ma un altro tema emerge dal discorso del 1995, ossia il ricordo della tragedia di Stava del 1985. Il richiamo ad un episodio diverso non è cosa priva di significato, ma anzi dimostra un cambio di prospettiva. Se nei primi anni i discorsi dei sindaci mostrano una comunità tutta ripiegata su se stessa, sul proprio dolore, sui propri problemi, ora, a oltre trent’anni di distanza da quella notte del 1963, il racconto pubblico guarda anche ad altre realtà e comunità che hanno vissuto un’analoga tragedia: Longarone si presenta dunque come un tragico prototipo e la sua comunità come seno capace di accogliere e comprendere il dolore di altre persone colpite dal lutto.

Quello che comunque tentano di far passare i sindaci nei loro discorsi è l’immagine di una comunità comunque unita nel dolore e contro un comune avversario e capace di trarre dalla tragedia una «lezione di vita» (per citare le parole del sindaco Bratti), cercando con ciò di sopire quelle contraddizioni e divisioni invece registrate nelle testimonianze personali che abbiamo già incontrato.

 

Il dossier dei documenti. Altre istituzioni

L’ultimo nucleo di documenti riguarda la posizione di altre istituzioni di fronte alla tragedia. In primo luogo si riporta un ampio brano della requisitoria del pubblico ministero Arcangelo Mandarino con la quale, nel corso della fase istruttoria, chiedeva il rinvio a giudizio di nove persone ritenute responsabili. Questo documento è particolarmente utile perché resta ancor oggi la miglior descrizione di quei brevi minuti che segnarono la sorte di circa duemila persone. Il linguaggio è secco e tecnico, con l’eccezione di alcuni pochi passaggi in cui il magistrato si concede l’uso di vocaboli più intensi, come l’avverbio “paurosamente” riferito al precipitare dell’onda o l’aggettivo “ridenti” riferito ai paesi travolti dall’acqua. O ancora la frase: «Tremende furono le conseguenze sulle cose, ma infinitamente più angosciose e terrificanti quelle sulle vite umane». Il documento potrà essere messo a confronto ad esempio con la descrizione, molto più poetica e nel contempo inesatta, di Dino Buzzati per una riflessione sullo stile. Ma della requisitoria si riportano anche parti relative al lavoro della magistratura nelle ore e nei giorni immediatamente successivi al disastro e allo svolgimento del processo. In tal modo il documento aiuta a ricostruire ancora una volta i fatti da una nuova prospettiva che arricchisce le voci in campo dando il senso della complessità della storia. Questo documento è accompagnato da alcuni disegni tratti dal volume di Tina Merlin Vajont 1963. La costruzione di una catastrofe che ricostruiscono visivamente le fasi della frana e della distruzione degli abitati.[21]

Seguono le due leggi regionali del Veneto e del Friuli-Venezia Giulia ricordate in apertura. Questi documenti hanno lo scopo di far riflettere sul significato che le autorità danno al tema della memoria a quasi sessanta anni di distanza: i fatti del Vajont non appartengono più solo al contesto del racconto storico (e dunque degli studiosi e degli appassionati) o del ricordo personale, ma devono entrare a far parte del sentire comune, soprattutto nella prospettiva di sensibilizzare i cittadini al tema del rispetto dell’ambiente.

L’ultimo documento, in inglese, è una dichiarazione dell’Onu in occasione dell’International Year of Planet Earth. Anche in questo caso varrà la pena riflettere sull’esemplarità del caso Vajont e non più solo a livello locale o regionale, ma addirittura internazionale. Nel contempo, si potrà notare la discrasia tra il numero di morti accertati dal processo (1910) e quello proposto in questa dichiarazione (2500). Allo stesso tempo, alquanto discutibile risulta la prima frase di tale dichiarazione:

The Vajont reservoir disaster is a classic example of the consequences of the failure of engineers and geologists to understand the nature of the problem that they were trying to deal with.

È infatti ormai accertato che ingegneri e geologi (e così pure la Sade) erano nelle condizioni di conoscere e di fatto conoscevano la natura del terreno della montagna su cui poggiava la diga. Nessuna incapacità di comprendere la natura del problema dunque, ma volontaria sottovalutazione dei rischi. Ancora una visione diversa, ed errata, a 45 anni dal disastro. Parlare al mondo del Vajont sembra quindi, a prima vista, un riconoscimento postumo del lutto patito, ma ad una più attenta lettura si rivela ancora una volta un grave travisamento.

 

Conclusione

Questa proposta didattica si potrebbe ovviamente arricchire attraverso nuovi ulteriori documenti; ad esempio si potrebbe pensare ad un percorso per immagini e molte furono quelle scattate al bacino prima del disastro e ai luoghi devastati dall’ondata dopo il 9 ottobre: nel dossier di documenti se ne propone una selezione ragionata ma non strutturata in forma didattica. In questo caso si potrebbe pensare alla costruzione di una storia per immagini, magari inframmezzata dalle testimonianze e dalle fonti testé proposte; oppure si potrebbe proporre ai ragazzi di colorare quelle fotografie (in gran parte in bianco e nero) per capire in questo caso come gli studenti costruiscono la propria visione della vicenda. Insomma, anche in questo caso le piste possono essere molteplici.

Per fermarci al materiale proposto per il laboratorio, l’analisi delle fonti dovrebbe rendere evidente agli studenti che non esiste una sola memoria del Vajont, inizialmente neppure attorno alla questione, chiarita solo in sede giudiziaria, delle responsabilità penali dello Stato e della Sade. Del resto ancor oggi alcuni aspetti restano divisivi: il tema dei risarcimenti (con un iter giudiziario che richiese quasi trent’anni e creò fratture anche dentro la comunità), il problema della ricostruzione del paese (nello stesso posto o altrove? Identico a com’era o con una nuova forma?), la questione della diaspora degli abitanti di Erto (nel vicino comune di Ponte nelle Alpi sorse una località denominata Nuova Erto), la sottile differenza tra superstiti e sopravvissuti, tra chi cioè si era salvato dall’ondata e chi invece aveva avuto la fortuna di non trovarsi sul luogo della sciagura.

È insomma necessario parlare di memorie del Vajont. In questo senso, solo la ricerca storica –  ultimo insegnamento delle fonti proposte – può aiutare a ricostruire un quadro più coerente, mostrando nel contempo la complessità dei fatti.

 


Note:

[1] A livello nazionale, va ricordata la legge 101/2011, Istituzione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall’incuria dell’uomo. Per tale celebrazione fu scelta significativamente la data del 9 ottobre, in ricordo proprio della tragedia del Vajont. Negli anni successivi, soprattutto in area bellunese, non mancarono polemiche attorno alla formulazione del testo (ripreso poi dall’art. 1), sottolineando l’opportunità di eliminare il vocabolo «incuria». Cfr. i testi delle due leggi nel dossier di documenti.

[2] In Veneto, una valutazione critica della legge è arrivata in particolare dal Comitato Superstiti del Vajont.

[3] Per maggiori informazioni: https://www.prolocolongarone.it/pro-loco-longarone/associazione-pro-loco/le-attivita/71-vajont/la-fondazione-vajont [url consultata il 10-6-2022].

[4] Si veda al sito http://www.sopravvissutivajont.org/index.asp#sthash.5spYh5xu.dpbs [url consultata il 10-6-2022].

[5] Per non parlare del gruppo facebook Cittadini per la memoria del Vajont.

[6] Per un’analisi più distesa, sia consentito rinviare a E. Bacchetti, 100 anni, 4 minuti, 1910 morti. Breve viaggio nella tragedia del Vajont, Novecento.org, n. 8, agosto 2017, studio di caso che affronta il tema de rapporto tra potere economico e interessi della comunità nel disastro del Vajont.

[7] Peraltro, l’acqua risalì persino la valle del Piave provocando 111 vittime nel comune di Castellavazzo e giunse fino a Termine di Cadore, portando con sé detriti e corpi. In altri luoghi e nei cantieri di lavoro dell’ex Sade si registrano ulteriori 191 vittime. Il totale delle morti accertate dalla verità giudiziaria si attestò a 1910.

[8] Per la verità, anche sul numero di vittime non esiste uniformità di vedute. Se la realtà giudiziaria parla di 1910 morti, per altri il computo sale a 1917; sorprendente la cifra proposta dall’Onu che in una sua dichiarazione del 2008, anno internazionale del pianeta Terra, fa riferimento a 2500 persone perite nella tragedia. Cfr. il dossier di documenti.

[9] M. Reberschak, Introduzione, in Il grande Vajont, a cura di Id., Cierre, Sommacampagna 2016, p. 8.

[10] D. Buzzati, Natura crudele, «Corriere della Sera», 11 ottobre 1963, p. 1.

[11] M. Alicata, Rischio calcolato, «L’Unità», 13 ottobre 1963, pp. 1, 16.

[12] T. Merlin, L’Unità fu processata per aver denunciato il pericolo, «L’Unità», 11 ottobre 1963, p. 1.

[13] M. Flores, Il genocidio, Il Mulino, Bologna 2021.

[14] G. Bocca, Non c’è più nulla da fare o da dire tra fango e silenzio, «Il Giorno», 11 ottobre 1963.

[15] I. Montanelli, Impresa facile lo sfruttamento del dolore, «La Domenica del Corriere», 10 novembre 1963, p. 5.

[16] M. Reberschak (a cura di), Il grande Vajont, Comune di Longarone, Longarone 1983.

[17] F. Vendramini (a cura di), Superstiti e testimoni raccontano il Vajont, Comune di Longarone-Isbrec, Longarone-Belluno 1992.

[18] Lo spettacolo divenne anche un libro: M. Paolini, G. Vacis, Il racconto del Vajont, Garzanti, Milano 1997.

[19] Sulla questione si veda A. Amantia, L’industrializzazione del comprensorio del Vajont. Intervento speciale, ricostruzione economica e sviluppo dopo la catastrofe (1963-2000), Il Mulino, Bologna 2018.

[20] Cfr. F. Rossi, La popolazione di Longarone, 1951-2001, in M. Reberschak e I. Mattozzi (a cura di), Il Vajont dopo il Vajont, Marsilio, Venezia 2009, pp. 91-134.

[21] T. Merlin, Vajont 1963. La costruzione di una catastrofe, Il Cardo, Venezia 1993, tavole fuori testo. Si tratta della nuova versione, con titolo mutato, del libro Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso Vajont, La Pietra, Milano 1983.