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Nel paese dei Bakele. Un racconto d’avventura per educare alla disuguaglianza

Nel paese dei Bakele. Un racconto d’avventura per educare alla disuguaglianza

«Lo scolaro mantovano», a. III, n.1, 1927, p. 5, titolo del racconto d’avventura, prima puntata

Abstract

Sulla rivista mensile «Lo scolaro mantovano», rivolta agli alunni delle scuole elementari, comparve nel 1927 un racconto d’avventura a puntate ambientato nell’Africa coloniale. Pur non contenendo riferimenti espliciti ad azioni di stampo razzista, la narrazione veicolava con naturalezza una dose massiccia di pregiudizi. Si contribuiva così a porre le basi di un sentire comune che sarebbe divenuto fertile sostrato per il radicamento di ideologie razziste e pratiche discriminatorie. Anche nella scuola d’oggi può essere utile riflettere sulla pervasività, sulla tenacia, sulla lunghissima durata e sulla capacità di riemergere dalle proprie ceneri dei luoghi comuni e dei pregiudizi razziali.

Indice:
1 Educare all’antirazzismo
2 Il contesto
2.1 «Lo scolaro mantovano»
2.2 Un racconto di avventure: Nel paese dei Bakele
3 Analisi del testo
3.1 L’Africa e l’infanzia del mondo
3.2 Forme tradizionali della fiaba in ambiente africano
3.3 La spedizione nella giungla
3.4 Contrattempi della natura e intraprendenza italiana
3.5 Donne sciocche e idoli in frantumi
4 Riflessioni sul testo
4.1 Obiettivi e linguaggi
4.2 Letteratura coloniale per l’infanzia
4.3 Colonialismo e razze inferiori
4.4 Negazione delle civiltà africane
5 Le insidie del pregiudizio

Educare all’antirazzismo

Quante infinite sfumature assume il pregiudizio? Quanti luoghi e momenti attraversa? Quanto alberga sotto forma di innocuo modo di dire, di diffuso senso comune, di banale generalizzazione, di satira divertente o ironica anche nel pensiero e nei comportamenti di chi non si riconosce razzista o non ha l’intenzione di esserlo?

Copiosissima è la bibliografia sull’argomento, affrontato dalle diverse discipline secondo il proprio statuto epistemologico. Se ne sono occupate l’antropologia, la psicologia e la psichiatria, la filosofia, la sociologia, l’economia, le scienze politiche e giuridiche nel tentativo di concettualizzare il pregiudizio di volta in volta in prospettiva storica, sociale, economica, antropologica ecc. e mettendo in evidenza le profonde implicazioni che derivano dalle differenti prospettive di osservazione. Pierre Andrè Taguieff, in un testo non recente e che tuttavia continua a rappresentare una pietra miliare nello sviluppo degli studi sociologici sull’argomento[1], rifacendosi a Michael Barton, attua una chiara distinzione fra il razzismo-ideologia («dottrina, concezione del mondo, visione della storia, teoria, filosofia»), il razzismo-pregiudizio («atteggiamento, disposizione affettivo/immaginaria legata a stereotipi etnici, che si spaccia come ‘opinione’ e ‘credenza’») e il razzismo-pratica discriminatoria («comportamento collettivo osservabile, o addirittura misurabile, legato a certi modi di funzionamento sociale»)[2].

Se per il primo e il terzo la concettualizzazione appare abbastanza definita – pur nell’ampio spettro della variabilità delle rispettive cause e dei diversi esiti – il pregiudizio razziale non è sempre collocabile in un punto preciso della «linea continua che va dall’atteggiamento e dalla disposizione all’opinione e al giudizio di valore»[3]. Appare dunque particolarmente complesso giungere a una definizione univoca. Se infatti i moderni stati di diritto sono in grado di agire sugli atti razzisti sulla base di misure legislative, questo non è possibile sugli «inafferrabili pregiudizi» e l’azione antirazzista comune non riesce ad appuntarsi su di loro se non quando essi sono verbalizzati, dichiarati o addirittura proclamati[4].

Compito educativo – del quale non si possono tacere le difficoltà – potrebbe dunque essere farli emergere e verbalizzare in un clima non giudicante perché divengano “oggetti” sui quali  riflettere e confrontarsi. Se assumiamo le ipotesi, non scontate, che i pregiudizi razziali costituiscano dei preconcetti negativi caratterizzati da una somma di assenze (quali la razionalità, la giustizia e l’umanità); che essi vengano assorbiti dagli atteggiamenti dominanti diffusi nell’ambiente sociale; che una volta istituiti essi modellino l’esperienza dell’individuo[5], possiamo desumere il non lieve ruolo che la scuola può ancora assumere.

Il racconto per l’infanzia che qui si propone – solo uno dei molti pubblicati alla fine degli anni Venti con questo registro comunicativo – può costituire un’utile base di riflessione e fornire spunti di lavoro per esperienze laboratoriali.

 

Il contesto 

2.1 «Lo scolaro mantovano»

A partire dal novembre 1925, prese avvio a Mantova la pubblicazione de «Lo scolaro mantovano», una rivista mensile illustrata rivolta agli alunni delle scuole elementari della città e della provincia e che sostituiva «Lo scolaretto mantovano», una precedente rivista edita dal novembre 1910 al giugno 1925, sospesa per cause belliche dall’aprile-giugno 1916[6].

Il nuovo periodico ereditava dal precedente l’impostazione, lo scopo educativo e una parte della redazione, ma da quello si discostava nettamente per grafica e contenuti. Perduto lo stupore creativo delle storie di Tomaso Monicelli e delle illustrazioni di Antonio Rubino, progressivamente intristita la rappresentazione dei bambini da simpatici monelli a obbedienti ometti e donnine vestiti da balilla e piccole italiane[7], il giornaletto diretto da Paolo Bertulazzi, direttore didattico di Poggio Rusco, aderiva pienamente agli indirizzi formativi del regime volti a costruire, sin dalla più tenera infanzia, l’”uomo nuovo fascista” e si ispirava esplicitamente alla riforma Gentile del 1923. Dichiarava di informarsi «alle grandi linee dei nuovi programmi scolastici, […] di essere efficace suscitatore di bontà, di fede, di patriottismo, di cultura […] e un preciso collaboratore degli insegnanti per esplicare nelle scuole e nelle famiglie una proficua opera educativa». Nell’editoriale apparso sul primo numero, la rivista prometteva di essere «ricca di novelle, racconti, monologhi, commediole di illustri scrittori per l’infanzia». Non avrebbe inoltre mancato di mettere «le piccole anime al contatto con il Creatore e le opere sue, seguendo i sani principi che emanano dalla religione di Gesù» e di offrire «interessanti letture storiche e geografiche […], insieme a brevi biografie di illustri concittadini, leggende locali, descrizioni di monumenti, brani dialettali»[8].

«Lo scolaro mantovano», a. III, n.1, 1927, dettaglio della testata

 

Dal 1920 al 1940, la letteratura per ragazzi stava velocemente cancellando i progressi conseguiti fra il 1880 e il 1920, definito l’«età aurea» della stampa per l’infanzia, durante la quale era fiorita una straordinaria produzione letteraria e artistica. I cambiamenti politici in atto annunciavano ora l’avvio di una «età nera», in cui la libertà di creazione e di invenzione sarebbero state progressivamente soffocate[9]. Come ricordava Michele Mastropaolo nel 1947, il bambino fu un obiettivo di primaria importanza per il fascismo[10]. Se la rivoluzione fascista voleva vivere, doveva «trovare oggi gli uomini del domani»[11].

«Lo scolaro mantovano», a. III, n.3, 1927, dettaglio della copertina

 

Anche ne «Lo scolaro mantovano», stampato fino al marzo 1930, la propaganda di regime divenne via via più invadente e insistita[12]. Proprio perché la formazione fascista fosse totalizzante, il controllo sulla letteratura per l’infanzia era divenuto dagli anni Venti sempre più stringente ampliandosi dai testi scolastici ai prodotti editoriali per il tempo libero e lo svago, fino ad azzerarne le differenze[13]. La letteratura d’evasione e i libri di immaginazione diventavano uno strumento formidabile «per rinforzare la cultura fascista di massa e trasformarla in cultura nazionale»[14], divenendo «uno dei modi migliori di contribuire all’educazione integrale della gioventù, voluta e promossa dal Regime»[15].

«Lo scolaro mantovano», a. III, n.1, 1927, p. 3


2.2  Un racconto di avventure: Nel paese dei Bakele

Proprio dal primo numero del 1927, iniziava la pubblicazione in 6 puntate, a firma del direttore Bertulazzi, di una storia di avventure ambientata in Gabon. Protagonista era una famiglia italiana di coloni: il signor Lamura – proprietario di un podere sulla riva del fiume Ogoouè nei pressi del lago Onanguè –, con la moglie e il figlio Andrea di dodici anni. La vicenda prendeva le mosse dalla visita del signor Raulic, armatore triestino venuto in Africa ad acquistare un importante carico di avorio e di caucciù, accompagnato dalla moglie e dai figli Paolo e Giorgio[16]. Dopo essere stato invitato a cena con la famiglia e aver visitato il villaggio dei lavoranti indigeni della fattoria, di etnia Kele (o Bakele come recita il racconto), incuriosito dagli usi locali Raulic chiedeva all’ospite di poterlo accompagnare a visitare un dipendente malato, curato dallo stregone del villaggio. In seguito, Lamura avrebbe proposto all’armatore un’escursione al lago Onanguè, una sorta di piccolo mare interno punteggiato di isole sulle quali si diceva albergassero i geni buoni e cattivi. Sulle isole si trovavano i loro templi custoditi dagli stregoni.

Di puntata in puntata, l’avventura si snoda fra paesaggi equatoriali, descrizioni di usanze locali e provvidenziali interventi di Lamura per risolvere intoppi e situazioni complesse, cui gli indigeni non sono in grado di porre rimedio. Narrato con linguaggio semplice e chiaro, coinvolgente e apparentemente innocuo, il racconto si rivela una summa di pregiudizi e luoghi comuni sull’inferiorità dei Bakele e sullo stadio primitivo della loro cultura, fino a farne un esempio emblematico dell’incapacità africana di gestire le proprie terre e le proprie risorse e della inaffidabilità e corruttela di stregoni e capi indigeni. Nel racconto essi dimostrano nell’evidenza dei fatti di non possedere le caratteristiche culturali e morali adeguate a governare i propri villaggi. Le connotazioni razziali non albergano in modo significativo nella vicenda e nel suo sviluppo, ma nello sguardo dei protagonisti bianchi e nella rappresentazione degli atteggiamenti e delle reazioni dei protagonisti neri. I Lamura e i Raulic non manifestano atteggiamenti ostili nei confronti degli indigeni, ma guardano ai Bakele sorridendo, come si fa con le piccole ingenuità dei bambini, ostentando un atteggiamento di paternalistica benevolenza, di adulta capacità e responsabilità, di risoluto attivismo rispetto alla loro fatalistica negligenza e improduttiva allegria.

Il significato della narrazione per l’infanzia è fin troppo chiaro: gli europei, e nello specifico gli italiani, sono in grado di compiere con il colonialismo una missione salvifica nei confronti dell’Africa. Essi portano cultura, progresso, capacità di sfruttare le immense risorse che quella terra custodisce e mettono a disposizione dello sviluppo del continente la propria superiore capacità, senza omettere qualche dettaglio fisico che prelude alle caratteristiche superiori della razza ariana. La vita del colono e della sua famiglia – in un periodo in cui l’emigrazione è l’unica via di fuga dalla miseria e dalla fame che attanaglia vaste plaghe dell’Italia – è presentata come una vita agiata, condotta con schiere di servi obbedienti al proprio servizio. Il colono, autentico uomo nuovo fascista, è attento, pronto ad affrontare con coraggio e intelligenza tutte le situazioni, è preparato e sicuro di sé, sa difendere e condurre la propria famiglia e gli amici, sa organizzare una fiorente attività imprenditoriale ed esercitare con autorevolezza la propria funzione sulle popolazioni indigene, le quali sono ‘naturalmente’ indotte dall’ammirazione a obbedirgli e a rendergli onore.

Analisi del testo

3.1 L’Africa e l’infanzia del mondo

Fin dalla prima sera, quando gli italiani assistono alla festa dei Bakele, Lamura spiega che il ballo e il canto sono le attività preferite dagli indigeni e che le loro feste si protraggono per tutta la notte. Al loro arrivo, l’autore fa intonare agli africani un canto di saluto che esalta la bellezza e la prestanza fisica degli europei («l’uomo bianco è forte come il leone», «la donna bianca è bella e dolce come l’antilope e i suoi occhi sono più azzurri del cielo», «i piccoli bianchi sono carini come lioncelli»), ma anche la fiduciosa gratitudine dei Bakele: «l’uomo bianco (…) ucciderà elefanti e ippopotami che noi mangeremo», «la donna bianca (…) ci darà delle perle e delle stoffe dai brillanti colori». In conclusione: «gloria ai bianchi venuti dal paese dove sorge il sole!»[17].

«Lo scolaro mantovano», a. III, n.1, 1927, p. 6, i Bakele danzano lungo il fiume

Ma sarà nel secondo episodio, relativo alla visita al dipendente nero ammalato, che Lamura potrà sfoggiare le proprie competenze scientifiche, somministrando chinino all’uomo febbricitante che guarirà nel breve volgere di una notte. L’episodio fornisce al colono l’occasione per raccontare aneddoti che evidenziano l’atteggiamento infantile di ingenua credulità degli africani nel potere degli stregoni e degli amuleti. Egli sottolinea, ad esempio, il terrore degli indigeni per il potere misterioso della scrittura su carta. Pur trattandosi di una delle conquiste più importanti del genere umano, essa non è ancora praticata dagli africani, fermi ad una fase evolutiva particolarmente primitiva. Lo stadio di ‘infanzia del mondo’ che caratterizza queste popolazioni è rafforzato da un altro racconto in cui un europeo inganna gli indigeni fingendosi uno stregone e incantandoli con il giochetto del naso staccato o con la miracolosa scomparsa e ricomparsa dei denti nella propria bocca, ottenuta grazie a una banale dentiera: «queste popolazioni sono, d’altronde, d’una credulità immensa e basta un po’ di furberia perché gli europei si impongano»[18], concluderà al termine lo scaltro Lamura.

«Lo scolaro mantovano», a. III, n.2, 1927, p. 4, lo stregone danza davanti al malato coperto di amuleti

L’Africa, per molti studiosi europei, rappresentava in quegli anni uno stadio primitivo dell’umanità, cristallizzato dall’oggettiva incapacità di evolvere, difetto che avrebbe avuto radici nelle caratteristiche biologiche dei suoi abitanti. Era di uso corrente il parallelismo fra le capacità intellettive di un infante europeo e quelle di un adulto africano: «poco raziocinio e sentimento etico, forte sensualità, passionalità, volubilità, atto a imitare più che a creare»[19].

3.2 Forme tradizionali della fiaba in ambiente africano

Il terzo episodio contempla la visita agli stregoni delle Isole Sacre del lago Onanguè, i quali in cambio di doni consentiranno la visita ai templi degli idoli[20]. L’autore si sofferma su un’antica leggenda che narra l’origine del lago. L’occasione consente di riproporre la tipica situazione narrativa in cui, in un contesto di generalizzata caduta morale, tutti negano  ospitalità e accoglienza a un povero viandante, sotto il cui misero aspetto si cela uno spirito. Solo chi, dando prova di generosità e abnegazione, si prodigherà per lui sarà risparmiato dalla improvvisa e ineluttabile distruzione del villaggio e dei suoi abitanti.

«Lo scolaro mantovano», a. III, n.5, 1928, il buon capo tribù uccide la scimmia che tiene prigioniero lo spirito-uccellino

Una seconda leggenda si snoda sulla stessa falsariga, facendo propria un’altra forma tradizionale: quella che relega le donne nel ruolo di curiose e vanitose pettegole, incapaci di discrezione e prive di senso di responsabilità (e pertanto inadeguate ad assumere ruoli importanti, soprattutto pubblici). Come in numerose altre favole e racconti presenti nella narrativa tradizionale di molte culture, saranno la vanità della pettegola moglie del protagonista e la sua incapacità di conservare un segreto a causare il diluvio che allagherà in modo irreversibile l’intera valle, sepolta per sempre dalle acque del lago Onanguè[22].

«Lo scolaro mantovano», a. III, n.5, 1928, la moglie del capo tribù rivela il segreto del lago a un’amica


3.3 La spedizione nella giungla

Con le ultime due puntate del racconto si entra finalmente nel vivo dell’avventura con una spedizione nella giungla. Si tratta di raggiungere, oltre il lago, il villaggio dove risiede Palambò, il capo dei Pahoui, con il quale Raulic desidera stringere un vantaggioso accordo per l’acquisto di avorio e caucciù. Il viaggio e l’incontro forniranno all’autore le occasioni migliori per stigmatizzare i limiti e le ingenuità “strutturali” degli indigeni africani.

Prima della partenza, Lamura aveva predisposto una scorta armata costituita da una cinquantina di Bakele in divisa con pantaloni bianchi, giubbetto rosso, fucile e una pelle di capra sulle spalle. Sul capo le acconciature più fantasiose, attinte dall’intero repertorio tradizionale africano. Non mancavano i doni con i quali corrompere Palambò: abbondanti pezze di stoffa colorata, un fucile, un orologio con soneria, collane di perle false «e, soprattutto, un barile di rhum che gli farà più piacere di tutto il resto»[23].

Superato il lago, la carovana si mette in marcia. I Bakele armati sono ordinatamente disposti su due file parallele, preceduti da una guida che sventola la bandiera tricolore e da alcuni tamburini che segnano il passo della marcia. Il corteo, molto simile a una parata, anticipa le lettighe a spalla sulle quali trovano posto le signore e i ragazzi, mentre Lamura e Raulic seguono a piedi per sorvegliare l’intero convoglio.

3.4 Contrattempi della natura e intraprendenza italiana

Dopo varie ore di cammino, un suono simile a un corno avvisa la carovana che deve arrestarsi: la piena del fiume impedisce di affrontare il guado e sbarra il cammino. I portatori «senza alcun pensiero» si siedono sulla riva, abituati ad attendere che le acque si abbassino. Raulic, irritato, osserva che «gli ingegneri negri non si sono ancora sognati di fabbricare un ponte», costringendo tutti a fermarsi per una banale piena. L’intraprendente Lamura non si dà per vinto e perlustra la zona cercando una soluzione. Poco dopo, dando sfoggio delle propria competenza e lungimiranza, comunica di aver trovato il modo di costruire un ponte[24]. Fra la sorpresa e l’ammirazione di tutti, ordina agli uomini di abbattere con l’accetta un alto albero e di farlo cadere sul fiume in modo che i suoi rami raggiungano la riva opposta; per incentivarli, offre loro un’abbondante porzione di rhum. Li invia poi sull’altra riva e fa abbattere un secondo albero che, affiancato al primo nel verso opposto, renderà il passaggio più largo e agevole. Realizzato il progetto “ingegneristico” del colono, invece di essere stanchi per il lungo percorso e il duro lavoro, «i negri, entusiasti, eseguirono una danza allegra, dopo avere di nuovo abbondantemente bevuto del ruhm»[25].

3.5 Donne sciocche e idoli in frantumi

La carovana giunge a destinazione il giorno successivo, accolta dal suono di timpani e tamburi. Il corteo, preceduto dai portatori di doni, si dirige verso la residenza del capo, situata in un recinto all’interno del quale «si trovavano capanne di stoppia che assomigliavano ad alveari»[26]. Seduto a torso nudo e adorno «di gingilli di vetro d’ogni colore»[27], Palambò si compiace dei doni – apprezzando soprattutto il fucile e il rhum – e mette a disposizione degli europei due capanne colme di zanne d’elefante. La sera si reca in visita agli ospiti con le sue donne, mostrandosi interessato a tutti gli oggetti che gli europei hanno con sé, mentre «le negre mostrarono spesso una curiosità indiscreta, domandando senza tanti scrupoli, quanto faceva loro piacere. Ad ogni nuovo oggetto esse battevano le mani e ridevano come bambine»[28]. I figli del capo sono invece interessati ai loro coetanei bianchi, ridono divertiti del loro naso appuntito e paragonano i loro capelli al pelo delle capre. Quando però i bimbi europei cercano di avvicinarsi, «se la davano a gambe nel recinto, nascondendosi come scimie [sic] impaurite»[29].

Anche in questo caso tuttavia, i bersagli preferiti dall’autore sono gli stregoni. Dapprima ne fa fuggire uno spaventato e urlante dopo avergli fatto annusare una boccetta d’ammoniaca custodita nella cassetta dei medicinali di Raulic, inducendo in tal modo il capo ad affermare che i bianchi sono più forti dei suoi stregoni.

«Lo scolaro mantovano», a. III, n.8, 1928, il colono Lamura spaventa lo stregone con un flacone di ammoniaca

In seguito, dopo che Raulic aveva concluso ottimi accordi commerciali, ne terrorizza e ridicolizza un altro che, con il corpo dipinto di bianco e il volto a strisce nere e rosse, con una statuetta d’argilla in mano si avvicina minaccioso per ottenere doni. L’indomito Lamura lo sfida predicendo che l’idolo non potrà nulla contro il suo fucile, capace di frantumarlo a cinquanta passi di distanza. La sfida è naturalmente vinta al primo colpo e «i negri acclamarono il vincitore» affermando che «il mago bianco è più potente del nostro stregone! Il suo fucile è stregato!»[30].

Terminata la missione nel villaggio dei Pahoui, Raulic può dirsi soddisfatto degli accordi raggiunti con Palambò: in cambio di preziose materie prime, avrebbe corrisposto armi, filo di ferro e stoffe colorate.

Riflessioni sul testo

4.1 Obiettivi e linguaggi 

Se la trama del racconto appare complessivamente banale e la narrazione è priva di quella sapienza narrativa che regalerebbe appeal alla storia, arricchendola di attimi di suspence destinati a stemperarsi al termine in prospettive rasserenanti (come ci aspetteremmo da un racconto d’avventura per bambini), nelle pieghe del testo sono tuttavia presenti vari motivi di interesse, non altrettanto banali, che varrebbe la pena di analizzare e, in base all’età degli studenti e agli obiettivi dell’insegnante, presentare in classe.

Il primo attiene al registro utilizzato. Occorre anzitutto chiedersi quale sia lo scopo di questo racconto. Il più ovvio è quello di intrattenere ed esercitare alla lettura e, con essa, perseguire l’affinamento e l’arricchimento lessicale, il miglioramento ortografico, grammaticale e sintattico, funzionali al miglioramento dell’espressività orale e scritta. Come qualsiasi altro testo composto in corretto italiano. Se cerchiamo però altre motivazioni nella scelta del tema e della trama, appare difficile immaginare che esse servano ad appassionare, motivare, emozionare come un racconto d’avventura dovrebbe fare. Anche la presenza di tre ragazzini, anagraficamente vicini ai potenziali lettori, è del tutto insignificante. A parte la momentanea curiosità di un paio di essi per le anfore-granaio custodite nelle capanne, la loro presenza, come quella delle donne, è puramente esornativa e il loro ruolo non va oltre quello delle comparse.

È chiaro, allora, che lo scopo non dichiarato, forse meglio celato che in altri pezzi, rientra a pieno titolo nella sfera di quella pedagogia di regime utile per plasmare, fin dalla più tenera età, il pensiero e gli atteggiamenti degli scolari. Serve a operare «una perfetta coniugazione tra formazione culturale di base e costruzione di una coscienza politica, al fine di realizzare quell’italiano nuovo in cui l’identità nazionale e quella fascista si fondessero in una endiadi definitiva e indissolubile: l’italiano fascista»[31]. È l’intento che 15 mesi dopo, con la legge n. 5 del 7 gennaio 1929 si sarebbe prepotentemente imposto con l’istituzione del testo unico di Stato[32].

Del resto, come ancora ricorda Laforgia, «la scuola, come si sa, era stata uno dei primi ambiti in cui il fascismo era intervenuto con spirito riformatore e l’interesse verso la scuola era progressivamente cresciuto nel momento in cui il fascismo aveva sviluppato una sua vocazione totalitaria»[33]. La formazione delle nuove generazioni trascendeva infatti l’interesse puramente didattico «per assurgere all’importanza di un fatto politico, poiché tuttociò [sic] che si attiene alla formazione intellettuale e spirituale delle nuove generazioni ha carattere eminentemente politico»[34].

4.2 Letteratura coloniale per l’infanzia

Ma qual era la formazione «eminentemente politica» che uno scialbo raccontino a puntate come quello di Bertulazzi intendeva attuare? Si tratta di un interessante esempio di quella modesta letteratura coloniale per l’infanzia che intendeva aggiungere al fascino del romanzo esotico d’avventura una connotazione coloniale[35]. Era nata in Italia tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, dalla politica espansionistica dei governi liberali e soprattutto con la guerra italo-turca del 1911-1912. La produzione sarebbe in seguito esplosa in un marcato imperialismo con la guerra d’Etiopia e la proclamazione dell’impero, e avrebbe visto un aumento significativo delle pagine dedicate al tema imperiale anche sulle edizioni del libro unico di Stato. Nel 1936, quasi un terzo delle pagine del libro di lettura delle classi seconde era in vario modo attinente all’impero[36].

«Lo scolaretto mantovano», a. VII, n. 3, 1925, p. 55

In realtà, il tema coloniale era sempre serpeggiato in toni e forme disomogenei anche negli anni precedenti, fitti di spartizioni, accordi, occupazioni, scambi, rettifiche dei confini dei territori africani in vari modi acquistati, occupati o annessi dall’Italia e da altri stati europei. Anni densi anche di dure rivolte delle popolazioni locali e di sonore sconfitte dell’esercito italiano, le cui umiliazioni avrebbero fornito l’alibi dell’orgoglio nazionale ferito alle mire espansionistiche di Mussolini e alla sua roboante macchina propagandistica.

4.3 Colonialismo e razze inferiori

Esisteva nel concetto stesso di colonialismo l’idea implicita dell’inferiorità delle popolazioni che abitavano e governavano le terre da predare. Nelle valutazioni che lo stato aggressore compiva prima di intraprendere un’impresa coloniale, c’erano considerazioni di carattere economico, politico, militare e strategico, ma a queste si affiancavano, a giustificazione dell’atteggiamento rapace, considerazioni di carattere antropologico, etnologico, sociologico, etico, pedagogico. Gli indigeni, ritenuti geneticamente e culturalmente inferiori, non avrebbero mai avuto la possibilità di migliorare e di costruire una società evoluta. Solo l’intervento dall’esterno di un popolo superiore, in grado di organizzare il territorio, sfruttare le risorse, portare cultura e tecnologia avrebbe potuto riscattare quei territori dall’arretratezza e civilizzare, nei limiti imposti dalla natura inferiore, quelle popolazioni[37].

Come scrive Michele Nani[38], «tutta la cultura europea del XIX secolo fu segnata dalla prospettiva del dominio planetario», sostenuta da un intenso fiorire di studi etnografici e antropologici, ma anche neuropsichiatrici[39], che spesso analizzavano le caratteristiche delle “razze” o dei gruppi etnici non solo con rilevazioni antropometriche e comportamentali, ma anche in base alle patologie neuropsichiche che esprimevano con maggior frequenza e alle manifestazioni cui queste davano origine. Gli studi scientifici che in quegli anni si andavano compiendo diedero un determinante apporto alla legittimazione della politica coloniale europea e, in seguito, alla progressiva emanazione di norme e leggi razziali.

4.4 Negazione delle civiltà africane

Osserva ancora Nani:

L’idea della superiorità europea si tradusse in una nuova ideologia del dominio, a cavallo fra nazionalismo e razzismo. Nel quadro della nuova percezione del rapporto fra Europa e resto del mondo sorta nel corso dell’età rivoluzionaria e napoleonica, si sviluppò una serie di rappresentazioni che presupponevano l’inferiorità dei non-europei: se talune pretendevano di dimostrarla scientificamente, la maggior parte, al di là degli argomenti impiegati, ne faceva discendere il diritto alla colonizzazione e all’autoritarismo. L’avvio dell’esperienza coloniale in Africa si può leggere in blocco come negazione dell’esistenza di civiltà locali. L’idea che le popolazioni autoctone fossero al di fuori della Storia e quindi andassero studiate da rami speciali del sapere (etnologia e antropologia) legittimava qualsiasi atteggiamento teso a introdurre elementi di progresso, sovente identificati con merci e mercati o con l’incedere degli eserciti europei. […] Il diritto all’auto-governo era perimetrato dal possesso dei requisiti della civiltà e generalmente ne erano esclusi i non-europei, come d’altronde, sia pur con le debite distinzioni e sfumature, le classi subalterne e le donne in patria[40].

Nel 1926, per promuovere «una letteratura coloniale conforme alle aspirazioni dell’Italia fascista»[41] era stata istituita una giornata coloniale da celebrare nelle scuole ed erano nate riviste che incoraggiavano la diffusione del romanzo coloniale[42].

 

Le insidie del pregiudizio 

Nessuno di questi temi appare tuttavia in modo esplicito nel racconto ambientato nella terra dei Bakele (Gabon, protettorato francese),  il quale non per questo risulta meno insidioso. Al contrario, utilizzando un linguaggio relativamente pacato, una forma espressiva priva di retorica, molto semplice e ‘familiare’, l’autore neutralizza quelle avvisaglie che potrebbero indurre il lettore a prestare la giusta attenzione.

Con la sua avventurosa storiella, Bertulazzi somministra una dose massiccia di pregiudizi razziali, efficaci precursori del razzismo agito e, per certi aspetti, forse ancora più temibili di una propaganda aperta, violenta e sfacciata, perché più performanti e capaci di insinuarsi negli strati più profondi della coscienza e della percezione di sé e degli altri. E infinitamente più longevi, incrollabili di fronte alle ragioni della scienza, capaci di vivere molto a lungo latenti come spore, e di risvegliarsi improvvisamente quando le condizioni tornino favorevoli.

Attraverso l’esaltazione delle capacità imprenditoriali di Lamura, della sua intelligenza e intraprendenza nell’affrontare le situazioni e risolvere i problemi, della continua sottolineatura della “spontanea” ammirazione e riconoscenza tributatagli dai Bakele, si suggerisce una sorta di « patto di alleanza fra colonizzati e colonizzatori»[43] e non un dominio esercitato con la forza. Si persegue l’obiettivo di evidenziare l’inferiorità non solo culturale, ma genetica, degli indigeni africani. Il confronto è continuo e schiacciante. E se a breve termine ottiene il risultato di giustificare, e anzi di auspicare, l’intervento europeo e soprattutto italiano in terra d’Africa per «destare dal sonno questa terra buona» e farla «fiorire e fruttare come un giardino incantato»[44], a lungo termine getta basi indelebili di pregiudizio razziale, capaci di attraversare indenni le epoche storiche: oltre il colonialismo, oltre il fascismo, oltre la guerra per riemergere ad ogni sollecitazione dalla notte della storia e tornare prepotentemente all’attualità.

 

Fonti

Nel paese dei Bakele, racconto d’avventura in 6 puntate di Paolo Bertulazzi

  1. I negri si divertono («Lo scolaro mantovano», a. III, n.1, Ottobre 1927, pp. 5-6). [Scarica in pdf]
  2. Stregoni ed amuleti («Lo scolaro mantovano», a. III, n.2, Novembre 1927, pp. 3-5). [Scarica in pdf]
  3. La leggenda del vecchio stregone («Lo scolaro mantovano», a. III, n.4, Gennaio 1928, pp. 5-6). [Scarica in pdf]
  4. La leggenda del pescatore («Lo scolaro mantovano», a. III, n.5, Febbraio 1928, pp. 5-6). [Scarica in pdf]
  5. Visita ad un capo Pahoi («Lo scolaro mantovano», a. III, n.7, Aprile 1928, pp. 5-6). [Scarica in pdf]
  6. Visita ad un capo Pahoi – continuazione («Lo scolaro mantovano», a. III, n.8, Maggio 1928, pp. 5-7). [Scarica in pdf]
  7. Enrico De Seta, Serie di cartoline umoristiche disegnate ad uso delle truppe italiane dell’Africa Orientale, Edizioni d’Arte Boeri, Milano 1935-36.

 

Bibliografia

(volumi citati nel testo e indicazione di alcuni studi significativi per la storia dell’analisi del pregiudizio razziale).

  • G. W. Allport, La natura del pregiudizio, La Nuova Italia, Firenze 1973 (Ed. originale The Nature of Prejudice, Addison Wesley Publishing Company, Cambridge 1954).
  • L. Benevelli, La psichiatria coloniale italiana negli anni dell’Impero (1936-1941), Biblioteca di antropologia medica, 7, Argo, Corte dell’Idume (Le) 2010.
  • R. Boudon, L’ideologia. Origine dei pregiudizi, Einaudi, Torino 1991 (Ed. originale L’ideologie. L’origine des idées recues, Fayard, Paris 1986).
  • M. Brignani, Colonialismo e tutela della razza, Novecento.org, n. 4, giugno 2015, DOI: 10.12977nov.78.
  • V. Campogrande, E. Passamonti, Roma luce del mondo. Nozioni di cultura fascista, Lattes, Torino 1930.
  • R. Cantoni, Illusione e pregiudizio. L’uomo etnocentrico, Il Saggiatore, Milano 1967.
  • M. Castoldi (a cura di), Piccoli eroi. Libri e scrittori per ragazzi durante il ventennio fascista, Franco Angeli, Milano 2016.
  • G. Ciaramelli (a cura di), Bibliografia dei periodici mantovani, 1898-1945, Bibliografica, XXII, Milano 1993.
  • M. Colin, L’Afrique pour l’enfance: aventures et colonialisme dans les livres pour l’enfance et la jeunesse de l’Italie libérale, in M. Colin, E.R. Laforgia (a cura di), L’Afrique coloniale et postcoloniale dans la culture, la littérature et la société italiennes, Presses Universitaires de Caen, Caen 2003, pp. 63-82.
  • M. Colin, E.R. Laforgia (a cura di), L’Afrique coloniale et postcoloniale dans la culture, la littérature et la société italiennes, Presses Universitaires de Caen, Caen 2003.
  • M. Colin, L’âge d’or de la litterature d’enfance et de jeunesse italienne. Des origines au fascisme, Presses Universitaires de Caen, Caen 2005.
  • M. Colin, I bambini di Mussolini. Letteratura, libri, letture per l’infanzia sotto il fascismo, Editrice La Scuola, Brescia 2012, (prima edizione con il titolo Les enfants de Mussolini. Littérature, livres, lectures d’enfance et de jeunesse sous le fascisme, Presses Universitaires de Caen, Caen 2010).
  • R. Davy Gabrielli, Gente d’Africa. Racconto per i giovani, Bemporad, Firenze 1934.
  • G. Fanciulli, E. Monaci Guidotti, La letteratura per l’infanzia, SEI, Torino 1937.
  • L. Finocchi, A. Gigli Marchetti (a cura di), Editori e piccoli lettori, Franco Angeli, Milano 2004.
  • Il libro di Stato per le scuole elementari, «Annali dell’istruzione elementare», a. V, n. 2, aprile 1930.
  • E. R. Laforgia, Il colonialismo spiegato ai fanciulli, in L. Finocchi e A. Gigli Marchetti (a cura di), Editori e piccoli lettori, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 210-239.
  • E. R. Laforgia, Fare gli imperialisti. Il tema coloniale nel libro unico di Stato per le scuole elementari, in M. Castoldi (a cura di). Piccoli eroi. Libri e scrittori per ragazzi durante il ventennio fascista, Franco Angeli, Milano 2016.
  • M. Mastropaolo, Panorama della letteratura infantile, Marzocco, Firenze 1947.
  • Ministero dell’educazione nazionale, Il libro nella scuola. Letture individuali e letture collettive, Arti Grafiche Palombi, Roma 1941.
  • Ministero della pubblica istruzione, Bollettino Ufficiale, parte I, Leggi, regolamenti e altre disposizioni generali, n. 4, 22 gennaio 1929, Libreria dello Stato, Roma.
  • M. Nani, Ai confini della nazione, Carocci, Roma 2006.
  • Ruata, Le malattie mentali della razza negra, in «Giornale di psichiatria clinica e tecnica manicomiale», 1907.
  • G. Scotto di Luzio, L’appropriazione imperfetta. Editori, biblioteche e libri per ragazzi durante il fascismo, Il Mulino, Bologna 1996.
  • P. A. Taguieff, La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull’antirazzismo, Il Mulino, Bologna 1994 (Ed. originale La force du préjugé, Editions La Découverte, Paris 1987).
  • T. Todorov, La paura dei barbari. Oltre lo scontro di civiltà, Garzanti, Milano 2009 (Ed. originale La peur des barbares, Éditions Robert Laffont, Paris 2008).

 


Note:

[1] P. A. Taguieff , La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull’antirazzismo, Il Mulino, Bologna 1994 (Ed. originale La force du préjugé, Editions La Découverte, Paris 1987).

[2] Taguieff 1987, p. 289. Per una vasta bibliografia ragionata sugli atteggiamenti e i pregiudizi, frutto principalmente degli studi americani di psicologia sociale, si rimanda nello stesso volume alla nota 12, pp. 348-351.

[3] Taguieff 1987, p. 302.

[4] Taguieff 1987, p. 306.

[5] Taguieff 1987, pp. 302-314.

[6] G. Ciaramelli (a cura di), Bibliografia dei periodici mantovani, 1898-1945, Bibliografica, XXII, Milano 1993, schede nn. 331-332, pp. 196-198.

[7] Dopo vari passaggi volti ad “adultizzare” progressivamente l’abbigliamento dei bambini, i balilla e le piccole italiane comparvero ai lati della testata dal numero 5 del secondo anno, pubblicato nel marzo del 1927. Anche la rubrica di piccoli lavori di cucina, cucito e bricolage dedicata alle bambine, già presente ne «Lo scolaretto mantovano», vide una pesante e regressiva caratterizzazione di genere. Intitolata «La piccola massaia», era tristemente illustrata da Minuti con una bambina in ciabatte, gonna a quadretti, lungo grembiule, capelli raccolti in un fazzoletto annodato sulla nuca e ramazza in mano: una piccola Cenerentola con scarse possibilità di riscatto.

[8] Il programma de «Lo scolaro mantovano», editoriale, anno I, n. 1, novembre 1925

[9] M. Colin, I bambini di Mussolini. Letteratura, libri, letture per l’infanzia sotto il fascismo, Editrice La Scuola, Brescia 2012, p. 5 (prima edizione con il titolo Les enfants de Mussolini. Littérature, livres, lectures d’enfance et de jeunesse sous le fascisme, Caen, Presses Universitaires de Caen, 2010); sull’«età aurea» e l’«età nera» cfr. M. Colin, L’âge d’or de la litterature d’enfance et de jeunesse italienne. Des origines au fascisme, Caen, Presses Universitaires de Caen, 2005.

[10] M. Mastropaolo, Panorama della letteratura infantile, Marzocco, Firenze 1947, p. 166. La citazione è in M. Colin, I bambini di Mussolini, cit. p. 6.

[11] V. Campogrande, E. Passamonti, Roma luce del mondo. Nozioni di cultura fascista, Lattes, Torino 1930, p. 122. La citazione è in M. Colin, I bambini di Mussolini, cit. p. 6.

[12] Dal 1927, sulla copertina apparvero il fascio littorio e la dichiarazione che la pubblicazione, premiata con diploma d’onore e medaglia di bronzo del Ministero della Pubblica Istruzione, avveniva sotto gli auspici dell’Associazione provinciale fascista scuola primaria e del Comitato provinciale dell’Opera nazionale Balilla («Lo scolaro mantovano», III, n.1, ottobre 1927).

[13]  Ministero dell’educazione nazionale, Il libro nella scuola. Letture individuali e letture collettive, Arti Grafiche Palombi, Roma 1941, pp. 3 ss.

[14] M. Colin, I bambini di Mussolini, cit. p. 7.

[15] Fanciulli G. e Monaci Guidotti E., La letteratura per l’infanzia, Torino, SEI, 1937, p. 315.

[16] I nomi delle mogli dei due italiani non sono mai citati; le figure femminili che compaiono nella storia hanno un ruolo puramente esornativo.

[17] P. Bertulazzi, Nel paese dei Bakele, in «Lo scolaro mantovano», III, n. 1 (ottobre 1927), pp. 5-6.

[18] Bertulazzi 1927, Nel paese dei Bakele, cit., III, n. 2 (novembre 1927), pp. 3-5.

[19] G. Ruata, Le malattie mentali della razza negra, in «Giornale di psichiatria clinica e tecnica manicomiale»,1907, pp. 260-268.

[20] L’autore precisa sarcasticamente che i templi «non erano altro che capanne di cannicci».

[21] P. Bertulazzi, Nel paese dei Bakele, cit., III, n. 4 (gennaio 1928, VI), pp. 5-6.

[22] P. Bertulazzi, Nel paese dei Bakele, cit., III, n. 5 (febbraio 1928, VI E.F.), pp. 6-9.

[23] P. Bertulazzi, Nel paese dei Bakele, cit., III, n. 7 (aprile 1928, VI E.F.), p. 4.

[24] P. Bertulazzi, Nel paese dei Bakele, cit., III, n. 7 (aprile 1928, VI E.F.), p. 5.

[25] P. Bertulazzi, Nel paese dei Bakele, cit., III, n. 8 (maggio 1928, VI E.F.), p. 5.

[26] Bertulazzi 1928: la similitudine richiama la notissima cartolina illustrata da Enrico De Seta in cui il disegnatore, alcuni anni dopo, a proposito degli armamenti per le truppe italiane in Africa, indica lo spruzzatore di insetticida come «l’arma più appropriata» (Enrico De Seta, Serie di cartoline umoristiche disegnate ad uso delle truppe italiane dell’Africa Orientale, Edizioni d’Arte Boeri, Milano 1935-36). Ancor più drammaticamente, questo ricorda ai lettori di oggi l’arma letale dei gas chimici utilizzati per l’annientamento della resistenza indigena.

[27] P. Bertulazzi, Nel paese dei Bakele, cit., III, n. 8 (maggio 1928, VI E.F.), p. 5.

[28] P. Bertulazzi, Nel paese dei Bakele, cit., III, n. 8 (maggio 1928, VI E.F.), p. 6.

[29] P. Bertulazzi, Nel paese dei Bakele, cit., III, n. 8 (maggio 1928, VI E.F.), p. 6.

[30] P. Bertulazzi, Nel paese dei Bakele, cit., III, n. 8 (maggio 1928, VI E.F.), p. 8.

[31] E. R. Laforgia E. R., Fare gli imperialisti. Il tema coloniale nel libro unico di Stato per le scuole elementari, in M. Castoldi (a cura di) Piccoli eroi. Libri e scrittori per ragazzi durante il ventennio fascista, Franco Angeli, Milano 2016, p. 23.

[32] Ministero della  Pubblica Istruzione, Bollettino Ufficiale, parte I, Leggi, regolamenti e altre disposizioni generali, n. 4, 22 gennaio 1929, Libreria dello Stato, Roma, pp. 226-227.

[33] E. R. Laforgia, Fare gli imperialisti, cit., p. 26.

[34]  Il libro di Stato per le scuole elementari, «Annali dell’istruzione elementare», a. V, n. 2, aprile 1930, p.5.

[35] M. Colin, I bambini di Mussolini, cit. p. 332. Si veda anche la bibliografia citata dall’autrice alla nota 40: M.Colin, L’Afrique pour l’enfance: aventures et colonialisme dans les livres pour l’enfance et la jeunesse de l’Italie libérale, in  M. Colin e E.R. Laforgia (a cura di), L’Afrique coloniale et postcoloniale dans la culture, la littérature et la société italiennes, Presses Universitaires de Caen, Caen 2003, pp. 63-82; E. R. Laforgia, Il colonialismo spiegato ai fanciulli, in  L. Finocchi, A. Gigli Marchetti (a cura di), Editori e piccoli lettori, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 210-239.

[36] E. R. Laforgia, Fare gli imperialisti, cit., p. 32.

[37] M. Brignani, Colonialismo e tutela della razza, Novecento.org, n.4, giugno 2015, DOI: 10.12977nov.78

[38] M. Nani, Ai confini della nazione, Carocci, Roma 2006.

[39] L. Benevelli,  La psichiatria coloniale italiana negli anni dell’Impero (1936-1941), Biblioteca di antropologia medica, 7, Argo, Corte dell’Idume (Le) 2010.

[40] Nani 2006, Ai confini della nazione, cit.

[41] M. Colin, I bambini di Mussolini, cit. p. 332.

[42] M. Colin, I bambini di Mussolini, cit. p. 332.

[43] A. Scotto di Luzio, L’appropriazione imperfetta. Editori, biblioteche e libri per ragazzi durante il fascismo,  Il Mulino, Bologna 1996, p. 217.

[44] R. Davy Gabrielli, Gente d’Africa. Racconto per i giovani, Bemporad, Firenze 1934, p. 255 (citato in M. Colin, I bambini di Mussolini, cit. p. 341).