Pane e carbone. L’emigrazione italiana in Belgio nel decennio 1946-1956
La rampa della miniera al Bois du Caizeir (Marcinelle) il giorno dopo l’incidente in cui morirono 262 minatori, di cui 136 italiani. Foto di Wim van Rossem / Anefo – http://proxy.handle.net/10648/a94d2a18-d0b4-102d-bcf8-003048976d84, CC0, Collegamento
Testo esperto con bibliografia
Ricostruzione ed «emigrazione assistita» nel secondo dopoguerra
Imparate una lingua e andate all’estero[1]. Anche senza questa ben nota raccomandazione di Alcide De Gasperi, la ripresa dell’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra si sarebbe imposta come una «necessità vitale» per un paese uscito dalla guerra sconfitto ed economicamente in ginocchio. La prima grande ondata migratoria dell’Italia contemporanea – la cosiddetta «grande emigrazione» (1880-1930) – si era svolta al di fuori di un’organizzazione istituzionalizzata ed era stata contrassegnata, almeno nella prima fase, da una certa libertà di movimento. I flussi migratori che riprendono dopo la fine del secondo conflitto avvengono invece in un contesto fortemente dirigista e in un quadro di accordi bilaterali che tendono ad una rigida pianificazione degli spostamenti della forza lavoro. È lo stesso governo italiano che nel 1948, nel presentare il programma economico di ricostruzione secondo gli obiettivi del Piano Marshall, decide di puntare sull’esportazione di manodopera come misura di contenimento della disoccupazione, allora molto alta, e come ammortizzatore della conflittualità sociale del paese [Franzina 2001, 403; Colucci 2008, 231]. Il governo, e segnatamente l’esecutivo democristiano a guida De Gasperi, considerava l’emigrazione come la principale leva economica della ricostruzione, come si evince dall’intervento conclusivo tenuto dallo stesso De Gasperi al III° Congresso nazionale della DC nel giugno del 1949: in questa assemblea lo statista si spinge a dire di essere pronto a rinunciare agli aiuti degli americani in cambio della libertà di far emigrare i disoccupati italiani, perché i soldi delle rimesse sarebbero arrivati subito, mentre i piani di sviluppo del Piano Marshall avrebbero dato dei benefici economici in tempi molto più lunghi. L’allora Primo ministro «auspica a questo fine una collaborazione internazionale che apra ai lavoratori italiani i mercati del lavoro esteri» [Morandi 2011, 46]. All’esubero di manodopera italiana corrispondeva una carenza di lavoratori nei paesi di immigrazione: proprio su questo bisogno di braccia a basso costo da parte dei paesi d’oltralpe poggia la convinzione dei governi italiani di poter esportare la forza lavoro inutilizzata in patria laddove maggiore era la domanda, in Svizzera, Francia, Gran Bretagna, e nel paese che qui ci interessa, il Belgio.
Come quello verso le altre nazioni sopra menzionate, anche il movimento di lavoratori verso il Belgio fu una migrazione «assistita» le cui condizioni vengono stabilite da accordi bilaterali tra l’Italia e il paese di destinazione.
L’accordo minatori – carbone
Il trattato con il Belgio, siglato nel giugno del 1946, prevedeva che i lavoratori italiani venissero destinati al lavoro nelle miniere di carbone e assicurava all’Italia una determinata quantità di carbone per ogni minatore inviato in Belgio. Questo aspetto dell’accordo «minatori vs carbone» – il trattato parla testualmente di «accordo minatori-carbone» – è fra i più controversi perché, equiparando i lavoratori ad una merce, scambiata con altra merce, ha indotto molti minatori italiani a definirsi «deportati economici, venduti dall’Italia per qualche sacco di carbone» [Franzina 2002, 168]. Oltre a questa questione il trattato si occupava di tutti gli altri aspetti del reclutamento e regolava le procedure di immigrazione fin nel dettaglio. Tanto da parte italiana quanto da parte delle autorità belghe si preferiva tacere invece sulle condizioni di vita che attendevano gli operai italiani destinati all’industria estrattiva del Belgio, le cui strutture erano ormai irrimediabilmente invecchiate.
La crisi dell’industria mineraria belga e la «battaglia del carbone»
All’indomani della seconda guerra mondiale l’apparato minerario della Vallonia (la regione industriale del Belgio meridionale, dove avevano sede i principali bacini carboniferi del paese), caratterizzato da strutture vecchie e pericolose e non in grado di reggere la concorrenza dei paesi circostanti, era ormai in declino e poteva sostenersi solo grazie agli aiuti di Stato [Cumoli 2009, 3].
Nonostante la loro irreversibile crisi, gli impianti estrattivi del Belgio si stavano preparando ad uno sforzo produttivo senza precedenti. Almeno due fattori spiegano questa apparente contraddizione: l’aumento della domanda di carbone per sostenere i bisogni della ricostruzione postbellica, in Belgio e in altri paesi europei, e la scelta del governo belga di tenere basso il prezzo di vendita del minerale, stimolandone ulteriormente la domanda. Così, sotto la spinta di una richiesta di combustibile in aumento, gli industriali del carbone avevano preferito rinviare la modernizzazione e il rinnovamento delle miniere, mantenendo in attività i vecchi impianti, sebbene logori e arretrati.
Nonostante la «battaglia del carbone», lanciata nel 1945 dal Primo ministro belga con l’intento di convincere i suoi concittadini a tornare in miniera, i belgi non erano più disposti a scendere nelle viscere della terra e si erano rivolti verso lavori meno duri e pericolosi.
La carenza di manodopera autoctona aveva spinto il governo belga a tentare diverse soluzioni: scartata l’ipotesi di utilizzare i prigionieri di guerra tedeschi, ci si rivolse al reclutamento di lavoratori da paesi stranieri, in primo luogo dall’Italia. Con il nostro paese venne firmato il già ricordato accordo bilaterale del 1946, anno in cui si apre ufficialmente l’emigrazione italiana verso il Belgio nel dopoguerra.
Il reclutamento degli aspiranti minatori
Le pratiche del reclutamento esplicitamente previste nell’accordo non sono diverse da quelle dei protocolli firmati con altri paesi: il fabbisogno di manodopera italiana nell’industria mineraria belga era fissato in 50.000 lavoratori (da trasferire in Belgio in numero di 2.000 alla settimana), con un’età massima di 35 anni e in buono stato di salute. Ufficialmente la «filiera» del reclutamento era la seguente: i datori di lavoro belgi inviavano le offerte di impiego al Ministero del lavoro italiano che le trasmetteva agli uffici di collocamento dei comuni. Qui le offerte di lavoro erano pubblicizzate da allettanti manifesti, affissi sulle piazze e nei bar di tutta la Penisola, che invitavano a partire per le miniere del Belgio e prospettavano al futuro emigrante favorevoli condizioni di lavoro e di alloggio. Una volta individuato il candidato, iniziava la trafila delle visite mediche: la prima presso l’Ufficio sanitario del comune di residenza, da dove i futuri migranti erano poi inviati presso l’Ufficio provinciale del lavoro per un’ulteriore visita di controllo. I candidati ritenuti idonei erano trasferiti al Centro per l’emigrazione in Belgio di Milano, situato nei locali di un’ex caserma a Piazza Sant’Ambrogio, dove erano sottoposti alla selezione definitiva da parte della Commissione belga per l’immigrazione e al controllo incrociato della polizia belga e italiana. Proprio quest’ultima selezione rappresentava una questione particolarmente delicata, che evidenzia lo squilibrio su cui erano costruiti gli accordi bilaterali, a svantaggio del paese d’emigrazione e dei suoi lavoratori. Se teoricamente la polizia belga non poteva operare nessuna selezione tra le file dei candidati, nella realtà molti braccianti che avevano partecipato alle lotte agrarie e all’occupazione delle terre vennero respinti come «indesiderabili» [Franzina 2002, 166]; allo stesso modo, almeno fino a una certa data, la Fédéchar (Federazione delle compagnie belghe del carbone) continuò a preferire i lavoratori dell’Italia settentrionale, considerati, secondo triti stereotipi, «più assidui, più laboriosi, più disciplinati» rispetto ai colleghi meridionali [Cumoli 2009, 10]. Dato che queste pratiche di selezione non erano previste dagli accordi ed erano sopportate dalle autorità italiane «a denti stretti per non mettere a repentaglio tutta l’emigrazione» [Morandi 2011, 57], a questo reclutamento «istituzionale» si affiancò presto un sistema parallelo di ingaggio, organizzato direttamente dalle singole miniere. Le compagnie carbonifere reclutavano la forza lavoro a loro più congeniale – candidati politicamente inoffensivi ed originari di regioni precise – direttamente nei comuni, attraverso il filtro delle reti parrocchiali e una rete di trafficanti di migranti. Quale che fosse stato il metodo di ingaggio, una volta superata la selezione al Centro di emigrazione di Milano, gli emigranti erano accompagnati sui treni diretti in Belgio, alla stazione di Namur, nel cuore dei bacini carboniferi del paese. Una volta arrivati alla miniera loro destinata, i nuovi immigrati erano sottoposti ad un ultimo esame da parte del responsabile medico della miniera e, se dichiarati inadatti al lavoro sotterraneo, venivano destinati ad altri settori o, più spesso, rimpatriati. Agli idonei veniva invece rilasciato un permesso di lavoro – della durata di un anno, rinnovabile – che vincolava il lavoratore a cinque anni di attività ininterrotta nel settore minerario, pena l’espulsione.
Le difficili condizioni di vita e di lavoro dei minatori
Se le traversie per essere assunti nei distretti carboniferi erano lunghe e accidentate, non meno traumatico era per molti lavoratori l’impatto con la miniera, con il «lavoro di fondo» talvolta a più di mille metri di profondità. L’inesperienza, la mancanza di un periodo di formazione e l’ignoranza delle reali condizioni in cui avrebbero dovuto lavorare rendevano particolarmente traumatica la prima discesa al fondo, tanto che non erano pochi quelli che si rifiutavano di scendere[2]. Anche il salario era nettamente inferiore a quello sperato e promesso nell’accordo bilaterale, perché una parte era legata al lavoro a cottimo, il che tra l’altro, costringendo i minatori a risparmiare tempo, li spingeva a tralasciare le procedure di sicurezza e ad esporsi al rischio di incidenti[3]. La mancata osservanza di quanto previsto e promesso dagli accordi bilaterali fu all’origine di un numero molto alto di rimpatri [De Clementi 2010, 155].
Anche per quanto riguarda le condizioni di vita dei lavoratori, le promesse di «convenienti alloggi» propagandate dagli accordi rimasero deluse: gli immigrati vennero ospitati nelle baracche di ex campi di concentramento, prive di elettricità e con i servizi igienici all’aperto.
La tragedia di Marcinelle, una miniera obsoleta e pericolosa
Le difficili condizioni di lavoro e l’assenza di adeguate misure di sicurezza provocarono moltissimi incidenti e veri e propri disastri. Il più grave avvenne nella miniera di carbone del Bois du Cazier, nel bacino carbonifero di Charleroi, nei pressi della cittadina belga di Marcinelle. Come gran parte delle miniere della Vallonia, anche quella di Marcinelle presentava strutture vecchie e malandate, tanto che già dagli anni Venti si discuteva di una possibile chiusura del sito. L’aumento della domanda di carbone e l’arrivo di manodopera straniera a basso costo consigliarono agli industriali di sfruttare al massimo gli impianti, rinviando ad altro tempo il loro ammodernamento e la loro messa in sicurezza. All’epoca dell’incidente le armature del Bois du Cazier erano ancora in legno, i cavi elettrici erano collocati in punti pericolosi, mancavano i mezzi estintori e non esistevano né vie di fuga né porte stagne.
In questa struttura obsoleta l’incendio, scoppiato l’8 agosto 1956, divampò inarrestabile e non lasciò scampo: morirono 262 operai di dodici nazionalità, tra cui 136 italiani. La tragedia di Marcinelle segnò la fine dell’emigrazione ufficiale dall’Italia e le potenti società minerarie belghe rivolsero ad altri la loro offerta di «condizioni particolarmente vantaggiose», spingendo il governo a stipulare accordi con paesi economicamente ancora più deboli del nostro, la Spagna, la Grecia, il Marocco, la Turchia.
Lo stillicidio di incidenti mortali e il rischio silicosi
La catastrofe di Marcinelle fu di dimensioni eccezionali, ma gli incidenti mortali erano assai frequenti nell’ambiente delle miniere: si calcola che prima di Marcinelle, nel decennio 1946-1956, fossero già morti in Belgio ben 520 lavoratori italiani e questa lunga sequela di morti aveva reso ben consapevoli i minatori della pericolosità del loro lavoro [Colucci 2008, 12]. Ben pochi invece furono coscienti che respirare per anni l’aria intrisa di polvere di carbone esponeva al rischio di contrarre la silicosi, una malattia professionale particolarmente grave che può rimanere latente anche per molto tempo e dalla prognosi spesso infausta [Franzina 2002, 166, 169].
Macaronì, uno stereotipo sugli immigrati italiani
Non mancò da parte dell’opinione pubblica belga un certo disprezzo nei confronti degli italiani, a cui fu inflitta l’etichetta dispregiativa di macaronì (così come, qualche decennio dopo, agli immigrati italiani nei paesi di lingua tedesca fu attribuita quella di Spaghettifresser). Questo preconcetto nei confronti dell’emigrazione italiana venne parzialmente superato dopo l’8 agosto del 1956, giorno della strage di Marcinelle: in una tragedia nella quale famiglie italiane e belghe si trovarono accomunate dallo stesso lutto, ci si rese improvvisamente conto che lo sviluppo economico di un intero paese poggiava anche sul lavoro di moltissimi italiani, veri e propri «schiavi del carbone».
Bibliografia essenziale
- Bevilacqua P., De Clementi A. e Franzina E. (acd) 2001, Storia dell’emigrazione italiana, I, Partenze, Roma: Donzelli
- Bevilacqua P., De Clementi A. e Franzina E. (acd) 2002, Storia dell’emigrazione italiana, II, Arrivi, Roma: Donzelli
- Colucci M. 2008, Lavoro in movimento. L’emigrazione italiana in Europa, 1945-1957, Roma: Donzelli
- Cumoli F. 2009, Dai campi al sottosuolo. Reclutamento e strategie di adattamento al lavoro dei minatori italiani in Belgio, «Storicamente», 5, no. 6
- De Clementi A. 2010, Il prezzo della ricostruzione. L’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra, Roma-Bari: Laterza
- Di Stefano P. 2008, La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956, Milano: Corriere della Sera
- Morandi E. 2011, Governare l’emigrazione. Lavoratori italiani verso la Germania nel secondo dopoguerra, Torino: Rosenberg & Sellier
- Ricciardi T. 2016, Marcinelle 1956. Quando la vita valeva meno del carbone, Roma: Donzelli
Sitografia essenziale
- Accordo italo-belga del 1946 [http://legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/ddl/42nc.pdf]
- Manifesto per il reclutamento di minatori [http://www.laricerca.loescher.it/storia-e-geografia/1678-uomini-per-carbone-l-emigrazione-dall-italia-al-belgio-nel-dopoguerra.html]
- Intervista a Lucio Parrotto, minatore in Belgio, Rai3, La Grande Storia, 29.1.2018, Italiani con la valigia [https://www.raiplay.it/video/2018/01/La-Grande-Storia—Italiani-con-la-valigia-c8e341da-f705-4a0f-baff-beb73c412d6b.html]
- Intervista allo storico Toni Ricciardi [http://www.radiopopolare.it/2016/08/toni-ricciardi-marcinelle-60-anni-fa-minatori-italiani-in-belgio-in-cambio-di-carb]
- Intervento di De Gasperi al III° Congresso nazionale della DC [http://www.storiadc.it/doc/1949_03congr_degasperi.html]
Testo per gli allievi
Pane e carbone: l’emigrazione italiana in Belgio nel decennio 1946-1956
L’Italia, uscita sconfitta dalla guerra, nel 1946 era un paese semidistrutto e con un tasso di disoccupazione molto alto. Gli italiani andavano via, a cercare lavoro. Svizzera, Francia, Gran Bretagna erano le mete preferite. Anche il Belgio era una meta dell’emigrazione italiana. Qui c’erano miniere di carbone, e questo è un combustibile indispensabile per la ricostruzione postbellica. La sua estrazione avveniva in impianti obsoleti e pericolosi. Gli operai belgi non erano più disposti a scendere in miniera. Il Belgio, dunque, aveva bisogno di importare manodopera dall’estero.
Il governo italiano concordò con il Belgio le modalità di questa emigrazione. Pianificò i flussi: 50 mila lavoratori in tutto, al ritmo di duemila la settimana. Stabilì – sempre in accordo col Belgio – una procedura rigorosa, per reclutare la forza lavoro. In cambio, il Belgio si impegnava a fornire all’Italia un certo quantitativo di carbone (in realtà questa promessa non venne mantenuta). Non era, dunque, una migrazione spontanea: era una «migrazione assistita». All’Italia conveniva. Da una parte, dava lavoro a tanti italiani; dall’altra, le rimesse (cioè il denaro che gli emigranti mandavano alle loro famiglie) giungevano subito in Italia, a differenza – per esempio – degli aiuti del Piano Marshall, con il quale gli americani cercavano di far ripartire le economie dei paesi occidentali, distrutte dalla guerra.
Al momento del reclutamento agli aspiranti minatori non venivano spiegate per bene le reali condizioni di lavoro. Inoltre, una volta arrivati in Belgio, non era previsto alcun periodo di formazione. Molti operai, perciò, dopo lo shock della prima discesa in miniera, a mille metri di profondità, si rifiutavano di scendere ancora e chiedevano di essere rimpatriati. All’operaio che stracciava il contratto veniva riservato lo stesso trattamento dei prigionieri di guerra. Veniva trattenuto in carcere per giorni; era privato dei suoi effetti personali; poi era caricato sul treno speciale con foglio di via (=ordine di rimpatrio con divieto di ritornare). Così, al flusso continuo di arrivi nei distretti carboniferi belgi corrispondeva un numero abbastanza elevato di rimpatri. E di ciò le autorità belghe si lamentarono più volte con il governo italiano.
I minatori e le rispettive famiglie vivevano nelle baracche di ex campi di concentramento, in condizioni molto diverse da quelle promesse dalle campagne di reclutamento, senza acqua, gas ed elettricità, e in molti casi circondati da colline di carbone, discariche a cielo aperto dei detriti e dei resti del materiale scavato. I belgi manifestavano una certa diffidenza nei confronti degli italiani. Li chiamavano con disprezzo macaronì, dalla pasta che gli italiani erano abituati a mangiare (e che i belgi allora non conoscevano).
Nel ‘51 il Belgio entrò nella CECA[4]. Perciò, l’industria mineraria belga dovette affrontare la concorrenza diretta del carbone proveniente dall’estero. Questo fatto, insieme alla crescita della domanda di altri combustibili fossili, come il petrolio, determinò il declino dell’attività estrattiva belga e un rapido calo delle partenze di operai dall’Italia. Queste terminarono dopo l’incendio scoppiato nella miniera di Bois du Cazier, nel bacino carbonifero di Charleroi, nei pressi della cittadina di Marcinelle, l’8 agosto del 1956. Una tragedia che costò la vita a 262 lavoratori di dodici nazionalità, tra cui 136 italiani. Marcinelle segnò la fine dell’emigrazione assistita verso il Belgio. Gli accordi furono sospesi e da allora gli italiani emigrarono in Belgio esclusivamente per iniziativa personale.
Dossier
Documento 1
Accordo italo-belga del 1946
La Conferenza che ha riunito a Roma i Delegati del Governo italiano e del Governo belga per trattare del trasferimento di 50.000 lavoratori nelle miniere belghe, è giunta alle seguenti conclusioni:
1) Il Governo italiano, nella convinzione che il buon esito dell’operazione possa stabilire rapporti sempre più cordiali col Governo belga e dare la dimostrazione al mondo della volontà dell’Italia di contribuire alla ripresa economica dell’Europa, farà tutto il possibile per la riuscita del piano in progetto. […]
2) Il Governo belga mantiene integralmente i termini dell’«accordo minatori-carbone» firmato precedentemente.Esso affretterà, per quanto è possibile, l’invio in Italia delle quantità di carbone previste dall’accordo.
3) Il governo belga curerà che le aziende carbonifere garantiscano ai lavoratori italiani convenienti alloggi in conformità delle prescrizioni dell’art. 9 del contratto tipo di lavoro; un vitto rispondente, per quanto possibile, alle loro abitudini alimentari nel quadro del razionamento belga; condizioni di lavoro, provvidenze sociali e salari sulle medesime basi di quelle stabilite per i minatori belgi. […]
5) Il Governo italiano si adoprerà a che gli aspiranti all’espatrio in qualità di minatori siano, nel miglior modo, edotti di quanto li concerne, attirando, in particolar modo, la loro attenzione sul fatto che essi saranno destinati ad un lavoro di profondità nelle miniere, pel quale sono necessarie un’età relativamente ancor giovane (35 al massimo) e un buono stato di salute.
6) La durata del contratto è riportata a 12 mesi. […]
11) Il Governo italiano farà tutto il possibile per inviare in Belgio 2.000 lavoratori la settimana.
Fonte: Assemblea Costituente, Disegno di Legge n. 42/1946http://legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/ddl/42nc.pdf
Documento 2
Stralcio del rapporto dell’ambasciata d’Italia in Bruxelles
I piroscafi che noi mandiamo ad Anversa restano all’ancora 15 o 20 giorni e poi talvolta ripartono senza aver potuto caricare. Il colmo di questa situazione è che una buona parte del carbone belga viene estratto proprio da operai italiani.Se la manodopera italiana è indispensabile all’economia belga, il carbone e il rame belgi sono indispensabili all’economia italiana e non vi è ragione che la nostra fornitura di manodopera non venga posta su un piano di reciprocità con le forniture belghe all’Italia.
Fonte: Ricciardi T. 2016, Marcinelle 1956. Quando la vita valeva meno del carbone, Roma: Donzelli, 162
Documento 3
Manifesto per il reclutamento di minatori
Fonte: Labbate M. 2018, Uomini per carbone, «La ricerca», 11 gennaio,
Documento 4
I vantaggi dell’emigrazione per l’Italia
La Direzione per l’emigrazione del Ministero degli Esteri – stimando che il surplus strutturale di manodopera s’aggirasse intorno ai 4 milioni (2 milioni di sottoccupati oltre ai 2 milioni di disoccupati ufficiali) – riteneva indispensabile un’emigrazione «di portata la più vasta possibile», e comunque ben al di là delle previsioni correnti. La sua urgenza era messa in relazione non solo all’importanza finanziaria delle rimesse per l’equilibrio di bilancio, ma, ben più estesamente, alla «viabilità» dell’assetto politico-sociale (*): una minore disoccupazione e un più alto tenore di vita avrebbero diminuito i conflitti sociali e stabilizzato il consenso politico.
Fonte: Bevilacqua P., De Clementi A. e Franzina E. (acd) 2001, Storia dell’emigrazione italiana, I, Partenze, Roma: Donzelli, 403
(*) viabilità: qui indica la tenuta dell’assetto politico-sociale, la necessità di ridurre il disagio socio-economico perché diminuissero i conflitti e le tensioni sociali.
Documento 5
Intervista ad un minatore italiano in Belgio
1.
Ho lavorato trent’anni nelle miniere di carbone. Cioè abbiamo lavorato per trent’anni insieme ai topi, perché sotto la miniera era pieno di topi, però nello stesso tempo era proibito ammazzare i topi, perché gli ingegneri, i direttori ci avevano spiegato direttamente che in caso di pericolo, in caso di grisù, di gas, il topo scappava via, e il topo scappava via, andava sempre nella parte dove c’è un po’ di aria. E allora ci avevano spiegato gli ingegneri che noi dovevamo seguire i topi.
2.
Io mi ricordo benissimo che avevo vent’anni quando son partito. A Milano nella Caserma Sant’Ambrogio, là erano presenti i dottori italiani e i dottori belgi; siamo rimasti per tre giorni e due notti nella Caserma Sant’Ambrogio a Milano per passare le visite. Io ho visto tanti di quei miei compagni piangere perché non erano stati idonei al duro lavoro delle miniere e dovevano tornare indietro, malgrado che in quei tempi qualcuno avesse venduto anche i lenzuoli e le coperte per poter affrontare quel viaggio della disperazione.
3.
Il primo giorno che siamo scesi sottoterra francamente c’è stato un po’ di brivido, specialmente quando siamo entrati nell’ascensore. Io mi ricordo ci stava un friulano e ha chiesto all’ingegnere:
– Io devo entrare lì dentro?
Ha detto – Sì.
– E quella corda quanto è lunga?
– Quella corda è lunga 1.500 metri
Ha preso la lampa, l’ha consegnata all’ingegnere e ha detto:
– Tieni, se vuoi scendere scendi te, che io non scendo.
Fonte: intervista a Lucio Parrotto, minatore in Belgio, Rai3, La Grande Storia, 29.1.2018, Italiani con la valigia,
Documento 6
Il problema dei rimpatri
a.
Complessivamente, dall’aprile del 1946 al 30 giugno 1950, dal centro emigrazione di Milano partirono 83.012 minatori, ai quali vanno aggiunti 21.426 familiari, per un totale di 104.438 persone. Nello stesso periodo si registrarono – solo per quelli transitati e controllati dal centro – quasi 30.000 rimpatri.
b.
Da parte italiana fu fatto rilevare come i rimpatri fossero composti da un terzo di ammalati, un terzo di scarti durante l’ultima visita appena giunti in Belgio e un terzo di scontenti. Il nodo era il duro lavoro nel fondo della miniera che in molti si rifiutavano di fare.
c.
Dopo le prime ore in fondo alla mina, in media 250-500 minatori – un quarto, se non a volte la metà dell’intero contingente arrivato – stracciavano il contratto chiedendo a tutti i costi di essere destinati ad altra occupazione se non addirittura di essere rimpatriati immediatamente.
Per esempio, un gruppo di sette operai provenienti dalla provincia di Chieti, nel febbraio del 1952, dopo aver preso visione solo in superficie della miniera, dichiarò di non voler nemmeno scendere nel fondo e chiese di essere rimpatriato in Italia. Il delegato che li accompagnava provò in tutti i modi a persuaderli, ma non ci fu verso. I sette dichiararono all’ufficio provinciale di Chieti che nessuno aveva detto loro che dovevano lavorare in fondo alla miniera, né aveva spiegato in cosa consistesse il lavoro.
[…] divenne prassi, non prevista in nessuno degli accordi – e le strutture organizzative italiane si guardarono bene dal diffonderne notizia -, quella di fare «soggiornare» in carcere quanti si rifiutavano di scendere in fondo alla mina […] Infine, trascorsi i dieci o più giorni, chi, nonostante il trattamento rieducativo, continuava a rifiutarsi di ritornare in fondo a scavare carbone veniva scortato in un convoglio per detenuti in una delle stazioni di Bruxelles e, dopo aver rilevato le impronte digitali, era caricato sul treno speciale con tanto di foglio di via.
Fonte: Ricciardi T. 2016, Marcinelle 1956. Quando la vita valeva meno del carbone, Roma: Donzelli, 56, 76, 82-84
Documento 7
Intervista allo storico Toni Ricciardi
Per molto tempo la storiografia ha raccontato il fatto che l’Italia avesse necessità di carbone per la ricostruzione. In realtà fu la geopolitica a determinare quella direttrice [lo scambio minatori-carbone]: già nell’immediato dopoguerra era chiaro a tutti che il carbone belga era di qualità scarsa e il rapporto qualità-prezzo era molto più sfavorevole rispetto a quello del carbone statunitense che con il Piano Marshall inonderà i mercati europei. Questa scelta geopolitica doveva in qualche modo dare soddisfazione ad un governo, quello belga, uscito vittorioso dalla guerra e dall’altra parte si avverte una sorta di prima punizione nei confronti dell’Italia […] L’Italia mette in piedi a partire dal ’46 il più grande sistema di esportazione di braccia che la storia occidentale ricordi, e questo è uno dei tanti paradossi della questione emigrazione: un paese che deve ricostruirsi, e che ha bisogno ovviamente di braccia per ricostruirsi, investe ingenti risorse per far sì che i suoi lavoratori lascino il territorio nazionale. Si può fare l’esempio del Centro per l’emigrazione di Napoli, uno dei principali, per costruire il quale si spesero nel 1955 un miliardo di lire dell’epoca, questo dà la dimensione di quale fu lo sforzo economico per indurre ad emigrare, tanto che negli anni ’46-’47 più della metà dei maschi italiani dichiarava, in uno dei primi sondaggi dell’epoca, di essere propensa ad emigrare.
Documento 8
Intervento di Alcide De Gasperi al III° Congresso della DC (Democrazia Cristiana)
Sono arrivato a dire ai rappresentanti dell’America che avremmo rinunciato al Piano Marshall purché ci dessero il modo di finanziare una parte almeno della nostra emigrazione, perché il Piano Marshall è lento e non arriva che dopo molto tempo ad assorbire mano d’opera.
Fonte: III° Congresso nazionale della DC, Venezia, 2-5 giugno 1949, intervento di Alcide De Gasperi
Documento 9
Le baracche del campo Saint Nicolas a Marcinelle
Fonte: Ricciardi T. 2016, Marcinelle 1956. Quando la vita valeva meno del carbone, Roma: Donzelli, illustrazione n. 10
Documento 10
Baracche come alloggi
Il minatore crede che la baracca sia una sistemazione provvisoria e invece un giorno si sorprende ad appiccicarvi le cartoline illustrate dei suoi paesi col campanile in mezzo e la campagna intorno, si sorprende a fare queste cose e allora capisce che la baracca è la sua casa, che dalla baracca o dalla «cantina» (abitazione per i minatori, in muratura, suddivisa in stanzette a due letti, umide e grigie) non si esce più. La nebbia scende sul Belgio, quel giorno, e il minatore non troverà gran differenza fra il cunicolo cinquecento metri sotterra e la baracca […]. In una baracca dentro la quale ci piove, in una baracca dove da settembre a marzo ammuffisce tutto, abita la signora Pagnan, il cui marito è morto tempo fa nella miniera «Maria José», due mesi dopo che era arrivato in Belgio […]. «Mi hanno preso il marito» diceva la donna «e adesso mi fanno lavorare un figlio di quattordici anni che chissà se reggerà».
Fonte: Sampietro N., Un italiano frutta al Belgio 390.000 lire al mese, «Epoca», 29 settembre 1951, (in Ricciardi 2016, 99-101)
Documento 11
La diffidenza verso i macaronì
Io modestamente ero un bel ragazzo alto che tutte le femmine del Belgio si voltavano modestamente a guardarmi, e dopo cinque anni che stavo qui mi sono fidanzato con una belga diciassettenne Giosefina, un pezzo di figliola da perderci la testa […]. Due mesi di fidanzamento e mi porta da suo padre, che era poliziotto a Marcinelle, e gli dice: ti presento Mariò il mio fidanzato. Il papà gli dice: Non c’erano abbastanza giovanotti belgi che sei andata a sceglierti un macaronì?
Fonte: Di Stefano P. 2008, La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956, Milano: Corriere della Sera, 26
Documento 12
Il Bois du Cazier, una miniera obsoleta e pericolosa
Molte di quelle miniere sono in agonia; il loro sfruttamento potrà durare ancora qualche anno. In tali condizioni, perché si dovrebbero rinnovar gli impianti complicati e costosi? E così i lavoratori delle miniere dovevano operare in situazioni spaventose, costretti a respirare per otto ore di seguito un’atmosfera intrisa di polvere di carbone impalpabile, invisibile, micidiale per gli occhi, per i polmoni e per il fegato e in grado di trasformarsi a lungo andare in un veleno che corrode e stronca i più robusti organismi. […] [Nel Bois du Cazier] dove venivano ancora impiegati i cavalli per il traino dei vagoncini del carbone, dove gli ascensori erano antiquati, i cavi della corrente non sufficientemente protetti e collocati in punti pericolosi, le porte che interrompevano il flusso dell’aria in legno e non in ferro.
Fonte: Ricciardi T. 2016, Marcinelle 1956. Quando la vita valeva meno del carbone, Roma: Donzelli, 111, 112
Documento 13
Il racconto della catastrofe di Marcinelle (**)
Corriamo, corriamo e in brevissimo tempo arriviamo al Cazier. La folla è tanta, non si passa, il cancello della miniera è sbarrato ed al suo interno ci sono dei gendarmi e altra gente. Con forza arriviamo ad aggrapparci al cancello per guardare meglio all’interno del piazzale. Tanti corri corri, nessuno parla mentre il cielo, ora nero, piano piano si tinge di fuoco.
Arriva anche mia zia Addolorata che è stata allertata da altre persone del Sart Saint-Nicolas (il campo dove lei abita) e dal suo arrivo non fa altro che urlare, urlare e svenire: «Mode’, Mode’, arvì alla case, ariemecene all’Italia, meje pane e cipolle che puzze de carbone» [Modesto, Modesto, torna a casa, torniamocene in Italia, meglio pane e cipolla che puzza di carbone]. Passano tante ore, nessuno parla mentre il cielo ci regala una pioggia nera e puzzolente. Tre giorni davanti al cancello, poi a casa sfinito, e dalla finestra guardo la miniera che arde ancora […] Dopo quasi una settimana arriva a casa una signorina accompagnata da un altro signore…confabula con mio zio Raffaele che intanto è venuto dalla Francia per stare a confortarci e poi entra e bacia mia mamma: «courage madame…».
Mamma sviene, la signorina gli dà uno schiaffo poi un altro e mamma rinviene e si avventa alla signorina.
Non c’è più nulla da sperare, papà Emidio non c’è più, è morto al Bois du Cazier di Marcinelle.
Fonte: Il quaderno di Nino Di Pietrantonio (in Ricciardi T. 2016, Marcinelle 1956. Quando la vita valeva meno del carbone, Roma: Donzelli, 121-123)
(**) Il padre di Nino Di Pietrantonio, Emidio, era emigrato in Belgio, da solo, da un poverissimo paese dell’Abruzzo. Era il 1947. Dopo sei anni di permanenza aveva potuto ricongiungersi alla famiglia, richiamando dall’Italia la moglie e i figli. Morì a Marcinelle, l’8 agosto del 1956. Al momento della sciagura Nino aveva dieci anni. Dopo la morte di Emidio, la sua famiglia tornò in Italia. Qui Nino imparò l’italiano ed iniziò a trascrivere in un quaderno i ricordi legati ai fatti di Marcinelle. Dalle pagine del suo quaderno è tratta la testimonianza qui riportata.
Attività didattica
CONTESTUALIZZAZIONE
L’emigrazione in Belgio nel secondo dopoguerra fa parte di un processo di trasferimento all’estero che si è ripresentato a più riprese nella storia italiana. Con l’aiuto del manuale, cerca i riferimenti ai flussi migratori dall’unità d’Italia in poi. In quali periodi si attivano maggiormente e cos’è che li scatena? C’è qualcuno che gestisce questi flussi? Ci sono momenti di rallentamento e da cosa sono determinati? Quali sono le proporzioni numeriche e quali i paesi preferiti di destinazione?
Cerca sul manuale gli eventi più importanti del decennio 1946-1956 in Italia e in Europa e costruisci una linea del tempo, avendo cura di inserire anche i due fatti citati nel testo, il Piano Marshall e l’istituzione della CECA.
L’istituzione della CECA rappresenta il primo passo verso la costruzione della attuale Unione europea. Cerca sul manuale e costruisci una sequenza dei momenti fondamentali di questo processo. Secondo te perché si è partiti dalla libera circolazione di carbone e acciaio? Quand’è che si passa dalla libera circolazione delle merci a quella delle persone?
RAPPORTO FRA TESTO E DOCUMENTI
Nel testo si afferma che gli operai belgi non erano più disposti a scendere in miniera, data la pericolosità del lavoro: individua i documenti che forniscono informazioni su questo problema.
Nel testo si parla di «shock della prima discesa»: rintraccia e sottolinea nella documentazione gli elementi che spiegano questa affermazione.
Nel testo si afferma che la “migrazione assistita” era vantaggiosa per l’Italia. Individua quali sono questi vantaggi e sottolineali con un colore a tua scolta. Cerca poi i documenti in cui si fa esplicito riferimento ad essi e sottolinea i passaggi che li confermano con lo stesso colore.
Nel documento 2 si afferma che talvolta i piroscafi “ripartono senza aver potuto caricare” il carbone. Quale delle affermazioni del testo viene confermata da questo documento?
Nel testo si afferma che ai lavoratori non venivano spiegate le reali condizioni di lavoro. Ci sono documenti nel dossier che confermano questa affermazione? Se sì, quali?
Il testo fa riferimento ad un evento luttuoso che ha posto fine alla “migrazione assistita” verso il Belgio. Individua il passaggio e cerca il documento che fa riferimento ad esso.
Nel testo si parla di diffidenza dei belgi verso i lavoratori italiani. Ci sono documenti che comprovino questa affermazione? Quali?
LAVORO SUI DOCUMENTI
Scorri i documenti e segna con un asterisco quelli contemporanei alle vicende raccontate nel testo (decennio 1946-1956). Che tipo di documenti sono? Da chi sono stati scritti?
Chi può aver stampato il manifesto riportato nel documento 3? Fai delle ipotesi sul mittente di questo messaggio e sui suoi destinatari.
Esamina il documento 1 ed individua quali condizioni, oltre a quelle riportate nel testo base, erano esplicitamente previste dall’Accordo italo-belga del 1946.
Dalla lettura del testo e dall’analisi dei documenti ricava quali condizioni di lavoro e di ospitalità, esplicitamente previste dall’Accordo, non erano invece rispettate.
In un breve testo descrivi le condizioni di vita e di lavoro vissute dagli operai italiani in Belgio, utilizzando le informazioni ricavate dai documenti forniti.
I documenti 4 e 7 fanno riferimento a motivazioni non economiche che hanno spinto il governo italiano a favorire i flussi di lavoratori italiani verso il Belgio. Quali furono queste motivazioni?
In quale documento lo sforzo del governo per indurre i lavoratori italiani ad espatriare è definito «paradossale»? Individualo e prova a spiegare perché lo storico lo definisca così.
INTREGRAZIONE DEL TESTO
Le modalità dell’invio di minatori in Belgio hanno fatto parlare di «accordo-deportazione», con il quale l’Italia avrebbe «venduto» i suoi operai in cambio di carbone: alla luce dei documenti da te esaminati, ritieni condivisibile questa interpretazione? Motiva la tua risposta in un breve testo.
Inserisci, nel testo, al posto giusto, una nota che faccia riferimento al documento che comprova l’affermazione che le rimesse dei migranti erano preferibili agli aiuti del piano Marshall.
Nel testo sono accennati alcuni aspetti della migrazione, che con l’aiuto dei documenti puoi descrivere distesamente:
- I rapporti fra Belgio e Italia
- Le procedure di selezione dei lavoratori
- Le condizioni di vita dei migranti
Costruisci un testo tuo che descriva questi aspetti.
Note
[1] Nel suo intervento al III° Congresso nazionale della DC De Gasperi invitava gli italiani ad emigrare con queste parole: “bisogna fare uno sforzo per far studiare le lingue […] adattare a questa emigrazione le nostre scuole, i nostri corsi di perfezionamento […] bisogna tentare, in uno sforzo che il Governo dovrà favorire, di riprendere le vie del mondo”.
[2] I manifesti della Fédéchar pubblicizzavano il «lavoro sotterraneo nelle miniere» senza specificarne i dettagli, anche se gli accordi bilaterali prevedevano esplicitamente che i lavoratori venissero informati del fatto che sarebbero stati «destinati ad un lavoro di profondità nelle miniere» (doc. n. 3 e doc. n. 1, 5).
[3] Il punto 3 dell’accordo impegnava il Governo belga a garantire che le aziende carbonifere assicurassero salari pari a quelli dei minatori belgi (doc. n. 1, 3).
[4] La CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) era un’alleanza con la quale i sei Paesi che vi aderirono – Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi – si impegnarono ad instaurare un mercato comune del carbone e dell’acciaio, abolendo i dazi doganali e ogni altro ostacolo alla libera circolazione di queste due materie prime all’interno della Comunità. La creazione della CECA favorì la ripresa economica dei Paesi membri e rappresentò il primo passo del progetto di costruzione dell’Unione Europea.