Pietre, memorie, inciampi
Inserito nel dossier “Le Pietre d’inciampo in Italia”
Ci mancava la categoria politica del “fascista de core” coniata da Alfio Marchini1, una candidata – Giorgia Meloni – nel passato militante del Fronte della Gioventù, poi di Azione studentesca e di Azione Giovani, che dichiara di non essere mai stata fascista a causa dell’età. In questa campagna elettorale per eleggere il sindaco, nella capitale non ci stiamo facendo mancare nulla. Forse per commentarla sarebbe stato necessario il tono dell’invettiva di Remo Remotti, Mamma Roma addio2, o il sarcasmo di Ennio Flaiano sul marziano a Roma3, oppure ancora quella forma raffinata di narrazione del presente dell’Impostore di Xavier Cercas. O magari una installazione di street art, come la Triumphs and Laments di William Kentridge4. Ma non sono all’altezza e dunque, per le cose che dirò userò una pacata riflessione da storico.
Le Pietre della famiglia Terracina profanate
Alcuni dati di cronaca dai quali è nata la sollecitazione a questo articolo. Iniziamo con il 2010, quando il 28 gennaio anche in Italia si avvia il “grande circuito della memoria”5 degli Stolpersteine: 30 sampietrini (declinazione romana del termine e dell’oggetto), dedicati a ebrei, politici e carabinieri, vengono posti in sei quartieri di Roma. Alla cerimonia che ha accompagnato la posa delle Pietre hanno partecipato in tanti: i Presidenti dei Municipi, il Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna, il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici, i parenti dei deportati sopravvissuti, i ragazzi delle scuole che hanno lavorato al progetto didattico, l’attrice Ottavia Piccolo che ha voluto condividere l’iniziativa leggendo dei brani. Solo dopo un mese si deve registrare il primo “Sfregio alla memoria dell’Olocausto: profanati i sampietrini dorati”6. Si tratta dei sette posti di fronte alla casa di Monteverde della famiglia di Piero Terracina, l’unico scampato allo sterminio di Auschwitz. Pronta è la reazione delle autorità cittadine, della Comunità Ebraica e dei curatori dell’iniziativa, a partire da Adachiara Zevi7. Il sindaco dell’epoca, Gianni Alemanno, dichiarò: «Esprimo ferma condanna per questo atto vigliacco contro una memoria condivisa, quella della Shoah» – e proseguendo – «Ripetiamo, ancora una volta, il nostro auspicio che i vili che hanno compiuto questo gesto siano presto presi e venga loro inflitta una punizione esemplare». Tornerò sul concetto di memoria condivisa, ora mi soffermo sulla dichiarazione rilasciata in quell’occasione da Riccardo Pacifici: “Ieri su un giornale cittadino ho ricordato la questione delatori in relazione alla deportazione dei carabinieri del 7 ottobre del ’43, operazione favorita da delatori per spianare la strada alla deportazione del 16 ottobre nel Ghetto di Roma”. Mentre Piero Terracina forniva una lettura solo in apparenza più personale: “Io non ho una tomba della mia famiglia, ho solo questi sette sampietrini. Questa è la tomba della mia famiglia. E con questo insulto vogliono negare l’esistenza stessa dei miei poveri congiunti sterminati dal nazifascismo”. Terracina già da qualche anno svolgeva un ruolo attivo di testimonianza, anche nelle scuole, e chiaramente il gesto – un atto segnato da antisemitismo – voleva anche colpirlo direttamente; ma questo non è esclusivo della città, visto che a quella data su ventimila Pietre d’inciampo posizionate in Europa circa 400 avevano registrato profanazioni, in particolare in alcune città tedesche e olandesi.
Il caso del farmacista
L’anno successivo, in occasione della seconda edizione di “Memorie d’inciampo a Roma”, vennero posizionati 54 sampietrini in 5 municipi; per la terza edizione, dal 9 al 12 gennaio 2012, altre 72 Pietre furono installate in 7 municipi per ricordare anche i martiri delle Fosse Ardeatine, in particolare don Pietro Pappagallo, i Di Consiglio e Gioacchino Gesmundo. Di nuovo si verificano reazioni negative. La cronaca segnala: “Pietre d’inciampo rimosse da farmacista: un caso di ordinario antisemitismo”. Si tratta della rimozione da via di Santa Maria di Monticelli 67, dietro il Ministero della Giustizia, delle tre Pietre dedicate alla deportazione delle sorelle Spizzichino. A farle rimuovere è stato un abitante del palazzo, romano di 41 anni, farmacista, che però rifiuta l’accusa e motiva così la sua decisione: “Motivi estetici mi hanno spinto al gesto perché le targhe davanti al portone avrebbero fatto paragonare quel luogo ad un cimitero”. Ha chiesto poi scusa alla Comunità Ebraica e al Comune e fatto ritrovare le Pietre che poi sono state risistemate al loro posto. La sua giustificazione poi proseguiva: “Ero perfino inciampato su quei sampietrini, poi altri condomini mi hanno confermato di non vederli di buon occhio e di non esserne stati minimamente informati. Così ho deciso di toglierli”. Dunque, scarsa coscienza civile e sensibilità ma niente antisemitismo, secondo la versione dell’autore, che segnalava una posizione condivisa da altri condomini e sollevava anche dubbi sul metodo usato per le Pietre.
Il progetto degli Stolpersteine
Vale la pensa soffermarci sui punti caratterizzanti del progetto e che lo differenziano da altri monumenti. Seguendo i parametri esplicitati dai promotori, dopo la discrezione8, l’integrazione urbana9, la diffusione10, l’intreccio tra passato e presente11, tra individuo e collettività12, troviamo quello tra memoria privata e memoria pubblica: “la richiesta di installare i sampietrini parte dai parenti dei deportati; il costo della realizzazione è a loro carico. A installazione avvenuta ciò che costituiva oggetto di una memoria e di un dolore privati diviene patrimonio della collettività. A differenza delle lapidi, la cui autorizzazione spetta ai condomini, la responsabilità dei sampietrini, dell’installazione non meno che della loro salvaguardia e manutenzione, è appannaggio dei Municipi”13. Evidentemente il criterio non è stato recepito a sufficienza e vale la pena domandarsi perché, tornando poi anche sul rapporto tra memoria e città.
Rubata la targa intitolata a Settimia Spizzichino
Ora continuiamo la cronaca: nell’estate di quell’anno venne rubata la targa che nel XX Municipio indica la via intitolata a Settimia Spizzichino, unica donna sopravvissuta alla deportazione del 16 ottobre 1943 e una delle poche che si è assunta il ruolo di testimone attivo praticamente fin dal suo ritorno. Anche in questo caso le condanne sono state immediate, così come il gesto di riparazione con una cerimonia che ha ricollocato la targa. Però non risultano ancora individuati gli autori. La nipote, Carla Di Veroli, legge il gesto come “la risposta di coloro che male hanno sopportato la mia recente battaglia per impedire che a Roma fosse intitolata una strada a Giorgio Almirante”, ma naturalmente oltre alla lettura come semplice gesto vandalico torna anche quella dell’attacco alla memoria della Shoah. Alemanno lo definì “un gesto vile che offende la memoria e l’onore di una donna che ha vissuto il male assoluto della Shoah. Il Campidoglio ripristinerà la targa al più presto con una cerimonia di commemorazione aperta a tutta la città. Simili comportamenti vanno condannati con assoluta fermezza. Roma, città simbolo della lotta di liberazione, dei valori di civiltà, libertà e democrazia, non merita di essere sfregiata in questo modo”14. E nel suo mandato venne anche titolato alla Spizzichino il nuovo ponte che unisce via Ostiense alla Circonvallazione Ostiense, con la specificazione “vittima della persecuzione nazista”. Evidentemente, l’interpretazione di Alemanno della città simbolo della lotta di liberazione scontava la sua formazione politica e culturale; nell’aprile 2015, con il sindaco Marino si è deciso di sostituire la targa con un’altra che ha completato la definizione: “Ponte Settimia Spizzichino. Vittima della persecuzione nazifascista (1921-2000)”.
Sparisce la Pietra intitolata a don Pietro Pappagallo
Torniamo però alla installazione delle Pietre: il 14 e 15 gennaio 2013, Demnig ne pose a Roma altre 20 in 5 municipi, mentre in occasione della quinta edizione, il 13 e 14 gennaio 2014, ne sono state aggiunte altre 1515. Ma un mese dopo gli studenti di una scuola media che con gli insegnanti volevano rendere omaggio a don Pietro Pappagallo segnalano di non aver trovato la pietra posta in via Urbana 2, di fronte all’abitazione da cui nel gennaio del 1944 era stato prelevato il sacerdote a seguito della denuncia di una spia. Quella pietra è particolarmente sfortunata: “Già l’anno scorso, a causa di lavori stradali, era stata immagazzinata e successivamente riposizionata. Quest’anno, la stessa pietra è stata meno fortunata. A seguito di altri lavori stradali, nonostante il Primo Municipio abbia interpellato tutte le ditte interessate, se ne sono perse le tracce”16. Questa volta quindi alla base della rimozione vi sono sciatteria e scarsa sensibilità delle ditte che operano i lavori, di chi le dovrebbe controllare, delle istituzioni locali.
Concludiamo la rassegna sulle Pietre romane ricordando che nella sesta edizione, il 7 gennaio 2015, nel I Municipio ne sono state posizionate 20 e che quest’anno ne sono state installate altre 11. Il totale è quindi di 222 Pietre dedicate a deportati razziali, politici e militari17.
Alcuni nodi problematici nelle vicende romane
Ci sono tanti altri nodi problematici relativi al rapporto tra la storia del Novecento, la sua memoria e la città, tra i quali la questione del Museo della Shoah18, delle celebrazioni del 25 aprile19, della Casa del Ricordo20 degli esuli istriani e giuliano-dalmati, che cerco di affrontare con alcune riflessioni di carattere generale, senza ripercorre tutte le tappe delle singole vicende.
Qualche giorno fa, prendendo spunto da un incontro tenuto al Ministero dei Beni Culturali sul Museo della Shoah che sorgerà a Villa Torlonia, Salvatore Settis scriveva acute note che riporto anche in relazione a quanto scritto sopra a proposito delle Pietre d’inciampo e del rapporto tra memoria e città21. La prima sottolineava “che avremo sempre più bisogno di “prove tangibili” in un mondo dominato da un ossessivo storytelling che, nel marketing ma anche nella politica, tende a prendere il posto della verità, più che a raccontarla. […] Questo sviluppo deve qualcosa anche alla moda decostruzionista secondo cui nella storia la narrazione è tutto”. Dopo questo richiamo al valore dell’accurata ricerca storica, invitava a non assimilare la città a un museo. “I musei non sono spazi separati, bensì proiezioni delle città, e traggono legittimazione, senso e forza dal tessuto urbano, non da un’astratta idea di “museo”. A Roma, il Museo della Shoah va inteso come integrato da una rete di Stolpersteine (le “Pietre d’inciampo” incorporate nel selciato stradale, davanti alle abitazioni dei deportati), inventate da Gunter Demnig per depositare nel tessuto urbano una memoria diffusa dei campi di sterminio. […] Il museo deve conversare con la città, ri-posizionarsi mediante meccanismi di conoscenza adatti ai tempi, essere un essenziale nodo urbano che s’innesta sul tessuto civile e sociale. Dev’essere proiezione della città, distillazione e vetrina della sedimentazione storica e della memoria collettiva, e non un hortus conclusus che facilmente si trasformerebbe in ghetto per pochi, se non in deposito bancario di valori (in senso meramente pecuniario)”. Questo accorato invito alla consapevolezza dei valori civili e sociali che sono associati ai musei in quanto strumenti di autocoscienza delle città, penso che vada esteso anche a tutti i nodi della rete che Settis richiamava, proprio in relazione agli episodi che ho ricordato sopra.
La concezione proprietaria della memoria
Mi interessa anche riprendere il tema del rapporto tra la storia, la sua narrazione e la memoria. Perché indagandolo, a mio avviso, possiamo capire meglio anche come rispondere ai nodi problematici che emergono dalle vicende romane, dove accanto alla necessaria, e necessariamente continua, denuncia delle forme di antisemitismo, dei rigurgiti di fascismo, delle idee di sopraffazione razziale, va anche ripensata l’azione positiva, quella dei percorsi didattici come di quelli rivolti a tutti i cittadini, delle istituzioni come degli storici, perché mi pare indebolita da quella che chiamerei concezione proprietaria della memoria22 che accompagnandosi al continuo richiamo alla memoria condivisa, all’aggio del testimone sulla ricerca, non riesce a contrastare l’uso politico della storia e della memoria. Così che non si riesce a fare realmente, e complessivamente, i conti con il passato. Provo a spiegarmi. Un paio di anni fa è uscito Critica della vittima di Daniele Giglioli23, inteso come una sintomatologia della vittima contemporanea, che tra le sue manifestazioni annovera la celebrazione ossessiva della memoria, la mitologia contemporanea della cospirazione e lo spostamento della responsabilità del male altrove, fuori da noi. Nel recensirlo, Adriano Prosperi definiva i caratteri della ideologia vittimaria: “ossessione identitaria in opposizione al mutamento, il culto della memoria in opposizione alla storia […]. Ha una inconfondibile coloritura affettiva. Si nutre dell’immaginario del dolore e della morte. Esalta l’eroismo del patire, deprime la volontà di agire. […] Qui la storia è inattuale, al suo posto si insedia la memoria. Memoria significa soggettività e sofferenza. Da qui il moltiplicarsi delle giornate della memoria, con l’invito a sentirsi in debito di sofferenza per le vittime, quelle della Shoah, quelle delle foibe, quelle delle mafie, quelle del terrorismo interno e internazionale”24. Il rischio che si corre è quello di cancellare la prospettiva storica, concedendo alla retorica celebrativa di sovrapporre tempi e punti di vista: “il testimoniare trasmette non la conoscenza dell’accaduto nei suoi caratteri specifici ma immobilizza il tempo storico e comunica un’idea della storia e del mondo come luogo dove non resta che far torto o patirlo”.
Memoria condivisa e storia
Mi soffermo ora sull’uso del termine “condivisa” che qualifica positivamente il concetto di memoria, ad esempio nelle dichiarazioni di Alemanno sopra ricordate. Per farlo, mi richiamo a un lavoro di Avishai Margalit25, filosofo israeliano che differenzia memoria condivisa e storia: la seconda “si assume un impegno ontologico a rendere certo l’evento che è oggetto della memoria”, la prima non garantisce della verità degli eventi che essa contribuisce a tenere in vita e a preservare. Secondo la sua impostazione, chi usa quella nozione si basa sull’idea di una divisione del lavoro mnemonico sia sincronica che diacronica. E questo, appunto, porta alla distinzione con la storia, perché assistiamo ad un passaggio generazionale dentro una certa comunità che costituisce una catena dall’evento al suo ricordo che non necessariamente coincide con la sua veridicità: con efficace sintesi “l’uso personale di ricordare è simile a sapere, l’uso collettivo di ricordare è più affine a credere che a sapere”. Socialmente, e storiograficamente, questo può avere una conseguenza che aiuta, e la lega a quanto scritto sulla memoria proprietaria, a spiegare in modo meno semplificatorio quanto ho descritto nella cronaca romana. La memoria condivisa ha bisogno di una linea di memoria canonica, di tradizione, e questo può far scivolare nell’attribuire alla memoria in quanto tale l’importanza a scapito della storia. “Collocando la memoria fra la storia e il mito non intendo semplicemente dire che la memoria è combattuta fra il perseguimento della verità e quello di «nobili» bugie. La memoria condivisa è combattuta fra due visioni del mondo, che si manifestano nella loro forma pura nella scienza da una parte e nel mito dall’altra. L’elemento di contrapposizione è l’opposizione weberiana fra il vedere il mondo come un luogo incantato (mito) e il vedere il mondo come luogo disincantato (storia critica)”.
Conclusioni
Commentando questo libro sulle pagine de L’Indice, Claudio Vercelli sottolineava come Margallit “ci fa quindi presente che “la memoria è conoscenza che viene dal passato, non è necessariamente conoscenza sul passato”. L’equivocare su queste due diverse funzioni vuol dire fraintenderne la sua fruizione per il tempo a venire”. È qui che torna il corto circuito tra presente e passato: i palestinesi in Italia oggi non hanno il diritto di partecipare al 25 aprile perché eredi “di chi ieri si alleava con Hitler”. Versus: le bandiere della Brigata ebraica sono oggi il simbolo del sionismo israeliano che massacra i palestinesi. A parte quelle generate dalla malafede o dalla becera strumentalizzazione, mi preoccupa il corto circuito provocato dalle concezioni di memoria di cui ho parlato e che rendono più debole la nostra opera di conoscenza della storia e l’azione per superarne le strumentalizzazioni, combattere razzismo e antisemitismo, arginare le nuove culture dell’egoismo e il ritorno senza vergogna di movimenti fascisti. Lo vedo come un mio problema, come insegnante, come storico, come socio dell’Irsifar, se si arriva a scrivere: “Ma noi il 25 Aprile non ci saremo. Non perché cadrà di Shabbat senza che nessuno si sia posto nemmeno la decenza di domandarsi se fosse il caso di spostare le celebrazioni per permettere a coloro che hanno avuto più lutti di poter manifestare. Ma perché quando ci stringiamo intorno ai nostri simboli, non ci piace girarci intorno e vedere negli sguardi malcelata sopportazione od odio, addirittura”26. Sulla tesi e il suo retroterra storiografico ci sarebbe da discutere (“Dopo aver piano piano epurato dalla memoria della Resistenza tutte le altre formazioni, quella sinistra che detiene ormai il monopolio della Resistenza, caccia dal 25 Aprile anche ex-deportati ed ebrei” e anche cerca “di rovesciare il significato di questa festa, cercando di mettere le vittime di ieri sul banco degli imputati”), ma quello che mi colpisce è proprio quella concezione proprietaria delle vittime che emerge e che finisce per divenire separatezza.
Note
1 A proposito dell’appoggio alla sua candidatura da parte di Francesco Storace e Alessandra Mussolini.
2 A Roma salutavo gli amici. Dove vai? Vado in Perù. Ma che sei matto? Me ne andavo da quella Roma puttanona, borghese, fascistoide, da quella Roma del “volemose bene e annamo avanti”, da quella Roma delle pizzerie, delle latterie, dei “Sali e Tabacchi”, degli “Erbaggi e Frutta”, quella Roma dei castagnacci, dei maritozzi con la panna, senza panna, dei mostaccioli e caramelle, dei supplì, dei lupini, delle mosciarelle … Il testo completo o il video con la ripresa di una performance di Remotti sono disponibili, tra i tanti altri, anche all’indirizzo http://www.ilmattino.it/cultura/libri/remo_remotti_mamma_roma_addio-1105161.html
3 Il racconto sul soggiorno a Roma di Kunt, atterrato a Villa Borghese nel 1953 con una navicella spaziale, è contenuto in Diario notturno, Milano, Bompiani, 1956. Dal racconto anche un’opera teatrale e un film.
4 “Triumphs and Laments”è stata inaugurata il 21 aprile scorso, per festeggiare il Natale di Roma,: un fregio lungo 550 metri e composto da 80 figure alte fino a dieci metri, realizzato rimuovendo la patina accumulata dal tempo, dalla natura e dallo smog, dai muraglioni di travertino che costeggiano la banchina del Tevere tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini. Questo il suo significato secondo Kentridge: “Non ho badato tanto alla logica quanto al senso, per questo la figura di Pasolini, per esempio, si trova vicina quella mitica di Remo. La cupola di San Pietro è vicina alla costruzione del ghetto e al rogo di Giordano Bruno. Quello che volevo raccontare con quest’opera intitolata Trionfi e lamenti sono anche le contraddizioni della storia”.
5 http://www.arteinmemoria.com/memoriedinciampo/progetto.htm
6 Così la notizia sul sito News per Miccia corta alla data del 28 febbraio 2010
7 Architetto e storica dell’arte, curatrice fin dalla prima edizione delle Pietre d’inciampo, ha poi costituito nel 2012 l’associazione arteinmemoria, che insieme a Aned, Anei, Cdec, Federazione delle Amicizie Ebraico Cristiane Italiane, Museo Storico della Liberazione, Comune, promuove il progetto “Memorie di inciampo”. Il progetto è sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica. Uno sportello per ricevere le domande per la posa di nuove Pietre è aperto presso la Casa della Memoria e della Storia.
8 “e l’assenza di retorica. Il sampietrino non emerge ma s’interra, non s’impone ma vi si inciampa casualmente. La memoria non è esiliata nel monumento ma sollecitata dalla scrittura, il più concettuale tra i mezzi di espressione. Un “contromonumento”, dunque, come quelli del tedesco Jochen Gerz, di Jan Dibbets in memoria di Francois Arago, di Christian Boltanski a Parigi e Berlino” (cfr. http://www.arteinmemoria.com/memoriedinciampo/progetto.htm, ultima visita 19 maggio 2016). Dalla stessa pagina sono tratte anche le citazioni successive.
9 “A dispetto della loro discrezione, “le Pietre d’inciampo”, una volta installate, diventano parte integrante del tessuto urbano, della sua toponomastica”.
10 “Le “Pietre d’inciampo” sono legate a luoghi precisi, le case dei deportati, ma sono estremamente diffuse: non centripete come un monumento ma centrifughe come una mappa urbana”.
11 “condizione di ogni elaborazione della memoria non meramente commemorativa e rituale. Chiunque inciampi oggi in un sampietrino non può non soffermarsi, riflettere e interrogarsi su ciò che è stato e su ciò che potrebbe riaccadere, magari sotto altre spoglie”.
12 “Gli Stolpersteine sono tutti uguali. Come le lastre tombali al Mausoleo delle Fosse Ardeatine a Roma, additano un tragico destino comune. Ma gli Stolpersteine sono anche tutti diversi, perché dedicati ai singoli deportati. Restituiscono dignità di persona a chi è stato ridotto a numero, offrono un luogo dove ricordare chi è finito in cenere o in una fossa comune”.
13 Ci sono poi altri punti evidenziati: “contro il revisionismo. Come negare l’esistenza dei campi di sterminio quando a ogni piè sospinto s’inciampa in una pietra che ricorda chi e dove è stato annientato? – per la ricerca storica. Il reperimento dei dati relativi ai deportati, l’individuazione delle loro abitazioni, la raccolta delle testimonianze dei famigliari consentono di incrementare la ricerca storica scritta e orale, di arricchire e integrare i Libri della memoria. – il coinvolgimento degli studenti. Sono loro il futuro. A loro spetta il compito di ricordare, testimoniare, vigilare e denunciare ogni segnale di intolleranza e di razzismo nei confronti dei diversi. A loro è dedicato il progetto didattico che ogni anno coinvolge nuove scuole nelle ricerche sui deportati nei singoli municipi. – progetto in progress. A differenza delle celebrazioni che ogni anno si affollano nella giornata deputata alla memoria il 27 gennaio, “Memorie d’inciampo” è un progetto in progress, la cui durata è imprevedibile e incalcolabile. Lo sportello aperto presso la Biblioteca della Casa della Memoria e della Storia di Roma è attivo tutto l’anno. Ascolta, indirizza e raccoglie le prenotazioni per i sampietrini che, inoltrate all’artista, si traducono in altrettante Pietre da lui realizzate e personalmente installate. Un’opera allo stesso tempo concettuale e autografa. Vale confrontare “Memorie d’inciampo” e “Arteinmemoria” a Ostia Antica: due progetti artistici dedicati alla memoria e organizzati dall’Associazione culturale arteinmemoria. Cosa li distingue? Se la biennale di arte contemporanea ospitata nei resti dell’antichissima Sinagoga di Ostia Antica invita a ogni edizione artisti diversi a confrontarsi con lo stesso luogo, nel caso di “Memorie d’inciampo” un unico artista declina lo stesso lavoro su persone diverse e in luoghi diversi. L’iniziativa ostiense è dunque centripeta, storicamente, simbolicamente e architettonicamente – è la più antica sinagoga della diaspora, memoria del Secondo Tempio di Gerusalemme distrutto dai Romani. Agli antipodi, il progetto Stolpersteine è centrifugo: disseminando i sampietrini nella città, senza distinzione tra centro e periferia, tra quartieri ricchi e altri poveri, disegna una mappa dei luoghi della memoria anti-gerarchica e in continua ridefinizione”.
14 Le citazioni relative all’episodio sono tratte da “La Repubblica” del 6 luglio 2012.
15 Due delle quali sono posizionate di fronte al carcere di Regina Coeli, da dove il 4 gennaio 1944 partì il primo convoglio di prigionieri politici alla volta di Mauthausen.
16 Così il comunicato stampa di Memorie d’inciampo ripreso da tutti i giornali locali (per tutti Repubblica, cronaca di Roma, 7 febbraio 2014).
17 http://www.arteinmemoria.com/memoriedinciampo/progetto.htm
18 Lungo è stato il percorso che ha portato alla individuazione del posto definitivo e tormentate anche le tappe per i passaggi intermedi in attesa della sua realizzazione. A titolo di esempio si può leggere la lettera di dimissioni (http://www.museodellashoah.it/2015/02/lettera-dimissioni-presidente-leone-paserman/) di Leone Paserman da Presidente della Fondazione Museo della Shoah che ha tra i soci fondatori Roma Capitale, Comunità Ebraica di Roma, Associazione Figli della Shoah, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Provincia di Roma, Regione Lazio.
19 Già da qualche anno non si riesce ad organizzare una manifestazione unitaria e senza polemiche della Liberazione. Quest’anno in particolare si sono svolte due manifestazioni: quella organizzata dall’Anpi con il classico appuntamento a Porta San Paolo la mattina e l’altra promossa da Aned, Centro Ebraico Italiano, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e Associazione romana amici d’Israele per la sera. Oltre tutto la Comunità Ebraica di Roma aveva promosso un appuntamento la mattina del 25 Aprile al Museo della Resistenza di Via Tasso. La causa della separazione è la decisione dei rappresentanti della Brigata Ebraica e dell’Aned di non sfilare assieme a “associazioni e organizzazioni con parole d’ordine e slogan che non hanno a che vedere con i principi della Resistenza”, riferendosi alla comunità palestinese e ai centri sociali che negli anni passati avevano contesto la loro presenza. Vedremo nel testo questo circuito tra passato e presente che porta alle speculari accuse di sionismo e antisemitismo.
20 Dalla presentazione istituzionale: “La Casa del Ricordo, Via di San Teodoro 72, è stata aperta alla vigilia del Giorno del Ricordo 2015, il 10 febbraio, dall’Assessorato alla Cultura e al Turismo e dall’Assessorato alla Scuola, Sport, Politiche Giovanili e Partecipazione, con delega alla memoria di Roma Capitale in collaborazione con la Regione Lazio. Le attività della Casa sono gestite dall’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia – Comitato Provinciale di Roma e dalla Società di Studi Fiumani, due Associazione rappresentative degli italiani giunti profughi dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia al termine della seconda guerra mondiale custodi di un vasto materiale documentario che testimonia la presenza degli esuli a Roma e nel Lazio. Prossimamente in programma un progetto di organizzazione e valorizzazione del patrimonio bibliografico della Casa che racconta la vicenda dei profughi dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, con l’intento che la Casa diventi luogo fondamentale per l’organizzazione e la catalogazione degli archivi cartacei, ma anche fotografici e filmografici delle Associazioni, attualmente dislocati in diversi luoghi della Capitale e d’Italia” (http://www.comune.roma.it/pcr/it/newsview.page?contentId=NEW804587).
Sottolineo il fatto che in questo modo, oltre alla Casa della memoria e della storia in cui ci svolgono, dal 2006, le attività di ricerca e pubbliche di Irsifar, Anpi, Aned, Anei, la città si è dotata di questa struttura affidata ai due enti sopra citati e che il parallelismo tra memoria e ricordo avviene non casualmente anche per quello che riguardata il giorno di celebrazione (27 gennaio e 10 febbraio). Ricordo inoltre due titoli di giornali di quei giorni che danno conto di come è vista l’iniziativa nell’area culturale e politica della destra Roma apre le porte alle Foibe, inaugurata la ‘Casa del Ricordo’ (“Giornale d’Italia”) e Inaugurata a Roma la prima “Casa del Ricordo” per i martiri delle foibe e gli esuli (“Secolo d’Italia”).
21 Salvatore Settis, Le prove della Shoah, “Il Sole 24 ore”, inserto la Domenica, 15 maggio 2016.
22 Uso il termine, anche se con una declinazione diversa, sollecitato dalla lettura di Tomás Maldonado, Memoria e conoscenza. Sulle sorti del sapere nella prospettiva digitale, Milano, Feltrinelli, 2005. Il filosofo argentino sottolinea come l’avvento dell’Homo digitalis possa produrre mutamenti nella memoria dell’Homo scribens analogamente a quanto successo nel passaggio a quest’ultimo dall’Homo oralis. Nel capitolo Identità personale e memoria partendo dalla lettura della memoria come consapevole possesso di esperienze, Maldonado la individua come un criterio di definizione dell’identità e in particolare come “inalienabile proprietà privata della persona” (p. 33, corsivo nel testo). E prosegue, con la parte che più interessa il mio discorso (che si rivolge al passaggio dalla dimensione individuale a quella sociale) : “ritengo che nel rapporto tra memoria-proprietà e identità proprietaria, non vada sottovalutato il fatto, sopra rilevato, che nel corso della nostra vita rivestiamo molti ruoli, cioè molte identità aggiuntive, supplementari, ausiliari, ciò che poi significa, in fin dei conti, avere molte memorie. Per restare nella metafora: molti capitali accumulati in funzione di valori e interessi talvolta persino contrapposti”.
23 Per i tipi di Nottetempo, 2014.
24 Il gusto di officiare il culto del dolore, “il manifesto”, 16 marzo 2014.
25 Avishai Margalit, L’etica della memoria, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 54-59.
26 Alex Zarfati, Il 25 Aprile simbolo di una Liberazione usurpata ormai dagli odiatori di Israele, alla pagina http://www.focusonisrael.org/2015/04/02/il-25-aprile-simbolo-di-una-liberazione-usurpata-ormai-dagli-odiatori-di-israele/ (ultima visita 20 maggio 2016).