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Un sentiero verso Fossoli: il tema dei campi di concentramento alla Scuola primaria

Un sentiero verso Fossoli: il tema dei campi di concentramento alla Scuola primaria

Il cartellone realizzato dagli alunni e dalle alunne durante l’attività didattica

Abstract

Come si può affrontare il tema dei campi di concentramento della Seconda guerra mondiale nella scuola primaria, dove teoricamente la storia contemporanea non dovrebbe essere insegnata? L’autore prova a dare una risposta con questa attività didattica.

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How can the subject of World War II concentration camps be addressed in primary school, where theoretically contemporary history should not be taught? The author tries to give an answer with this teaching activity.

Un esperimento

Conoscevo Speme[1] da prima del Covid-19. È un progetto che prende come oggetto specifico di indagine una serie di luoghi della memoria (musei, ex campi di detenzione e siti commemorativi), per indagare su come diversi passati traumatici possano essere conservati e trasmessi e quali tipi di azioni potrebbero accompagnare la conoscenza del passato e servire da apertura a questioni del presente. Una rete internazionale di docenti, ricercatrici e ricercatori si confronta su queste tematiche e produce seminari e attività di studio e artistiche. Tra di loro Viviana e Patrizia dell’Università di Bologna e Marzia della Fondazione Fossoli[2] mi invitarono nel 2019 ad una di queste iniziative che si teneva al campo di Fossoli con gli studenti di un liceo di Ravenna che presentavano i lavori elaborati durante l’anno scolastico. Io insegno nella scuola primaria e in quell’occasione parlammo della possibilità di pensare ad un percorso simile con bambine e bambini di quarta o quinta classe.

Dopo la tempesta del Covid ci siamo risentiti e, visto che insegnavo con le colleghe in una quarta classe, abbiamo deciso di tentare.

Il testo che segue è il racconto di questo tentativo; ho scelto di narrare l’esperienza piuttosto che preparare un modello pronto per la didattica. In questo caso penso che la modalità narrativa permetta di spiegare meglio il cammino e le scelte compiute via via e consenta di non eludere le incertezze e la segnalazione dei passi che si sono rivelati meno efficaci. Spero che in questo modo l’esperienza appaia non come uno schema da riprodurre, quanto piuttosto come un percorso da cui trarre spunti e idee, ma che necessita di venire calato dai docenti nel contesto singolare delle classi da coinvolgere.

 

Difficile affrontare certi temi alla scuola primaria

Credo che la chiave dell’insegnamento della violenza concentrazionaria, che si è dispiegata con modalità estreme ed inedite durante il secondo conflitto mondiale, stia nel mostrarne una genealogia capace di cogliere gli elementi storici che, pur non sufficienti a provocarla, ne hanno reso possibile il prodursi. La conoscenza storica dovrebbe quindi permettere di ricostruire il contesto e lo svolgimento degli avvenimenti del passato, le condizioni e le conseguenze, per consentire di acquisire consapevolezza se non delle cause almeno delle premesse significative; a partire da queste consapevolezze dovrebbe divenire possibile maturare gli strumenti e le conoscenze per guardare anche il presente sapendo cogliere elementi simili ancora attivi o i processi parzialmente riconducibili alle stesse premesse. Le riflessioni che ho sempre in mente in questo senso le traggo da un prezioso, piccolo libro di Enzo Traverso, La violenza nazista. Una genealogia[3].

Evidentemente nella scuola primaria non avrebbe senso affrontare nella loro complessità queste tematiche, sia per l’età dei bambini che per l’insieme ancora ristretto delle conoscenze padroneggiate. La stessa conoscenza storica degli avvenimenti del Novecento non fa parte delle Indicazioni ministeriali mentre costituisce una premessa indispensabile a questa riflessione di secondo livello. Accettare la sfida quindi consisteva nel provare a progettare un percorso di avvicinamento a quei temi (la memoria traumatica del Novecento) senza imboccare la strada di una trasmissione di contenuti a bambini e bambine non in possesso di un contesto adeguato per la loro elaborazione.

Si è cercato così di affrontare percorsi in un certo senso paralleli che rimanessero in territori esperienziali più vicini al vissuto dei bambini, evocando però in modo analogico alcuni dei processi storici citati attraverso la presenza di nuclei concettuali comuni. Per risolvere questa difficoltà abbiamo deciso di concentrarci sui nodi della privazione della libertà e dell’alienazione dei soggetti, caratteristici dei campi di prigionia, Fossoli compreso. Per avvicinarci al racconto storico però abbiamo pensato di allungare il sentiero, passando attraverso una tematica distante ma potenzialmente collegabile: la privazione della libertà e la reificazione che gli esseri umani hanno perpetrato nei confronti del mondo animale.

 

Avviarsi verso i campi del Novecento passando dalle reclusioni degli animali.

La storia della relazione tra l’umanità e il mondo animale è lunga e complessa. Dai primi ominidi che fuggivano le minacce dei predatori e si nutrivano opportunisticamente dei loro resti si è passati alla caccia e poi alla domesticazione nel lungo periodo compreso tra paleolitico e neolitico. Nei tempi storici è divenuto centrale l’uso strumentale degli animali come forza lavoro e cibo, fino a quando, con la rivoluzione industriale, si chiude l’epoca dello sfruttamento della forza lavoro animale ma si dispiega la produzione serializzata dell’animale come merce alimentare e non solo.

D’altronde gli animali con cui gli esseri umani intrattengono relazioni hanno sempre condizionato profondamente le culture, l’immaginario, il repertorio simbolico e l’intero nostro modo di pensare e rappresentare il mondo.

Tenendo presente queste premesse abbiamo pensato di iniziare il percorso didattico proponendo una riflessione comune su due aspetti di questa relazione contemporanea tra esseri umani e animali: l’allevamento intensivo per la produzione di carne-merce e la reclusione in cattività degli animali selvatici negli zoo.

Riflettere in questi termini sugli animali significava predisporre le bambine e i bambini a pensare in modo analogico agli esseri umani che, in forme diverse, sono stati sottoposti a procedimenti in parte simili: deportazioni, reclusioni, separazioni dai propri ambienti, violenze episodiche e serializzate, sottomissioni… tutte pratiche agite in forme che contengono in sé processi simbolici di “animalizzazioni” e “deumanizzazioni” intensi, spesso rivendicati dalla propaganda per legittimare tali pratiche aberranti. In questo modo avremmo affrontato in classe – inizialmente in maniera indiretta attraverso gli animali – una serie di tematiche etiche e di conflitti contraddittori della nostra epoca.

Una volta costruito dialogicamente questo primo grande sfondo integratore avremmo poi introdotto la storia relativa al mondo umano, utilizzando una memoria situata nel contesto della Seconda guerra mondiale che ha attraversato il fascismo, la Resistenza, il campo di Fossoli, la deportazione.

L’obiettivo era produrre una riflessione che ci accompagnasse durante l’anno scolastico, cercando di non attivare nei bambini interventi e risposte precostituite ma seguendo le loro osservazioni prodotte man mano che avremmo affrontato le tappe di questo percorso.

 

Step 1: animali allevati, animali reclusi

Il primo passo è consistito nella discussione collegiale sugli animali, quelli allevati e quelli reclusi, per fare emergere (e conoscere come insegnanti) il curricolo implicito che i bambini possiedono sul tema perché acquisito nei contesti sociali in cui vivono.

Dapprima abbiamo stampato e plastificato coppie di foto (scaricate dal web): la prima ritraeva animali (pecore, mucche, galline) allevati in un contesto naturale e la seconda gli stessi animali in capannoni di allevamenti intensivi. Senza alcuna introduzione abbiamo aperto una discussione collettiva mostrando le foto a coppie. Gli interventi sono stati trascritti direttamente man mano che venivano formulati (usando la digitazione vocale di Google) e poi stampati per tutti, rileggendoli insieme quando abbiamo riaffrontato l’argomento (recuperando così gli assenti).

La discussione è stata molto ricca ed è emerso un caleidoscopio di riflessioni. La scelta delle coppie di foto aveva la funzione di indirizzare gli interventi sulla differenza tra allevamenti intensivi e allevamenti “in natura”, ma il piacere di cercare nell’immagine tutti i dettagli possibili ha guidato i pensieri dei bambini in molte direzioni diverse. La descrizione degli animali, del loro colore e del loro aspetto ha caratterizzato la maggior parte dei commenti. L’opposizione tra open air e capannoni chiusi a volte è stata scambiata per due fasi distinte dell’allevamento (gli animali dentro sono per preparare i formaggi, o per fare le uova) o due finalità diverse (quelli dentro sono per la carne). Il concetto di “allevamento intensivo” è stato introdotto da un bambino che ha quindi messo in comune questa nozione, sconosciuta agli altri. Sono emersi anche interventi che andavano nella direzione che avrebbe preso il percorso: è comparsa più volte la parola “libertà”, associata a “natura”, ma era presente anche l’idea che il luogo coperto fosse un ricovero per la notte.

Nel secondo passaggio abbiamo mostrato immagini di animali selvatici nelle gabbie degli zoo: un lupo, delle tigri, un orangotango. Qui la discussione si è fatta più chiara e lineare rispetto alla direzione del nostro percorso; probabilmente la mancata connessione con l’uso della carne, delle uova e del latte ha semplificato le cose, lasciando ai bambini solo il dilemma tra il piacere offerto dagli zoo di poter vedere animali inconsueti e la tristezza suscitata dell’animale in gabbia. L’opposizione libertà-reclusione è emersa in quasi tutti i commenti e – anche se le immagini scelte evitavano le pose patetiche degli animali – molti bambini hanno visto nei loro atteggiamenti “tristezza” e “pianto”. È emerso quindi spontaneamente un moto di empatia verso chi appare privato della libertà. Alcuni hanno anche espresso un principio: “Io penso che non si dovrebbero rinchiudere gli animali nelle gabbie, cioè protezioni ma non gabbie”.

Insieme a queste foto canoniche degli zoo abbiamo mostrato anche un’immagine straniante, il trenino-gabbia occupato da visitatori che alcuni zoo safari usano per fare entrare il pubblico in sicurezza nel territorio di animali selvatici. Attorno e sopra la gabbia piena di esseri umani stavano leoni curiosi. Alcuni bambini vi hanno riconosciuto una scena del film Madagascar e hanno provato a spiegare la situazione a chi non capiva. Un bambino poi ha verbalizzato l’inversione: “Per me ora le persone sono animali e gli animali sono persone, perché gli animali devono stare dentro la gabbia, ma se i bambini sono dentro la gabbia, allora i bambini sono mostri o qualcosa di simile”.

 

Step 2: la sintesi narrativa.

A questo punto abbiamo deciso di introdurre il tema storico. Abbiamo scelto di utilizzare il testo di Daniel Pennac, L’occhio del lupo[4], come punto di partenza. Ci è parsa particolarmente adatta la situazione narrativa del libro che mette a confronto in uno zoo un lupo artico in gabbia e un bambino di origine africana e che si risolve nei reciproci racconti della loro vita. Nel nostro caso però il bambino di origine africana del testo di Pennac è stato sostituito dalla giovane staffetta partigiana bolognese Nella Baroncini (1925-2015), mentre Lupo Azzurro è diventato un lupo appenninico e il contesto spazio-temporale dell’incontro è stato spostato nel piccolo zoo cittadino che esisteva a Bologna alla fine della Seconda guerra mondiale.

Nell’inverno del 1943 Nella Baroncini era una diciottenne che si impegnò insieme agli altri quattro componenti della famiglia come attivista partigiana. Scoperti per una spiata all’inizio del 1944, tutti i membri della famiglia vennero incarcerati, maltrattati, poi trasferiti a Fossoli e infine nei campi tedeschi (Nella, le sorelle e la madre a Ravensbrück). Solo Nella e la sorella maggiore sopravvissero; i suoi racconti, inclusi nel libro di Anna Maria Bruzzone e Lidia Beccaria Rolfi[5], e le videointerviste[6] disponibili nel sito hanno permesso di “incastonare” la sua esperienza nella trama di Pennac.

Abbiamo scelto di cambiare il finale del libro. Nella versione originale il bambino ritrova nel contesto europeo dello zoo gli animali amici che lo hanno accompagnato nell’avventura-disavventura della migrazione; in questo modo il bambino protagonista si sente in un certo senso a casa, e convince anche il lupo ad accettare questo nuovo contesto dove ha trovato la sua comprensione e la vicinanza di altri animali in cattività come lui. Nella nostra versione abbiamo deciso che il riconoscimento dei due protagonisti dovesse invece sfociare nella liberazione del lupo da parte di Nella, l’ennesimo gesto partigiano che ridava la possibilità al lupo di ricercare nel suo Appennino ciò che rimaneva della sua esistenza prima della cattura.

L'occhio del lupo (estratto)

 

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La lettura, fatta dall’insegnante in varie tappe, si è rivelata di grande efficacia. Evidentemente la struttura narrativa e le parole di Pennac nella prima parte hanno catturato l’attenzione e la curiosità dei bambini; nella seconda parte invece sono stati il racconto di Nella e il contesto della Seconda guerra mondiale a produrre un carico di attenzione e di partecipazione emotiva che ci hanno fatto pensare al clima che si crea nel confronto diretto con i testimoni.

Le parti relative alla vita di Nella nel ventennio sono state ampiamente chiosate all’impronta durante la lettura per spiegare a grandi linee le caratteristiche del fascismo. Il regime è stato semplificato e presentato come una dittatura del gruppo di persone che si definiva fascista e del suo capo Mussolini. La dittatura – è stato detto – consisteva nella negazione della libertà di dire quello che si pensa se non è in accordo con ciò che sostiene il fascismo o Mussolini. Chi si opponeva al fascismo (come ad esempio il padre di Nella) veniva picchiato, messo in prigione, a volte ucciso. Allora chi non la pensava come i fascisti era obbligato a scegliere tra tenere nascosti i suoi pensieri oppure scappare in altre nazioni.

Abbiamo accennato della propaganda del fascismo, che usava anche la scuola per far pensare quello che voleva agli studenti, e abbiamo fatto l’esempio, emblematico, di quella pagina di grammatica che invitava a declinare il verbo amare sulla persona di Mussolini.

Abbiamo però anche aggiunto che le bambine come Nella a casa avevano persone come il papà che le raccontava la realtà sul fascismo e su Mussolini, anche se in pubblico doveva poi tenere nascosti questi pensieri.

Anche le parti sulla guerra sono state chiosate e la comprensione del contesto si è giovata di interventi dei bambini che conoscevano alcuni aspetti della Seconda guerra mondiale. È stato importante ricordare che le responsabilità della guerra erano delle dittature di Hitler e di Mussolini, che invasero molte nazioni per conquistarle e sottometterle.

Questa introduzione esageratamente sintetica del regime fascista può apparire povera o troppo lacunosa. La scelta è stata fatta per indirizzare l’attenzione verso uno degli aspetti che caratterizzarono quell’esperienza che era anche il tema del nostro percorso (e che forse era anche in linea con la percezione del fascismo che ebbe Nella, la giovane protagonista). A nostro parere nella didattica con i più piccoli queste scelte vanno fatte, poiché è preferibile semplificare l’immagine di un processo storico (l’immagine verrà poi integrata e modificata in momenti successivi) piuttosto che comprimere in una comunicazione didattica aspetti complessi difficili da assimilare tutti in una volta.

 

Rapporto tra testimonianza e invenzione.

La testimonianza-racconto di Nella è stata trascritta attenendosi quasi letteralmente al testo dell’intervista; si è scelto però di sciogliere le parti più complesse, parafrasando spesso, aggiungendo sinonimi ai termini più oscuri per facilitare la comprensione dei bambini.

Inoltre, rispetto alla testimonianza, sono state operate alcune modifiche che abbiamo deciso di stampare con un carattere diverso per segnalare alle piccole lettrici e lettori lo sconfinamento tra storia e invenzione.

Si tratta di un paio di capoversi che sono stati aggiunti per introdurre in forma didascalica argomenti che ritenevamo importante fossero presenti ma che Nella non trattava in modo esplicito. Il primo presenta sinteticamente la persecuzione degli ebrei, il senso della campagna nazifascista contro di loro; il secondo spiega chi fossero i partigiani, accennando alla loro provenienza da molte parti del mondo coinvolte nella guerra (abbiamo ritenuto importante sottolineare questo aspetto della Resistenza, a maggior ragione in relazione al background fortemente plurinazionale della nostra classe).

Inoltre nel finale visionario abbiamo introdotto due modifiche alla storia reale (oltre all’incontro con Lupo Azzurro, ovviamente): abbiamo tenuto in vita Naso e Julka, due personaggi incontrati da Nella nel corso della storia ma che in realtà non sopravvissero alla guerra, e glieli abbiamo fatti incontrare di nuovo nei pressi dello zoo. Il partigiano Umberto Ghini, nome di battaglia “Naso”, fu in realtà arrestato dai nazifascisti e fucilato a Novara il 14 giugno 1944. La partigiana Julka fu effettivamente liberata a Ravensbrück insieme all’amica Nella nell’aprile del 1945, ma essendo fortemente debilitata non sopravvisse.

Le modifiche sono servite a dare un afflato utopico al ritorno alla vita dopo la guerra. In fondo Nella racconta che, una volta tornata in Italia, sognava spesso di sentire suonare il campanello; allora andava ad aprire e si trovava di fronte sua sorella scomparsa, e le diceva: “Beh com’è che vieni a casa adesso?”. Insomma, il finale della storia modifica il passato in direzione dei sogni della protagonista.

 

Testo immedesimativo

Dopo la lettura del testo abbiamo chiesto ai bambini di scrivere loro stessi una storia impersonando un animale a scelta. Dovevano interpretare un animale che viveva in libertà e che ad un certo punto della sua esistenza veniva catturato per essere portato in uno zoo. Ovviamente il finale poteva essere scelto da loro.

L’obiettivo era di metterli al lavoro facendogli indossare i panni di un soggetto privato della libertà, spingendoli ad articolare i contenuti della vita libera, le sofferenze della cattura e della cattività, eventualmente escogitare vie di fuga o strategie di sopravvivenza rispetto a questa situazione.

Abbiamo fornito delle domande-guida più neutre possibile.

Domande guida per il testo

  • Chi sono?
  • Come mi chiamo? Qual è il mio aspetto?
  • Dove vivevo prima?
  • Vivevo da solo o avevo una famiglia?
  • Avevo degli amici e delle amiche? Chi?
  • Mi piaceva la mia vita?
  • Cosa mi piaceva della vita in libertà?
  • Come mi hanno catturato?
  • Come è la mia vita adesso qui nello zoo?
  • Come è la mia gabbia?
  • Cosa faccio tutto il giorno?
  • Chi mi da da mangiare?
  • Cosa mangio?
  • Chi vedo qui allo zoo?
  • Adesso come sto? A cosa penso?

Dopo una prima stesura abbiamo fornito loro una breve scheda sulle caratteristiche somatiche, di alimentazione e di comportamento dei rispettivi animali, in modo da permettere loro di revisionare il proprio testo arricchendolo di dettagli. Al termine, avendo come riferimento un’immagine dell’animale, lo hanno disegnato. I lavori sono stati raccolti in un libretto.

Testi di immedesimazione

 

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Nei testi la matrice del libro di Pennac emerge in modo molto forte, la vicenda di Lupo Azzurro funziona da guida ai bambini, ma sembra anche saldamente condivisa e introiettata negli elementi etici che la caratterizzano. Spesso i bambini includono nei racconti interessi particolari che esulano dal tema, segno che hanno provato a trovare spazio per sé, sia nei dettagli un po’ stranianti (i calciatori preferiti, gli zombie), ma anche negli elementi personali legati alle esperienze di amicizia e a quelle familiari.

Molti particolari inoltre sono tratti dal racconto di Nella e declinati nel nuovo contesto; ad esempio tutti i riferimenti al cibo scarso, “schifoso”, innaturale (un leone scrive: “mi danno delle cose super disgustose, bleeh”) che non sono presenti nel racconto di Lupo Azzurro: segno che l’osmosi tra i due campi ha funzionato, almeno in parte.

Ci sono passaggi fortemente espressivi, che mostrano come il lavoro di ogni bambino abbia assunto articolazioni complesse. Lo spaesamento del luogo di reclusione nelle parole del puma diventa “qui nello zoo mi sento sconosciuto” e lo straniamento anche linguistico è espresso dal lupo alpino: “mi portarono in una specie di figurazione di animali, oppure come la chiamano gli stupidi uomini cioè ‘zoo’”.

Il pianto e la tristezza degli animali sono segnalati in molti racconti, il coniglio scrive: “vedo sempre ogni giorno gli animali tristi che non sono liberi”. La questione razzista è stata solo accennata a grandi linee, ritenendo più comprensibile – in questo primo approccio – spiegare le motivazioni della repressione della Resistenza piuttosto che la persecuzione degli ebrei, ma ugualmente una bambina ha deciso di intitolare il racconto del suo animale dalla livrea viola La lupa ebrea.

Le strategie di resistenza alla durezza della reclusione hanno spaziato dal tentativo di fuga (un leone scrive: “meglio morire che stare in gabbia”) o dalla riacquisizione naturale della libertà (il leone australiano scrive: “poi però mi hanno fatto uscire e la polizia della natura mi ha rimandato alla mia vita”), agli adattamenti psicologici come inventarsi degli amici (Koala: “io stavo dormendo da venti ore e mi sono risvegliato con un sasso che sembra un amichetto”). C’è chi considera gli aspetti non negativi che la nuova situazione comporta (una leonessa: “La mia gabbia è grigia ma grande, quindi è bella, dai, tutto il giorno mangio, mi arrampico sul ramo doppio e alto e mi faccio scattare foto dalle persone e mi metto in posa”) o che trae dall’esperienza l’occasione per conoscere realtà diverse (la cangura: “Qui allo zoo ho notato che le pecore hanno la testa simile a noi canguri e ho scoperto che i koala mangiano le stesse foglie che mangiamo noi”).

 

Gita a Fossoli e lavoro finale

A quel punto abbiamo avuto la possibilità di andare a Fossoli, a visitare il campo. Abbiamo costruito le gigantografie di Nella e di Lupo Azzurro e siamo partiti.

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Ci ha guidato nella visita un operatore del campo ed erano con noi anche Viviana e Stefano che ci hanno accompagnato come progetto Speme. Abbiamo chiesto di tarare l’accompagnamento all’età dei bambini e ci hanno guidato alla storia del campo e alle sue caratteristiche, prestando particolare attenzione ai luoghi in cui passarono Nella e i suoi familiari.

Non abbiamo proposto lavori specifici per rielaborare la visita, abbiamo solo fatto scrivere sul “quaderno dei pensieri” ciò che li aveva maggiormente colpiti in quella occasione. Comprensibilmente la giornata è emersa come momento significativo sia per la conoscenza diretta degli aspetti reali e concreti di una storia che fino ad allora era rimasta fortemente intrecciata alla narrazione fantastica, sia per gli aspetti caratteristici dell’esperienza di gita: il viaggio in pullman, il gioco, il pranzo al sacco…

Abbiamo invece pensato nelle settimane successive di fare una rielaborazione più ragionata e collettiva dell’esperienza, provando a costruire insieme un grande cartellone che sintetizzasse e mettesse insieme la storia di Nella, quello che avevamo appreso con la gita al campo e la precedente riflessione sugli animali reclusi negli zoo.

Attraverso una discussione collettiva i bambini hanno scelto di preparare un grande cartellone con il campo di Fossoli da una parte e il regno della libertà dall’altra. Al centro il grande cancello che si apriva per la liberazione. Ognuno dei bambini si sarebbe disegnato come animale o come partigiano o partigiana, a libera scelta (abbiamo distribuito stampe di foto di partigiani e partigiane per avere un esempio da seguire). Abbiamo anche fatto riprodurre ad un bambino un gruppo di partigiani (la foto della brigata Senigaglia) a cui poi avremmo messo le facce fotografate e fotocopiate dei bambini della classe.

Tecnicamente i disegni sono stati fatti su fogli normali e poi noi maestri li abbiamo scansionati, ingranditi e stampati su più fogli: a quel punto i bambini hanno ricomposto il loro disegno ingrandito incollandolo, quindi lo hanno colorato e ritagliato e infine li abbiamo incollati tutti sul grande cartellone che veniva dipinto con pennarelli e tempere in un lavoro a gruppi. Il cartellone terminato ci ha permesso di condensare in un’immagine composita i tanti contenuti di questo percorso sulla liberazione.

L’ultimo passaggio, ad anno scolastico terminato, si è svolto nella nostra aula dove i bambini che potevano hanno accolto i referenti del progetto Speme per raccontare l’esperienza e illustrare il cartellone.

 

Bilancio
  • Affrontare il tema dell’allevamento intensivo si è rivelato un parziale errore. L’argomento in seguito è stato abbandonato perché complesso e comunque ci avrebbe portato troppo lontano dall’obiettivo che ci eravamo posti. Ovviamente il lavoro fatto con quelle foto non è stato controproducente, semplicemente abbiamo iniziato un percorso che poi non è stato possibile approfondire. L’attività svolta è stata comunque utile sia per l’esercizio di lettura delle fonti fotografiche (capacità di osservazione, riflessione sul documento foto, sui personaggi e su chi scatta la foto), sia per l’introduzione di un tema che comunque rimane importante e con connessioni profonde con le vicende dello schiavismo e delle deportazioni. D’altronde, come la ricerca storica, anche la pratica didattica è fatta di andirivieni e spesso di strade da abbandonare, magari solo momentaneamente.
  • L’elemento vincente è risultato quello narrativo. La capacità di suscitare interesse, curiosità e partecipazione ci ha stupito, tanto che dovendo rifare il percorso probabilmente converrebbe partire dalla narrazione e collocare in un secondo momento le attività di discussione e di approfondimento. Tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso, nel dibattito che si aprì sulla didattica della storia, l’analisi dei documenti venne contrapposta alla narrazione degli eventi, portando un’importante critica ad una didattica trasmissiva che non prendeva in considerazione il ruolo attivo degli studenti e non contemplava una riflessione sulla costruzione del sapere storiografico. Quel dibattito è stato salutare, ma oggi possiamo affermare che il processo di insegnamento della storia è composito e complesso e si deve nutrire di entrambi gli elementi. Agendo sul doppio binario composto da narrazione e riflessione sulle fonti si dovrebbe riuscire a non perdere il piacere del racconto e allo stesso tempo a coltivare l’importanza dello sguardo critico sull’elaborazione del passato.
  • Probabilmente il grande interesse  per gli elementi storici messi in campo dal racconto meritava una trattazione più articolata. Forse bisognava predisporre alcuni elementi documentari da usare man mano che divenivano oggetto del racconto, come è successo con la pagina della declinazione del verbo amare con Mussolini che ha avuto un gran successo… in questo senso ad esempio avere avuto una macchina da scrivere in classe quando si parlava di preparazione dei volantini sarebbe stato di grande efficacia. In questo caso la “fonte” avrebbe funzionato sia come catalizzatrice dell’attenzione, sia come rimando ad una storia reale (quella della tecnologia) cui il racconto allude ma che non ne costituisce il tema centrale.
  • D’altronde avere affrontato in quarta classe questo argomento permette di avere spazio per riprendere i molti temi sollevati (ad esempio quello della Seconda guerra mondiale, che ha destato molto interesse, o quello di Mussolini e della propaganda esercitata a scuola, ma anche l’argomento poi abbandonato dell’allevamento intensivo) per riprenderli e approfondirli. Il prossimo anno potremo vedere anche direttamente parti dell’intervista a Nella, aprendo il discorso sulle fonti storiche e tornare sul delicato (ma importantissimo) confine tra storia e invenzione.

Note:

[1] https://www.speme.eu/

[2] https://www.fondazionefossoli.org/

[3] E. Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, Il Mulino, Bologna 2002.

[4] D. Pennac, L’occhio del lupo, Salani 1993 (I ed. francese 1984)

[5] L. Beccaria Rolfi, A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, Einaudi, Torino 1978.

[6]  https://www.memoriae1943-45.it/  e  http://www.ciportanovia.it/baroncini-nella