Un’esperienza di didattica laboratoriale: la mostra Firenze in guerra 1940-1944
Una mostra-laboratorio
Con Firenze in guerra 1940-1944 si è cercato di realizzare un percorso che intrecciasse le fonti classiche della ricerca storica ad altri linguaggi comunicativi, puntando quindi sulla interazione di materiali molto diversi per tipologia e provenienza[1]. Già la prima delle quattro stanze in cui si stendeva la mostra preannunciava questo orientamento. Al centro della sala, infatti, era stato collocato un grande tavolo, accessibile da tutti e quattro i lati, sopra cui – coperti da una lastra di plexiglas – erano collocati materiali diversi: testate particolarmente significative del quotidiano «La Nazione» (sullo scoppio della guerra civile spagnola, sull’introduzione delle leggi razziali o sulla morte di Pio XI), tessere e attestati del Pnf e delle organizzazioni della gioventù fascista, fotografie di manifestazioni pubbliche celebratesi a Firenze e una selezione di sussidiari e quaderni delle scuole elementari. Trovarsi di fronte la documentazione originale già all’ingresso della mostra ha colpito notevolmente il pubblico e, nello specifico, gli anziani e i giovani al di sotto dei diciotto anni: i primi per le proiezioni che effettuavano sul materiale esposto, che sollecitava il ricordo, ad esempio, di essere stati anch’essi inquadrati in quegli anni tra i “balilla” o le “giovani italiane”; i secondi perché quei documenti definivano un modello di società difficile anche solo da concettualizzare, in quanto costruita e organizzata su assunti antitetici a quelli loro trasmessi.
Un laboratorio in mostra
Le numerosissime visite guidate si sono giovate ampiamente del supporto fornito da questa documentazione. Spiegare alle classi quinte (quelle che hanno visitato in maggioranza la mostra), ma soprattutto alle terze ed alle quarte – che, invece, avrebbero affrontato questi argomenti solo negli anni successivi –, come l’idea della guerra pervadesse l’ideologia fascista ben prima che scoppiasse il secondo conflitto mondiale, e raccontare in dettaglio gli strumenti utilizzati dal regime per inculcare negli italiani sin da bambini il culto di essa, è indubbiamente stato più agevole ed efficace potendo sottoporre agli studenti le raffigurazioni della stampa per ragazzi e le pagine dei quaderni scolastici. La selezione dall’Archivio Indire ha riguardato prevalentemente quaderni contenenti esercizi di lingua e di aritmetica: dei primi abbiamo scelto di esporre soprattutto le pagine in cui gli scolari celebravano i miti del fascismo (il duce, la bandiera ecc.); dei secondi, invece, abbiamo messo in evidenza i problemi in cui le operazioni aritmetiche venivano svolte utilizzando metafore di guerra.
Un’altra illustrazione particolarmente funzionale per descrivere il mito del corpo maschile e della virilità, era costituita da una collage di fotografie prodotto dal regime, che ritraeva Mussolini impegnato in una serie di attività: prima sportive (alla guida di un’auto da corsa o di un aereo, mentre nuotava o praticava la scherma), poi lavorativo-manuali (sui campi agricoli, in fabbrica o nelle vesti di muratore), e infine in posa da condottiero. Introdurre il discorso sul fascismo illustrando le forme e i significati della sua propaganda – aspetto quasi del tutto omesso dai manuali scolastici, come hanno lamentato parecchi docenti –, è stato commentato positivamente dagli studenti, in particolar modo da quelli più giovani, che poco o nulla sapevano dell’argomento, e ha inoltre accresciuto la loro curiosità prima di addentrarsi nelle stanze successive.
Generazioni “in sharing”
Si è rivelato determinante all’affermazione della vocazione sperimentale della mostra aver avviato al suo interno il progetto di MemorySharing[2], iniziativa volta a raccogliere e valorizzare la trasmissione orizzontale delle storie individuali, sul modello già indicato dalla Public History[3]. Le memorie, si sa, non sono flussi accessibili a mano nuda, siano esse racchiuse in un oggetto o in una foto, ovvero custodite nei meandri della mente. Chi le detiene, infatti, per una pluralità di ragioni le preserva, ed è restio a tirarle fuori se non è adeguatamente sollecitato o, più semplicemente, se l’humus generale non si mostra recettivo ad accoglierle. Per questa ragione, la mostra è stata ideata come uno spazio attraversabile, proprio delle “città della guerra”, vivificato da raccoglitori/generatori di emozioni disseminati lungo il percorso – una vera e propria gimcana tra sagome che riproducevano gente comune dell’epoca: tablet contenenti documentazione archivistica (istituzionale e privata), monitor a parete e proiettori da cui venivano replicate le interviste fatte ad alcuni protagonisti, spezzoni audiovisivi di propaganda fascista e videoregistrazioni inedite di provenienza alleata[4].
L’impatto di questa architettura sul pubblico è stato dirompente, soprattutto sulle generazioni anziane. Firenze in guerra si è trasformata, infatti, in un ricettacolo di memoria viva, in quanto è riuscita ad attivare processi di recupero dei ricordi in molti visitatori che avevano vissuto gli anni del conflitto, e che fino ad allora, mossi dal desiderio di dimenticare quell’esperienza o – il più delle volte – indotti a credere che il vissuto individuale non potesse avere rilevanza “pubblica” (civile e storiografica) e nemmeno “privata” (per figli e nipoti), avevano preferito conservarli per sé, piuttosto che verbalizzarli e rielaborarli. Per costoro, lo spazio dedicato al MemorySharing ha rappresentato una tappa in cui fermarsi per ricordare e raccontare, e spesso i loro occhi si riempivano di lacrime. In quella stanza, questi visitatori “speciali” venivano accolti dai borsisti dell’Isrt, pronti ad ascoltare le loro storie e a prendere nota dei loro dati. Sovente si incontravano con i ragazzi delle scuole superiori che facevano le visite guidate, e a quel punto, intrattenendosi con loro, si poteva assistere ad un mutamento dei ruoli: il docente si posizionava in mezzo al gruppo accalcato di alunni, e tutti, in religioso silenzio, ascoltavano gli anziani spiegare gli eventi del periodo di guerra, mentre arricchivano il racconto con le circostanze di cui erano stati partecipi.
La mostra-laboratorio, insomma, ha consentito loro non solo di ripiombare dolorosamente nel passato, ma di vestire – anche solo per un giorno – i panni di precettori delle nuove generazioni, in virtù dell’essere testimoni di un’epoca per dirla con Annette Wieviorka[5].
Memorie di carta
Oltre a incentivare lo sfogo dei ricordi, a Firenze in guerra abbiamo anche lanciato l’appello a condividere le certificazioni private dei percorsi di vita: fotografie, quaderni e pagelle scolastiche, diplomi, ma soprattutto diari personali. La risposta che abbiamo ottenuto dalla cittadinanza è stata senza ombra di dubbio straordinaria: potendo godere di un buon appoggio dei media, che hanno diffuso il messaggio con una certa frequenza, un numero notevole di persone ha portato ciò che conservava in casa e che riteneva potesse essere utile rendere pubblico (o che, più semplicemente, aveva il piacere di donare). Prevalentemente abbiamo raccolto attestati di vario tipo, concernenti sia l’adolescenza (statini delle organizzazioni giovanili fasciste, diplomi e pagelle scolastiche) che l’età matura (congedi militari, esoneri lavorativi, diplomi al valor militare o riconoscimenti di attività partigiana); a portarli erano occasionalmente le stesse persone che poi si intrattenevano con noi e con il pubblico – dunque gli stessi soggetti a cui la documentazione faceva riferimento; più spesso, però, erano i figli o i parenti a voler consegnare i ricordi dei più anziani, in quanto impossibilitati a recarsi alla mostra o perché già deceduti.
Mentre la mole documentaria donataci è stata imponente, si è rivelata scarsamente fruttuosa la ricerca di materiale fotografico[6]. Probabilmente, come alcuni visitatori ci hanno riferito, ciò si deve in parte alla penuria di macchine fotografiche e di pellicola che caratterizzava il periodo di guerra. Tuttavia, è plausibile ritenere che tale carenza non riguardasse tutti i ceti sociali in egual modo e che, quindi, siamo riusciti a intercettare poco questi settori, o comunque abbiamo appena scalfito la refrattarietà a considerare la documentazione fotografica posseduta utile alla comunità cittadina e alla ricerca scientifica.
“Io c’ero, io scrivevo”. La raccolta dei diari
Una considerazione a parte va svolta per i diari, certamente una fonte storica di enorme valenza, tra le altre cose, per la irriducibilità dei punti di vista che contiene: questi testi, infatti, restituiscono sguardi su luoghi diversi, oppure identici ma da angolazioni opposte, e periodizzazioni non uniformi ma elastiche, sovente indice dell’importanza attribuita dall’autore ad alcune vicissitudini piuttosto che ad altre. Nella preziosa documentazione diaristica raccolta sono presenti queste peculiarità, ma vi si rintracciano anche elementi affini. Ne è un esempio l’attenzione che emerge nei confronti delle vicende che riguardano la città nel suo complesso – che distrae dalla propria condizione materiale hic et nunc–, perché si è stati protagonisti di episodi cruciali o in ragione di voci giunte da terzi; o i requisiti dirompenti di cui si carica la distruzione dei ponti nella individuale percezione identitaria, indipendentemente dal luogo in cui si trova la propria dimora, presentificando una tragedia vissuta, fino a quel momento, come un dramma familiare o microcomunitario.
Delle scritture ricevute (una decina circa), quelle stese nel momento stesso in cui gli eventi si svolgevano – circa la metà, ma di certo le più rilevanti – ci sono state donate dai figli degli autori; le altre, invece, frutto di rielaborazioni successive, sono state portate in prevalenza dalle stesse persone che le hanno composte.
È evidente che, per i requisiti che li caratterizzano, si tratta di testi che – forse più di ogni altra tipologia di fonte – abbisognano dell’intervento dello studioso, in un lavoro di interpretazione e collocazione sincronica entro le circostanze complessive da cui muovono, prima di essere resi fruibili[7]. Purtuttavia, l’esibizione di alcune pagine adeguatamente selezionate di questi diari, accompagnata da una mirata mediazione didascalica e da una chiara presentazione illustrativa, ha contribuito ad esaltare l’aspetto emotivo del pubblico, favorendo altresì la disposizione degli studenti a familiarizzare con un importante frangente della storia italiana – e, in questo caso, della storia della loro città.
Firenze in guerra nella rete
Il tentativo di utilizzare nuovi dispositivi di narrazione del sapere storico, non poteva non misurarsi con la rete e con le innumerevoli possibilità che questa offre[8]. Si è dunque immaginato un portale che non rappresentasse semplicemente la vetrina on line dell’allestimento o il suo corollario, ma che, piuttosto, costituisse “una continuazione della mostra con altri mezzi”. firenzeinguerra.com, infatti, è un sito interattivo da cui si può facilmente accedere a una parte consistente della documentazione esposta nei locali di Palazzo Medici Riccardi, prendere visione delle interviste ai testimoni e delle foto della città in guerra (tramite l’archivio digitale Historypin), conoscere e approfondire gli snodi principali del conflitto mondiale e gli eventi accaduti a Firenze nel quinquennio bellico, seguendo la “linea del tempo”; inoltre, sul sito internet della mostra è stato riversato il materiale che i cittadini hanno portano con la volontà di condividerlo. Per queste ragioni, firenzeinguerra.com costituisce uno strumento versatile per diffondere i risultati della ricerca che soggiace alla mostra, e si dimostra particolarmente utile a supportare il docente che voglia avvicinarsi ad un modello didattico di tipo laboratoriale[9].
Bibliografia
F. Cavarocchi, V. Galimi (a cura di), Firenze in guerra 1940-1944. Catalogo della mostra storico-documentaria (Palazzo Medici Riccardi, ottobre 2014-gennaio 2015), Firenze University Press, Firenze 2014
A. Criscione, Web e storia contemporanea, P. Ferrari, L. Rossi (a cura di), Carocci, Roma 2006
G. De Luna, L’occhio e l’orecchio dello storico. Le fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della storia, La Nuova Italia, Firenze 1993
L. Lelli, Didattica laboratoriale, in Annali dell’istruzione, n. 4-5, 2002
S. Luzzatto (a cura di), Prima lezione di metodo storico, Laterza, Roma-Bari 2010
S. Noiret, “Public History” e “storia pubblica” nella rete, «Ricerche Storiche», n. 2-3, 2009
Id., Storia pubblica digitale, «Zapruder», n. 36, 2015
A. Spaziante (a cura di), Il futuro della memoria: la trasmissione del patrimonio culturale nell’era digitale, CSI-Piemonte, Torino 2004
S. Vitali, Passato digitale. Le fonti dello storico nell’era del computer, Bruno Mondadori, Milano 2004
A. Wieviorka, L’era del testimone, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999
Note
[1] Per un approfondimento cfr. il saggio di Valeria Galimi, Firenze 1940-1944: nuovi modi per raccontare l’esperienza di una città in guerra.
[2] Il progetto è stato curato dall’Associazione culturale Acquario della Memoria, che dal 9 ottobre al 16 novembre del 2014 ha realizzato al Centro Espositivo SMS di Pisa una mostra multimediale simile alla nostra, Pane e bombe. Pisa 1940-1944. Sugli obiettivi di fondo del MemorySharing a Firenze in guerra cfr. il contributo dei documentaristi Filippo Macelloni e Lorenzo Garzella in F. Cavarocchi, V. Galimi (a cura di), Firenze in guerra 1940-1944. Catalogo della mostra storico-documentaria (Palazzo Medici Riccardi, ottobre 2014-gennaio 2015), Firenze University Press, Firenze 2014, pp. XXIII-XXV.
[3] Nata negli Stati Uniti alla metà degli anni Settanta, questa disciplina ha gradualmente preso forma anche in Europa. Come spiega Serge Noiret, tra gli studiosi maggiormente impegnati in Italia su questo terreno, «Public History è discesa della storia nell’arena pubblica, confronto con pubblici diversi, ed uso sistematico, per farlo, dei media di comunicazione di massa […]. La Public History è anche fruizione di discorsi storici per diletto culturale, ma esprime anche la volontà di molti soggetti che si situano al di fuori dell’ambiente universitario, di capire più in profondità i problemi del presente alla luce della loro storia. […] Si tratta infine di investire sulla memoria non soltanto usando le tecniche di conservazione delle fonti della contemporaneità, ma anche costruendole in ambiti virtuali (radio, televisione, fotografia, rete) o “fisici” (quando si pianificano parchi storici, musei e monumenti commemorativi), che immettono la storia nel quotidiano e introducono nella vita pubblica delle società la ricerca delle loro identità passate». Cfr. S. Noiret, “Public History” e “storia pubblica” nella rete, «Ricerche Storiche», n. 2-3, 2009, pp. 275-327, la citazione è alle pp. 277-278. Da diversi anni Serge Noiret cura il blog Digital & Public History, ricco di documentazione relativa a questo innovativo settore di studi.
[4] Per il percorso multimediale rinvio a V. Galimi, Firenze 1940-1944 cit.
[5] Il riferimento è a A. Wieviorka, L’era del testimone, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999 (1a ed. originale Paris 1998).
[6] La maggior parte delle foto ricevute ha come soggetto la persona che ce le ha donate o i suoi parenti. Molto pochi, invece, risultano essere gli scatti sulla città.
[7] Per un approfondimento metodologico sull’utilizzo in campo storiografico della fonte diaristica cfr. l’avvincente contributo di Sergio Luzzatto, «Cara Kitty». Una fonte diaristica, in Id. (a cura di), Prima lezione di metodo storico, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 143-61.
[8] Negli ultimi anni moltissimi storici si sono cimentati con questo tema. Tra i lavori più significativi si segnalano: S. Vitali, Passato digitale. Le fonti dello storico nell’era del computer, Bruno Mondadori, Milano 2004; A. Spaziante (a cura di), Il futuro della memoria: la trasmissione del patrimonio culturale nell’era digitale, CSI-Piemonte, Torino 2004; S. Noiret, “Public History” cit.; Id., Storia pubblica digitale, «Zapruder», n. 36, 2015, pp. 8-23.
[9] Per un quadro generale dei presupposti su cui si basa questo modello si veda L. Lelli, Didattica laboratoriale, in Annali dell’istruzione, n. 4-5, 2002, pp. 65-6, ma sugli aspetti metodologici e didattici delle pratiche di laboratorio nell’insegnamento della storia si veda A. Criscione, Web e storia contemporanea, P. Ferrari, L. Rossi (a cura di), Carocci, Roma 2006. Infine, significativi spunti sull’uso delle fonti audiovisive in classe sono contenuti in G. De Luna, L’occhio e l’orecchio dello storico. Le fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della storia, La Nuova Italia, Firenze 1993.