Editoria scolastica digitale: le questioni aperte
Sintesi a cura di Flavio Febbraro
Abstract
Ulisse Jacomuzzi (già Presidente e ora Consigliere del Gruppo Educativo dell’AIE – Associazione Italiana Editori e Amministratore delegato della casa editrice SEI di Torino), delinea le linee di intervento e di valutazione dell’AIE in merito all’editoria scolastica digitale nel contesto della situazione della scuola, anche in base a quanto emerge dalla legislazione in proposito e, soprattutto, del documento del Governo che confluirà nella legge 107/20151.
Premessa
Mi ero preparato a parlare di alcuni temi e, quindi, mi taccio su alcuni nodi che invece sono stati individuati negli interventi precedenti, che stimolano alla riflessione e che indicano anche in che periodo complesso e contraddittorio ci stiamo muovendo.
Per esempio noi stessi editori sappiamo che i nostri libri stanno “superfetando”, ovvero crescendo a dismisura. Quindi, l’indicazione che veniva dall’analisi svolta dell’editoria scolastica e che auspicava “un libro di 150 pagine…” sarebbe naturalmente da accogliere ma negli ultimi tre anni, da quando c’è il digitale, i libri di maggior successo sono quelli con maggiore paginazione. Io non so come mai: è come se il docente si sentisse rassicurato ad avere 1500 pagine invece che 1000: pare impossibile.
Un altro caso abbastanza paradossale: quest’anno nelle scuole secondarie di primo grado ha avuto un successo strepitoso un editore che ha fatto un’edizione di un libro ma, per il docente, ha prodotto un’edizione diversa. E com’era quest’edizione diversa, ad esempio per il libro di storia? C’erano le risposte! Il ragazzo aveva quindi la domanda: “In che anno fu incoronato Carlo Magno? Nell’800, nel 1000 o nel 1300?”. Sul libro per il docente c’era il segnalino alla data giusta, l’800. Queste sono le contraddizioni nelle quali ci si muove, la realtà che supera l’immaginazione.
Case editrici: investimenti e contraddizioni
Torno a quello che è il mio tema: le case editrici hanno accompagnato e accompagnano la digitalizzazione nella scuola italiana; milioni di pagine fatte più o meno bene, ebook, ebook plus, filmati: insomma tutto quello che si è riuscito a realizzare.
Hanno investito tantissimo, forse in maniera talvolta un po’ disordinata, ma anche loro hanno cercato di inventare e interpretare questa svolta, perché le case editrici sono fatte di redattori, sono fatte di autori che, non dico improvvisano, ma che tentano, che sperimentano, che provano. Posso dire per la mia casa editrice che negli ultimi cinque anni gli investimenti per il digitale sono stati ogni anno il 100% in più rispetto all’anno precedente, cioè ogni anno l’investimento è cresciuto del 100%, ma non voglio in questa sede discutere di quanto costi il digitale. Un altro elemento però contraddittorio è questo: l’adozione di libri solamente digitali è ferma, non cresce. Tutti gli editori oramai propongono il libro o in versione cartacea o mista oppure in versione digitale, ma non cresce l’adozione del libro digitale. Al contrario diminuiscono le vendite anche perché sempre di più i ragazzi accedono e scaricano illegalmente i libri digitali: questo è un dato di fatto.
La Buona Scuola: LIM e BYOD
Parto da un documento che dovrebbe essere la nostra Bibbia e cioè “La Buona Scuola”, che al punto 3.5 affronta il digitale e dice: «Per liberare la scuola ci vuole più connessione, anzitutto digitale». Poi ci sono le note un po’ dolenti: «Ad oggi solo il 10% delle nostre scuole primarie e il 23% delle nostre scuole secondarie è connesso ad Internet con rete veloce». Insomma, bisogna innovare. Allora il tema che si pone e che si è posto l’Associazione Italiana Editori è: “Bene, ma questa digitalizzazione, spinta o più o meno spinta, richiede che siano assolte certe condizioni: non è che ci si inventa la digitalizzazione; ci vogliono delle strutture, ci vuole non solo un pensiero ermeneutico sul digitale, ma ci vogliono gli investimenti, ci vuole una scuola dotata di strutture per accogliere il digitale. C’è un documento dell’OCSE 20132 che dice: «Il piano (parla del piano digitale italiano) ha stanziato euro 30 milioni all’anno per 4 anni ossia meno dello 0,1% della spesa pubblica per l’istruzione, ovvero meno di 5 euro per studente di scuola primaria e secondaria all’anno. Al ritmo attuale ci vorranno più di 15 anni per dotare l’80% delle classi italiane di LIM ovvero per raggiungere l’attuale livello di dotazioni del Regno Unito». Questa è dunque la situazione in cui ci troviamo ad operare.
C’è poi un passaggio in questo documento, “La Buona Scuola”, che ci lascia un po’ perplessi e dice: «Il processo di digitalizzazione della scuola è stato troppo lento, non solo per mancanza di risorse pubbliche. Abbiamo anche investito in tecnologie troppo “pesanti” come le LIM». E qui la nostra associazione, in effetti, rimane davvero stupita, perché viene naturale questa riflessione: “Ma come, avete messo le LIM dappertutto, noi editori abbiamo investito sulle LIM, e adesso più nessuna fiducia nelle LIM?”. Ci si domanda allora: “Che cosa, invece, al posto delle LIM?”. Nel documento, a questo punto, partono una serie di attributi e di aggettivi senza sostantivi perché è scritto: «La tecnologia non deve spaventare, deve invece essere leggera e flessibile […] Non deve essere costrittiva e catalizzare l’attenzione, ma deve essere abilitante, diffusa, personale, discreta, rispettosa del valore umano e dell’educazione, del valore sociale della didattica e infine [Attenzione!] il più possibile sostenibile per le nostre risorse pubbliche». Che è quello a cui alla fine il documento vuole arrivare. Prendiamo dunque nota di tutti questi aggettivi e ci chiediamo: “Quindi, cosa volete fare?”. Non si cita quasi nulla, ma si cita un’opzione molto interessante, ovvero il BYOD “Bring your own device”, che vuol dire “Porta il tuo tablet a scuola”.
Se volessimo scherzare, potremmo dire che si tratta di come quando si viene invitati a cena e l’ospite dice agli invitati: “Ragazzi, vi invito a cena, ma porta ‘teco’, cioè uno porti le lasagne, un altro porti i fagiolini…”. Il Ministero dell’istruzione, dell’Università e della Ricerca aveva dato nel Decreto Ministeriale 781 del 2013 questa indicazione prima della “Buona Scuola”: «All’interno dei dispositivi di fruizione, due sottoclassi di particolare rilievo sono quella dei dispositivi personali di fruizione (destinati ad essere usati dai singoli partecipanti al processo di apprendimento), come i tablet multimediali, e quella dei dispositivi destinati alla fruizione collettiva di contenuti in situazioni di didattica frontale e collaborativa, come le LIM». Adesso però sembra che questa posizione sia superata. Noi editori, comunque, girando per le scuole, ascoltando i docenti, c’è sembrato che queste LIM non siano proprio l’opzione peggiore e hanno comunque aiutato il processo di digitalizzazione della scuola italiana.
Siamo andati a vedere come funziona altrove. La slide che presento ci dice della penetrazione nelle classi della Whiteboard, praticamente la LIM, nel 2011. Nel 2011, in Gran Bretagna, era il 93%; da noi il 14%, atteso nel 2016 il 30%; siamo al 24% più o meno in questo momento, il 24,7% se non vado errato. Sono dunque delle scelte che ogni paese fa e, per esempio, la Francia è ancora al di sotto di noi, ha fatto altre scelte.
In fondo quello che noi chiediamo è solo che si scelga: basta solo che si dica che si va in una direzione piuttosto che in un’altra, perché, al di là delle battute su chi investe su questi strumenti come noi editori, c’è poi tutta una classe insegnante che deve essere formata e che ha cominciato ad essere formata sulle LIM. Sarebbe un peccato un po’ abbandonare a questo punto tutto quello che si è costruito.
La digitalizzazione della scuola: i costi
In un’ottica che veda digitale e libro non come sostitutivo l’uno dell’altro, ma come aggiuntivo l’uno all’altro, abbiamo fatto un’ipotesi di investimenti per lo stato italiano, individuando quattro scenari, e cioè: solo LIM, poi la banda larga solo per la classe, la banda larga per studente e il costo dei tablet. Abbiamo spalmato su cinque anni e il costo complessivo è di 2 miliardi 652 milioni. Questo è quello che consentirebbe di dotare la scuola italiana di una strumentazione adatta.
Poi ci sono altre possibili combinazioni: se si mette la banda larga soltanto per la LIM, se si mette la banda larga per la LIM e per il tablet, soltanto per il tablet, ecc. Nelle varie possibilità si va a finire a 4 miliardi e 340 milioni. Abbiamo calcolato anche un aspetto che di solito viene trascurato e che è il costo della manutenzione: se infatti salta una lampadina alla LIM è una tragedia, costa moltissimo e questi sono costi che vanno considerati; non basta insomma fare un intervento “una tantum” per passare al digitale, ma c’è un costo poi di dotazione. Questa è l’analisi della spesa annua. Vi ricordate che l’OCSE affermava nel suo rapporto: “ Voi spendete soltanto 5 euro ad allievo, in base a quello che è il vostro piano”?. Ecco, per mettere soltanto la LIM off-line e non on-line, il costo per alunno sarebbe di 20 euro, il costo per la classe sarebbe di 400 euro. Se proprio vogliamo esagerare, cioè LIM più tablet più banda larga per lo studente, che sarebbe però la base della nostra digitalizzazione della scuola, arriviamo ad un costo studente di 181 euro e di 3655 euro per classe.
Queste cifre le abbiamo ipotizzate non per fare necessariamente i conti in tasca allo stato italiano, ma di fronte di tanti aggettivi utilizzati per definire il digitale, forse sarebbe meglio tenerle presenti, basarsi sulla buona volontà di dirigenti e di docenti, ma anche rivedere in qualche modo gli investimenti che lo stato italiano vuole fare in cultura e in formazione.
Nota
1 La legge 107/2015, conosciuta come “La Buona Scuola”, entra in vigore a luglio 2015. Il documento a cui fa riferimento Ulisse Jacomuzzi è, dunque, il Decreto di Legge oggetto di dibattito pubblico a partire da settembre 2014.
2 Il documento, in versione originale, è consultabile all’indirizzo: http://www.oecd.org/edu/ceri/Innovation%20Strategy%20Working%20Paper%2090.pdf