1991. Lo sbarco della Vlora. L’Italia diventa l’approdo dei nuovi migranti
Abstract
Partendo dalla visione del film La nave dolce si affronta il tema delle migrazioni. Agli allievi viene fornito un testo che aiuta a definire la questione, mentre i documenti servono per storicizzare il problema, a decostruire alcuni preconcetti sulle migrazioni e conoscere l’esito sorprendente di quel fenomeno.
Durata
4 ore
Premessa
Le prime immigrazioni degli anni settanta, costituite prevalentemente da maschi africani (venditori ambulanti e manovalanza agricola e edile) e donne del sud est asiatico (badanti e domestiche), non crearono reazioni avverse , né preoccupazioni. Piuttosto vennero percepite come un aiuto per le donne italiane, in pieno percorso di emancipazione, che potevano occuparsi al di fuori delle mura domestiche grazie alle nuove figure lavorative che si facevano carico della cura della famiglia, di anziani e bambini.
Nel corso del decennio successivo, l’Italia da paese di emigranti è rapidamente divenuto paese di immigrazione. Il fenomeno ha avuto un’accelerazione nel 1991, dopo il crollo del muro di Berlino e la caduta dei regimi comunisti, fino a giungere alla situazione attuale, nella quale migranti di diversi continenti giungono in Italia, per fermarsi o attraversarla e entrare in Europa.
Testo per docenti
1991. Lo sbarco degli albanesi a Bari.
Italia e Albania. Una storia lunga secoli
Lo sbarco di oltre ventimila Albanesi l’8 agosto 1991 al porto di Bari, sulla nave Vlora proveniente da Durazzo, può essere considerato l’inizio di un fenomeno progressivamente sempre più consistente che da quel momento in poi ha coinvolto il nostro Paese e l’intero continente europeo.
La storia dell’Albania si era intrecciata con quella italiana da tempi molto lontani. Infatti esistono in Italia comunità albanesi – Arbëreshë – risalenti al XIV secolo, esito della fuga dall’occupazione turca ottomana. Inoltre, dall’antichità al Medioevo e all’età moderna, non sono mai cessati gli scambi tra le due rive dell’Adriatico. Le comunità albanesi in Italia hanno conservato la loro lingua, la cultura e le tradizioni nonostante ostacoli e ostilità, subiti nel corso dei secoli. Infatti, il riconoscimento ufficiale della minoranza linguistica albanese, è molto recente, perché risale alla legge 482 del 1999.
La storia dell’Albania
La storia dell’Albania è travagliata e complessa, connotata da incursioni, conquiste e sottomissioni: dai legionari romani, alle invasioni slave, alle truppe dell’impero ottomano, ai continui tentativi di annessione da parte dei regni balcanici (Serbia Bulgaria ), alla Repubblica di Venezia, poi, nel Novecento, caratterizzata dall’occupazione italiana, dalle pressioni dello stato iugoslavo, per terminare, nel dopoguerra, sotto il giogo di un regime comunista rigidissimo, di tradizione prima stalinista e poi filocinese.
Enver Hoxha, marxista-leninista, aveva combattuto contro il fascisti e i nazisti. Nel 1946 assunse la guida della Repubblica Socialista d’Albania, realizzando un regime stalinista e isolazionista. Impose l’ateismo di stato, l’insegnamento di una visione scientifico-materialista del mondo, la confisca di chiese, monasteri e moschee, la repressione dei diritti civili, l’abolizione delle libertà di religione, di parola di stampa e di associazione.
Ormai malato, nel 1982 cedette il comando a Ramiz Alia. Questi cercò di avviare politiche riformiste sotto la spinta dei mutamenti che stavano avvenendo nell’Est Europa, dove i partiti comunisti andavano frantumandosi insieme ai sistemi politici che rappresentavano. Alia si dimise dopo la vittoria del Partito Democratico alle prime elezioni multipartitiche del 1992. Sali Berisha, medico, politico di lungo corso dal momento che era cresciuto nel partito del Presidente Hoxha, era il leader del vittorioso del Partito Democratico. Presidente dal 1992 restò in carica fino al 1997.
Durante la transizione dal comunismo all’economia occidentale, l’Albania pagò il prezzo delle scellerate politiche economiche e finanziarie e degli antagonismi tra leader che non ammettevano le proprie responsabilità: un sistema finanziario bancario corrispondente agli interessi di pochi, precarietà diffusa, corruzione pervasiva, povertà dilagante, portarono il Paese al tracollo con conseguenti proteste popolari e caos ingovernabile.
L’Albania e il post comunismo
La situazione, quanto mai instabile, aggravata dal forte isolamento e dai contrasti interni esacerbati dalla contrapposizione feroce tra nord e sud del Paese, tra centri urbani e campagne, divenne economicamente e socialmente esplosiva. Perciò molti albanesi fuggivano verso l’Italia, traghettati da affaristi senza scrupoli. Questi, in un giorno torrido di agosto del 1991, sequestrarono la nave Vlora al porto di Durazzo, approdata da Cuba per scaricare zucchero. Il comandante Halim Milaqi fu costretto a ripartire con un carico di umanità, quasi ventimila uomini, donne e bambini, stipati per ogni dove e abbarcati fino sugli alberi della grande nave mercantile.
L’Italia era immaginata dagli albanesi come il paradiso da raggiungere, il luogo del benessere e della prosperità. I media avevano diffuso l’immagine di un eden a due passi da casa. Ogni rischio sembrava legittimo, nella speranza di trovare Lamerica sull’altra sponda dell’Adriatico. Purtroppo la realtà non corrispondeva all’idea che gli albanesi si erano fatti dell’Italia. L’arrivo fu drammatico: donne, uomini, bambini assetati e affamati trovarono un paese indifferente, poco disposto ad accogliere estranei, nel quale non c’erano ricchezze facili, vita agiata e benessere a portata di mano.
L’accoglienza
Le Istituzioni non erano preparate a fronteggiare l’arrivo in massa di tanti migranti. Quella marea umana fu raccolta dentro lo stadio della Vittoria, improvvisato campo di concentramento, trattata alla stregua di deportati o, come denunciò Don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, come bestie.
Seguirono otto giorni di autentico assedio: i violenti tennero in ostaggio tutti gli altri, la polizia presidiava gli accessi allo stadio, acqua e cibo venivano lanciati dall’alto e solo successivamente consegnati ai cancelli. Di notte gli assediati cercavano un varco per sparire all’esterno. I contrasti fra il Sindaco di Bari Dalfino e il Prefetto furono molto forti. Il Sindaco chiedeva l’esercito per allestire tendopoli, cucine da campo e infermerie. Alla fine nulla di tutto ciò fu fatto. Si pensò che sarebbe stato meglio mostrare un’Italia meno accogliente possibile, per dissuadere ogni altro tentativo di approdo. Infine arrivarono autobus e traghetti per il rimpatrio e, con l’inganno, i più furono rispediti in Albania.
La convivenza e l’integrazione in Italia
Da quel primo arrivo massiccio, e dopo gli altri che seguirono, le relazioni tra Italia e Albania hanno assunto nuovi profili. Si è realizzata gradualmente una fitta rete di scambi commerciali economici ed umani. La iniziale percezione che gli italiani avevano degli albanesi, come delinquenti e invasori, sembra gradualmente e faticosamente cedere il posto ad una diversa considerazione: di persone lavoratrici e rispettose delle regole.
Gli arrivi sono stati sottoposti ad accordi bilaterali. Le presenze hanno determinato un impatto abbastanza positivo sia sotto l’aspetto sociale che economico. Si è avuto un aumento dei flussi per ricongiungimento ed una diminuzione degli ingressi irregolari. Non c’è più occasione di lucro per i traghettatori di disperati.
Se diamo uno sguardo ai numeri relativi alle presenze di immigrati oggi (2016) in Italia vediamo che la percentuale di stranieri è l’8,2% della popolazione totale, per complessivi 5.014.437 individui. Un numero decisamente rilevante, caratterizzato, secondo i dati Istat relativi all’anno 2015 dalla prevalenza delle seguenti nazionalità: rumena (22%), seguita da quella albanese (10,1%) e marocchina (9,2%).
Gli albanesi, dunque rappresentano la seconda comunità straniera residente in Italia. Hanno non di rado realizzato ragguardevoli obiettivi professionali ed umani. Alcuni sono diventati professionisti di grande reputazione: medici, ingegneri, cuochi, pasticceri di fama, artisti, ballerini, attori scrittori, intellettuali.
Così dice il regista Gianni Amelio, a proposito di un immigrato di successo, il ballerino Kledi Kadiu:
“Ha fatto più Maria De Filippi con il suo Kledi valorizzando ragazzi che diventano idoli dei nostri figli, di cento convegni seri sull’immigrazione”.
A sua volta, l’Albania ha assunto un ruolo attivo nell’accoglienza dei profughi. Ciò è accaduto nel corso della crisi del Kosovo (1999), quando la popolazione di quella regione, appartenente allo stato serbo ma a maggioranza albanese, cercò scampo dalla guerra, fuggendo sia in Albania, sia in Macedonia
L’Albania, allora, divenne base della Missione Arcobaleno (missione umanitaria gestita da Esercito Italiano e Protezione Civile per accogliere e sostenere i profughi e favorire la riorganizzazione del Kosovo).
Nel 2009 l’Albania è entrata a far parte della Nato. Successivamente ha fatto richiesta di entrare nell’Unione Europea. Negli ultimi anni, si registra il fenomeno inverso, quello della migrazione di ritorno, in concomitanza – da una parte – con la crisi economica che ha colpito l’Italia nel 2008; e – dall’altra – con lo sviluppo economico che sta interessando, al contrario, l’Albania (http://www.eastjournal.net/archives/79174 ).
Bibliografia
- Grazioli Cesare, Gli stereotipi sulle migrazioni, Novecento.org, n. 4, giugno 2015. DOI: 10.12977/nov71
- Pugliese Enrico, L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Ed. Il Mulino, 2007
- Della Zuanna Gianpiero, Immigrazione e mercato del lavoro in Italia, in IL MULINO 6/15 anno LXIV n° 482
- Raineri Luca, Geopolitica delle migrazioni africane verso l’Italia, in IL MULINO 3/16 Anno LXV n° 485
- Devole Rando, La campagna d’Albania dei media italiana, in LIMES 5/10/1997
- Canali Laura, Da dove vengono i migranti: chi bussa alla nostra porta, in LIMES 17/07/2015
- Canali Laura, Macedonia/Albania: le terre mobili, in LIMES 2/2001
- Biagini Antonello, Storia dell’Albania contemporanea, Bompiani, Milano 2005
Filmografia
- LA NAVE DOLCE di Daniele Vicari, Produzione Cecchi Gori, 2012
- LAMERICA di Gianni Amelio, Produzione Mario e Vittorio Cecchi Gori, 1994
Sitografia
- http://video.repubblica.it/edizione/bari/vent-anni-dal-grande-sbarco/63417/62064
- http://youmedia.fanpage.it/video/aa/Vt1LS-SwhoJYRncx
- www.kavajaonline.com
- http://www.dossierimmigrazione.it/
- http://www.historialudens.it/didattica-della-storia/159-cinque-stereotipi-sull-immigrazione.html www.unar.it
- http://www.treccani.it/enciclopedia/comunita-albanese_(Enciclopedia-dell’Italiano)/
- http://www.limesonline.com
- http://storicamente.org/bego_albania_1997
Testo per allievi
1991 primo sbarco di albanesi: l’Italia diventa l’approdo dei nuovi migranti
Le prime immigrazioni degli anni settanta costituite prevalentemente da maschi africani (venditori ambulanti e manovalanza agricola e edile) e donne del sud est asiatico (domestiche) non avevano creato reazioni avverse, né preoccupazioni. Piuttosto venivano percepite come un aiuto per le donne italiane, che, in pieno percorso di emancipazione, entravano nel mercato del lavoro
Negli anni Novanta dello scorso secolo numeri consistenti di immigranti giunsero nel nostro Paese dalla sponda orientale dell’Adriatico. Cadevano i regimi comunisti, e le persone, finalmente libere di spostarsi, potevano muoversi verso il mondo occidentale, un luogo – essi pensavano – paradiso delle libertà, del benessere, della vita agiata.
L’Albania rappresenta un caso paradigmatico della transizione dal comunismo al post comunismo, sia per le difficoltà interne di organizzare un nuovo sistema statale, sociale ed economico, sia per le povertà diffuse. Di conseguenza furono migliaia gli Albanesi che sfidarono le acque dell’Adriatico alla volta di quella che pensavano essere la terra promessa. L’evento più clamoroso è l’approdo della nave mercantile Vlora, l’8 agosto 1991, al porto di Bari. Era carica di uomini, donne e bambini appollaiati sugli alberi, stipati in ogni angolo e sul ponte. Più di ventimila persone l’avevano assaltata nel porto di Durazzo, sequestrando il comandante Halim Milaqi e imponendogli di fare rotta verso le coste italiane.
Le istituzioni italiane furono colte di sorpresa. Non riuscivano a organizzarsi. Era estate. Tutti erano in vacanza. Il governo scaricò le sue responsabilità sulla regione, e questa alla città e alla Croce Rossa. Nessuno riusciva a prendere decisioni efficaci. La marea umana, che si era riversata sul molo del porto di Bari, fu bloccata e condotta e poi rinchiusa nel campo di calcio cittadino, lo Stadio della Vittoria.
Il sindaco di allora prese decisioni in contrasto con la Presidenza della Repubblica e i Ministeri preposti. Molti denunciarono l’assenza del Ministero degli Interni e della Protezione civile. La gran parte dei giovani fu rispedita in Albania con un inganno. Associazioni e singole persone generose e sensibili si adoperarono con grande sollecitudine ed efficacia per rendere meno dolorosa la vita all’interno di quel campo di concentramento improvvisato. Don Tonino Bello ebbe parole durissime, di condanna per il trattamento disumano. Molti fuggirono ai controlli e riuscirono a fermarsi in Italia dove iniziarono una nuova esistenza.
Da allora la dimensione e la tipologia degli approdi in Italia è mutata per numero e provenienze. Molte cose sono cambiate da allora nel tessuto sociale del nostro Paese, la crisi economico –finanziaria che lo ha colpito ha mutato i rapporti socio- economici. L’Italia sente il peso di una crisi economica fortissima che lascia pochi spiragli di ottimismo. Al contrario, l’Albania è entrata in una fase di sviluppo che spinge molti migranti a tornare in patria.
Nel frattempo la comunità albanese residente in Italia (seconda per numero di componenti tra le comunità straniere) sembra essersi integrata in modo abbastanza soddisfacente, smentendo i numerosi pregiudizi anti-albanesi, che avevano accompagnato quella prima, grande invasione.
Dossier di documenti
DOC 1
Il video vuole dare una percezione immediata della dimensione dello sbarco. Gli articoli tratti dal “Corriere del Mezzogiorno” descrivono con evidenza la situazione creatasi con l’arrivo di un così grande numero di persone e le reazioni contrastanti delle istituzioni colte impreparate e inclini al rimpallo di responsabilità, ma anche, a distanza di tempo, la valutazione delle interazioni innescate e del processo di integrazione maturato.
- Il video dell’arrivo al porto di Bari della nave Vlora proveniente da Durazzo con a bordo oltre ventimila uomini donne e bambini il 7 agosto 1991 https://www.youtube.com/watch?v=8bmqqbKBxb8
- Articolo di Leo Lestingi del 10 agosto 2011 riguardante le reazioni del vescovo di Molfetta, don Tonino Bello
- Articolo di Luigi Quaranta del 8 agosto 2011 in occasione dell’anniversario dello sbarco della Vlora, con la cronaca dell’accoglienza dei ventimila albanesi
- Articolo di Alessandro Leogrande del 14 maggio 2016 relativo alle modalità di integrazione seguite allo sbarco della nave Vlora.
DOC 2
VLORA, L’INDIGNAZIONE DI DON TONINO
L’esodo degli albanesi in fuga dalle repressioni di un regime agonizzante era già cominciato, nel 1990, in un’Italia distratta dai Mondiali di calcio. Nel porto di Brindisi, ad esempio, erano sbarcate 4mila persone che avevano chiesto asilo politico nelle ambasciate europee di Tirana.
Don Tonino Bello aveva seguito con trepidazione questa prima fase dell’esodo. E proprio a Molfetta era arrivata anche una famiglia con una bambina ammalata che i genitori volevano far curare in Italia. Don Tonino prese a cuore il loro caso, impegnandosi a cercare anche una sistemazione; li accompagnò per ben due volte a Roma, al ministero degli Interni, per sollecitare la concessione del permesso di soggiorno; anzi, non avendo posto sufficiente in macchina, mise a loro disposizione la sua auto, raggiungendoli la mattina dopo e viaggiando tutta la notte in treno. A marzo dell’anno dopo, l’ondata di esuli coglie di sorpresa tutti; sbarcano a Brindisi, a Bari, a Otranto e anche a Molfetta. Con tutte le associazioni della diocesi, don Tonino mette in atto un vasto piano di accoglienza, utilizzando il seminario regionale, conventi semivuoti, convitti e scuole; il vescovo gira instancabilmente per le comunità con i volontari chiedendo aiuti, e solo a Terlizzi, nel giro di un paio d’ore, riempie quattro macchine di biancheria e di vestiario. Ma arriva agosto, con lo sbarco della Vlora nel porto di Bari.
I profughi vengono sistemati nello stadio della Vittoria e al porto. Alcuni si sono sparpagliati in città, trovando rifugio nei giardini, alla stazione, presso qualche famiglia o chiesa; la parrocchia di Sant’Enrico, nei pressi dello stadio, ad esempio, accoglie «clandestinamente» una famiglia di quattro persone e assiste come può altri profughi. Il 10 agosto don Tonino corre al porto di Bari, e poi allo stadio; quel che sta accadendo lo sconvolge e lo indigna. Sul petto porta la croce di legno e si fa largo a fatica fra gli agenti e la folla vociante; chiede ingenuamente se ci sono i ministri dell’Interno e della Protezione Civile; ma non c’è neppure un responsabile o un medico. Torna, allora, a Molfetta, e scrive per “Avvenire” (quotidiano di ispirazione cattolica) un lungo articolo:
«Le persone – si legge nel suo pezzo vibrante – non possono essere trattate come bestie, prive di assistenza, lasciate nel tanfo delle feci, mantenute a dieta con i panini lanciati a distanza, come allo zoo, senza il minimo di decenza in quel carnaio greve di vomiti e di sudore ; forse come credenti avremmo dovuto levare più forte la nostra condanna ed esprimere con maggiore vigore la nostra indignazione. Sono sconfitti e umiliati gli albanesi; sconfitti e umiliati anche noi, perché costretti a sperimentare ancora una volta come la nostra civiltà, che nella sbornia di retorica si proclama multirazziale, multietnica e multireligiosa, non sa ancora dare quelle accoglienze che hanno sapore di umanità…». Don Tonino si attirerà, fra l’altro, le dure e ironiche critiche dell’allora ministro Vincenzo Scotti, al quale, tre mesi dopo, scriverà una lettera che si conclude così: «…vedermi deriso come una bertuccia sulla stampa nazionale è stato peggio che prendere in testa una di quelle manganellate contro cui ho protestato. Le assicuro, comunque, che questo incidente non mi impedirà di incorrere nella recidiva e per giunta aggravata, qualora si dovessero presentare – Dio non voglia – analoghe situazioni in cui gli uomini vengono trattati come bestie da fiera…».
Leo Lestingi, “Corriere del Mezzogiorno”, 10 agosto 2011
DOC 3
E 20MILA DISPERATI FINIRONO PRIGIONIERI LO SBARCO DELLA VLORA VENTI ANNI FA.
In quei primi giorni dell’agosto 1991 il flusso degli arrivi di albanesi in Italia era ricominciato a un ritmo abbastanza sostenuto: il 7 agosto, a San Foca e Otranto ne erano giunti più di cinquecento stipati su due grossi pescherecci e dalle loro voci (oltre che da notizie di intelligence raccolte direttamente in Albania) si era appreso che migliaia di persone avevano invaso l’area portuale di Durazzo in cerca di imbarcazioni su cui tentare l’attraversamento dell’Adriatico: sull’ ”Unità” dell’8 agosto, Giampaolo Tucci scriveva addirittura che «si accalcano sulla nave Valona, un vecchio bastimento in riparazione».
Sui giornali che andavano in stampa mentre già la Vlora era in lenta navigazione verso l’Italia, si dava conto per altro conto di riunioni romane ai massimi livelli nelle quali i ministri dell’Interno Vincenzo Scotti, degli Esteri Gianni de Michelis, della Difesa Virginio Rognoni, dell’Immigrazione Margherita Boniver, quello della Protezione civile Nicola Capria avevano ribadito la linea del governo: respingimenti in mare e, quando e se gli albanesi fossero comunque arrivati a terra, rimpatrio immediato. Nessuno sembrava neanche immaginare che ci si sarebbe potuti trovare di fronte a numeri di difficilissima gestione. Il primo a rendersene conto fu Bruno Pezzuto, allora viceprefetto a Brindisi, oggi tornato a vivere da pensionato nella sua Trepuzzi dopo aver guidato le prefetture di Agrigento e Reggio Emilia. Quando, un paio di ore dopo la mezzanotte fu svegliato dal giovane consigliere di turno, non ci mise molto a capire che la massa che stava arrivando non era nell’ordine delle centinaia di persone, ma delle migliaia, molte migliaia. Ventimila, all’incirca. «Alle quattro del mattino la nave era in vista del porto, e da quello che mi riferirono gli ufficiali della Capitaneria che l’avevano vista, mi resi subito conto che noi, a Brindisi, non eravamo nelle condizioni di gestire la situazione. In quel momento avevamo, tra il campo di Restinco, un paio di
camping e qualche albergo, circa quattromila albanesi a Brindisi, in parte la coda del grande sbarco di marzo, in parte accumulatisi con lo stillicidio di arrivi delle precedenti settimane: non avremmo davvero saputo come far fronte a una nuova ondata di quelle dimensioni».
La fermezza di Pezzuto nel negare l’ingresso a Brindisi, la capacità di persuasione di chi gestiva i rapporti via radio con la nave albanese, forse anche il fatto che nella notte fresca e calma di agosto le condizioni di quella folla brulicante che letteralmente ricopriva la nave fino al fumaiolo, fino al torrino del radar (che infatti non funzionava più), convinsero Halim Milaqi, il comandante della Vlora a mettere la prora su Bari. Ci avrebbe messo quasi sette ore la Vlora a percorrere le 55 miglia scarse che separano i due principali porti pugliesi, sette ore nelle quali sarebbe stato possibile mettere in piedi un qualche dispositivo di accoglienza, ma non fu fatto praticamente nulla.
A Bari per altro non c’erano né il prefetto né il questore, entrambi in ferie, e le autorità cittadine, sindaco in testa, furono avvisate quando la nave era già in porto. Chi gestì la situazione sul campo pensò (sperò?) che disporre una sorta di linea di vedette e pilotine all’imboccatura del porto e tentare di “coprire” dal lato di terra la Vlora con la fregata Euro della Marina militare bastasse a rispedire la nave a Durazzo. Milaqi, circondato al timone da uomini armati e per nulla disposti a tornare in patria e consapevole sia della ridotta capacità di governo della nave che della crescente insostenibilità della situazione a bordo, mano a mano che il caldo cresceva e con esso la sofferenza delle migliaia di persone ammassate sui ponti e nelle stive, forzò il blocco comunicando di avere dei feriti a bordo e di non essere in grado di fare marcia indietro, e «avanti piano» entrò nel bacino portuale. La nave fu fatta ormeggiare nel punto più lontano dalla città, all’estremità della diga foranea, una banchina larga una ventina di metri, appena al di là dell’ultimo piazzale di carico, il cosiddetto molo carboni.
L’ordine arrivato da Roma era di tenere gli albanesi al porto, senza troppe, o meglio senza nessuna comodità, e di farli ripartire entro qualche ora, al massimo un paio di giorni con i traghetti all’uopo requisiti, ma fu subito chiaro che quel piano era quantomeno velleitario. Intanto perché gli albanesi non ci stavano. Prima ancora che la nave accostasse alla banchina centinaia di uomini si buttarono in acqua, in cerca di frescura e di una via di fuga.
«Dalla finestra – ricorda Tommaso Fidanzia, imprenditore i cui uffici ora come allora fronteggiano il mare – ne vidi a decine emergere bagnati dall’acqua, darsi una rassettata sommaria ed avviarsi lungo i binari della ferrovia verso via Napoli». Intanto sul molo si era riversata una massa incalcolabile di persone, fronteggiata sotto un sole feroce da poliziotti, carabinieri e anche qualche reparto dell’esercito. Si cercò di dare qualche conforto, cominciando dai feriti e da quelli che cedevano al calore, all’arsura accentuata dalla polvere di carbone: i colpi di sole furono decine, le ambulanze cominciarono a fare la spola tra il porto e gli ospedali cittadini (anche per qualche donna in avanzato stato di gravidanza: nacquero in quelle ore due bambini), mentre, anche grazie alla opera di coordinamento e di stimolo del viceprefetto Giuseppe Cisternino e del sindaco Enrico Dalfino veniva distribuita acqua e ci si cominciava a porre il problema di come e dove sfamare e far dormire quelle migliaia di persone.
Nacque così, un po’ casualmente, l’idea di trasferire gli albanesi nello stadio della Vittoria, nella convinzione che sarebbe stato possibile tenerli lì fino al rimpatrio. Che era e restava la soluzione che il governo era intenzionato a mettere in atto. Già a mezzogiorno gli autobus arancioni dell’Amtab cominciarono a trasportare gli albanesi nel vecchio impianto sportivo e continuarono a fare su e giù fino a pomeriggio inoltrato, quando all’interno dello stadio brillò la prevedibilissima scintilla della rivolta: i migranti capirono che, se fossero rimasti nelle cure delle autorità italiane, il loro destino sarebbe stato quello di essere rimandati in patria e cominciarono le prime fughe in massa. Si formavano gruppi di trenta-cinquanta persone che cominciavano a premere sulle transenne e sui cordoni di poliziotti all’ingresso dello stadio, che fatalmente finivano per cedere ovvero per consentire a gruppi piccoli e meno piccoli di albanesi di scappare. La risposta, sconsiderata, a queste sortite, fu la decisione delle autorità italiane di chiudere i cancelli di ferro che mettevano in comunicazione l’esterno e l’interno dello stadio e di sospendere i trasferimenti dal porto.
La controreplica albanese, fu di impossessarsi dello stadio, estromettendo con le brutte il personale che sul terreno di gioco si stava occupando di dare assistenza. Iniziarono così gli otto orribili giorni dell’assedio dello stadio, all’interno del quale i gruppi più violenti e più determinati di fatto tennero in ostaggio tutti gli altri, comprese non poche famiglie, compresi non pochi bambini. Poiché non c’era più libero accesso all’edificio e alle sue pertinenze, sorse il problema di come assicurare comunque i rifornimenti di acqua e cibo alle cinque-seimila persone che si trovavano all’interno. Nelle prime ore, prima che si stabilissero dei canali di comunicazione tra fuori e dentro, si arrivò a lanciare dall’alto di un’autoscala dei vigili del fuoco fardelli di acqua minerale e razioni di cibo, come si fa negli zoo con le bestie feroci. Dopo un paio di giorni si passò alla consegna dei viveri ai cancelli, direttamente nelle mani dei “capi” albanesi che provvedevano in autonomia alla distribuzione. Al calare della sera iniziava il gioco delle sortite: lo stadio allora non era come oggi circondato da una cancellata esterna, e gli assediati cercavano ora da una porta ora da un’altra di cogliere un varco nel dispositivo di polizia che cingeva l’edificio per dileguarsi nella notte: non furono pochi quelli che ce la fecero. Fu qui che si innestò la contrapposizione tra Dalfino e Cisternino, che eseguiva gli ordini di Roma. Superato il primo momento di sgomento, il professore democristiano che da un anno era sindaco di Bari cominciò a chiedere che la gestione dell’emergenza passasse all’esercito, la sola struttura che allora (la Protezione civile allora era poco più che uno schema di mobilitazione di strutture di altre amministrazioni) potesse allestire tendopoli, cucine e infermerie da campo, sì da alleviare le sofferenze di questa umanità dolente messasi in cammino alla ricerca di libertà e benessere. Tra l’altro, sui binari del Parco Nord era fermo, pronto per le emergenze, un convoglio della Croce Rossa. Il governo, intenzionato forse a rendere la permanenza in Italia degli albanesi la più scomoda possibile, rifiuta, assicurando che il ponte aereo e i rimpatri via traghetto metteranno fine all’emergenza in poche ore. Nei giorni seguenti la polemica trascenderà, fino all’insulto del Presidente della Repubblica Cossiga a Dalfino: «È un cretino, il ministro dell’Interno lo rimuova».
L’Italia, era quella la convinzione generale, avrebbe dovuto mostrare la faccia cattiva per impedire nuovi sbarchi, andava chiarito con tutti i mezzi agli albanesi che dovevano rimanere a casa loro. Dalfino ottiene solo di far montare in uno spiazzo adiacente allo stadio una piccola tendopoli: lì, a sera, le mamme albanesi portano a mangiare e a dormire i figli, e se li vengono a riprendere al mattino: una goccia di umanità nel mare di ferocia che circonda il Della Vittoria. Intorno al quale si susseguono tentativi di sortita, sassaiole degli albanesi contro la polizia, cariche della polizia contro gli albanesi che tentano la fuga. Al porto la situazione dell’ordine pubblico è poco più sotto controllo, anche se viene assalita e saccheggiata una nave battente bandiera maltese ormeggiata a poca distanza dalla Vlora. Il nove, arriva il traghetto Tiziano che comincia ad imbarcare i profughi mentre a gruppi di cinquanta altri albanesi vengono trasferiti all’aeroporto di Palese per essere imbarcati sui C130 dell’aeronautica. A tutti viene raccontata una bugia, che il trasferimento è verso altre città italiane, che l’aereo li porterà a Roma, la nave a Venezia, a Genova. Ci vogliono comunque tre giorni e l’arrivo di altri due traghetti, l’Espresso Grecia e il Malta, prima che il molo si svuoti del tutto. L’attenzione si concentra sullo stadio. Convincere quelli che sono rimasti lì dentro non è facile: domenica 11 agosto si calcolava che ne fossero rimasti poco meno di tremila, dopo che in molti, i più tranquilli, le famiglie, si erano fatti convincere dalle bugie sul trasferimento in altre città. Si cambia tattica: è il capo della Polizia Vincenzo Parisi che annuncia che chi accetterà di tornare in patria avrà in regalo un cambio di abiti e cinquantamila lire, una piccola fortuna in Albania. Molti accettano, non tutti. A questi ultimi dopo altri tre giorni di assedio viene riservata l’ultima bugia: «Avete vinto, potete restare in Italia», viene detto loro: appena escono dallo stadio vengono impacchettati sui pullman e portati all’aeroporto. Destinazione, scontata, Tirana. E senza neanche le 50mila lire. Il 16 agosto l “International Herald Tribune” e i giornali di tutto il mondo possono titolare che l’invasione di Bari è stata respinta.
Luigi Quaranta, “Il corriere del Mezzogiorno”, 8 agosto 2011
DOC 4
L’INTEGRAZIONE DOPO LA VLORA
Che effetto fa ricordare l’esodo albanese oggi che l’Adriatico, lo Jonio e l’Europa sud-orientale sembrano essere collocati al centro di un nuovo sommovimento della Storia? Di questo si è discusso sabato pomeriggio al Salone di Torino in un incontro organizzato nello spazio internazionale Babel dal Ministero della cultura albanese, dalla Regione Puglia e dalla Fondazione Gramsci di Puglia. Tema dell’incontro: “Narrare i confini, narrare il proprio paese e quello di fronte in parole e immagini”. Oltre a chi scrive, sono intervenuti la scrittrice Anilda Ibrahimi (tra gli altri, autrice per Einaudi dei romanzi Rosso come una sposa e L’amore e gli stracci del tempo) e il regista Roland Sejko (autore dei film Il paese di fronte e Anija – La nave).
Quell’esodo – successivo alla caduta del nostro Muro di Berlino, il Muro del Basso Adriatico – ebbe l’effetto di farci confrontare per la prima volta con un grappolo di parole e immagini entrate di prepotenza nel nostro immaginario comune: confini, frontiere, guerre, profughi, barconi, trafficanti, respingimenti, naufragi… È passato un quarto di secolo da allora. Ci sono state narrazioni, analisi critiche e non solo edulcorate della nostra storia recente. Venticinque anni sono un tempo sufficiente per rendersi conto di come l’Italia e l’Albania (i due paesi di fronte) siano cambiati nel frattempo. E per constatare, allo stesso tempo, come “confine” sia una parola stratificata. Così abbiamo capito che le relazioni tra Puglia e Albania affondavano le proprie radici in un’epoca anteriore a quella del “grande gelo”.
Allora gli albanesi vennero percepiti come l’Altro. Venticinque anni dopo, constatiamo come un’ampia comunità di circa mezzo milione di persone si è integrata nel nostro paese. Gli scambi tra le due sponde sono stabili, anche se non sempre vengono raccontati e analizzati a sufficienza. Ciò che allora sembrava infinitamente grande (e tale fu comunque, ad esempio, l’arrivo della Vlora nel porto di Bari) oggi appare infinitamente piccolo, se confrontato con gli esodi degli ultimi anni. Con i loro numeri, e con le questioni di ordine e disordine internazionale a cui rimandano. Tuttavia quel modello di conoscenza reciproca, che carsicamente si è messo in moto tra le due sponde adriatiche, può costituire un modello da irrobustire. Durante la transizione post-comunista ci sono stati anche momenti convulsi. Ma oggi che il progetto europeo sembra essere messo in crisi, a causa della chiusura in sé dei singoli stati-nazionali, specie dei paesi dell’Est di recente ingresso nell’Unione, le relazioni inter-adriatiche tra un pezzo di Sud Italia e un paese che nell’Ue ci vorrebbe entrare con uno spirito diverso, possono costituire un’eccezione. A patto che il narrare e il narrarsi con spirito critico vengano costantemente rinnovati.
Alessandro Leograndi, “Corriere del Mezzogiorno”, 14 maggio 2016
Suggerimenti didattici
Contestualizzazione
Negli anni novanta del Novecento, la vicenda albanese è parte del processo di dissoluzione dei regimi comunisti. Con l’aiuto del manuale e di un atlante storico confronta la situazione politica di allora con quella attuale. Prova a delineare un quadro sintetico dei cambiamenti politici, economici e sociali che interessano l’Europa ex-comunista.
Discussione
Analizza e discuti il differente impatto comunicativo, tra il documento video e i documenti scritti.
Fai le tue considerazioni sulle modalità di interazione tra i vari livelli istituzionali: contrasto tra Stato centrale e Autorità locali, il rimpallo di responsabilità, le decisioni prese con le conseguenze prodotte.
L’uso dello stadio come soluzione per accogliere i migranti richiama realtà concentrazionarie del periodo nazi fascista, ritieni che sia plausibile questo confronto?
Analizza l’indignazione di don Tonino Bello per la disumanità del trattamento riservato ad esseri umani in rapporto all’atteggiamento delle più alte cariche dello Stato che utilizzano bugie ed un clamoroso inganno pur di liberarsi del problema.
Il linguaggio utilizzato dalle massime cariche dello Stato rivela uno scarso rispetto per la dignità della persona, non solo verso i migranti. Pensi che, dopo alcuni decenni sia cambiato il rigore formale del linguaggio dei politici in Italia?