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Globalizzazione, guerre, migrazioni. 3 ottobre 2013: il naufragio di Lampedusa

Abstract

Le migrazioni attuali vengono inserite nel doppio quadro concettuale della globalizzazione e delle guerre. Il naufragio di Lampedusa è uno degli episodi più tragici di questa vicenda, che chiama in causa i rapporti fra Italia e Eritrea e la rimozione collettiva della storia coloniale italiana. Il percorso, arricchito da un’ampia scelta documentaria, partendo dalla tragedia di Lampedusa, permette di allargare la discussione al fenomeno complesso della migrazione.

Durata

Dalle 4 alle 6 ore.

Premessa

Il naufragio avvenuto il 3 ottobre 2013, a poche miglia dalle coste di Lampedusa, per il grande numero di vittime che ha provocato, costituisce uno degli episodi più drammatici verificatosi nel Mediterraneo e nella storia degli sbarchi di migranti in Italia.

Gli spostamenti di persone che abbandonano il proprio paese e che, in condizioni di estrema difficoltà, cercano di raggiungere nuovi luoghi in cui trovare migliori condizioni di vita rappresentano uno degli aspetti – il “fattore umano” – di quei fenomeni che prendono oggi il nome di “globalizzazione”. Per comprendere le migrazioni bisogna dunque partire dalla descrizione di tali fenomeni e dalla loro storia. Spesso i migranti “prendono forma” ai nostri occhi solo quando arrivano alle nostre frontiere e ben poco viene detto di ciò che precede il loro approdo o il naufragio, il loro viaggio, le ragioni della loro fuga. L’esplosione del fenomeno migratorio ha in gran parte radici nelle gravi difficoltà – e talvolta nella decomposizione – degli Stati postcoloniali. È importante quindi individuare il legame che unisce, anche attraverso il nostro passato coloniale, la storia di uno dei Paesi da cui proviene la maggioranza dei migranti che raggiunge l’Italia – l’Eritrea – alla nostra storia nazionale.

Testo per docenti

Globalizzazione, guerre, migrazioni

L’entità della catastrofe del 3 ottobre 2013 è conseguenza delle nuove forme assunte negli anni più recenti dai movimenti migratori nel Mediterraneo e, in particolare, da quelli provenienti dall’Africa. A partire dal 2011 è aumentato il numero di persone in fuga e l’Italia è diventata paese di destinazione e di transito. Secondo l’UNHCR sono state circa 23mila al giorno, nel mondo, le persone che nel corso del 2012 hanno abbandonato il loro paese d’origine, più del doppio rispetto a dieci anni prima, la maggior parte delle quali richiedenti protezione internazionale. Nel 2013, l’accresciuta instabilità dell’area mediterranea e mediorientale ha fatto aumentare ancora questi flussi.

L’immigrazione in l’Italia: un fenomeno recente.

Sul piano storico, l’arrivo dei primi gruppi di migranti comincia nei primi anni ’70 del Novecento, con l’inizio della crisi del petrolio. L’Italia viene scelta dagli immigrati che non possono più raggiungere i ricchi Paesi dell’Europa centro-settentrionale a causa delle politiche restrittive e della chiusura delle frontiere da parte degli Stati più industrializzati. I primi nuclei di stranieri che si insediano nel Paese sono di provenienza molto varia: ci sono i cileni rifugiatisi in Italia dopo il golpe di Pinochet del 1973; ma a Milano sono già attive comunità cinesi, egiziane, eritree; a Mazara del Vallo è numerosa la comunità tunisina impiegata sui pescherecci. Nel tempo, alle comunità straniere già presenti in Italia si aggiungono quella filippina, la cingalese, poi la brasiliana e negli anni ’80 inizia il grande afflusso di migranti dai Paesi africani, in particolare da Marocco, Tunisia e Senegal, che vanno ad aggiungersi agli altri gruppi nazionali africani già presenti (gli eritrei, i somali e gli egiziani). Per tutti gli anni Novanta si assiste all’ arrivo, in fasi successive, degli albanesi e, con la guerra del Kosovo (1999), si verifica quella che viene chiamata “l’ondata invisibile”: trascurati dalle autorità, 100.000 albanesi lasciano il loro Paese chiedendo asilo politico come cittadini Kosovari. Con le crisi del nuovo millennio cambiano in parte le distribuzioni dei luoghi di provenienza.

Globalizzazione: elementi essenziali

Tutta la storia umana è una storia di globalizzazione, se la intendiamo come il progressivo moltiplicarsi degli interscambi tra civiltà; tuttavia definire che cosa sia oggi la globalizzazione è tutt’altro che semplice. In generale, si può indicare con questo termine

un processo che lega le azioni di ogni singolo individuo a quelle degli altri (gruppi, associazioni, comunità, stati) e che vede l’intensificarsi delle relazioni sociali su scala mondiale, in modo da far dipendere ciò che accade localmente da eventi a grande distanza e viceversa [Scirè, 2012, p. 166]

In concreto, ci si riferisce di solito all’insieme dei movimenti di uomini, merci, capitali, informazioni e idee da un paese all’altro, da un continente all’altro. Secondo lo storico Christopher A. Bayly si deve guardare alla globalizzazione come a una «progressiva estensione nella scala dei processi sociali da un ambito locale o regionale a un ambito mondiale» [2002, p.48-49].

La globalizzazione si presenta come un processo multidimensionale, complesso, di natura economica, sociale e culturale, caratterizzato anche da consistenti fenomeni di spostamento di gruppi umani e da rapporti di interdipendenza più o meno stabili. Proprio perché la globalizzazione interessa diversi ambiti e non può quindi essere ridotta solo alla dimensione economico-finanziaria, occorre chiarire a quali fenomeni sociali si fa riferimento quando si parla di tale processo, che si presenta in modo vario e molto spesso con aspetti tra loro contraddittori.

La prima riflessione sistematica sul tema della periodizzazione fu effettuata a Cambridge nel 2000 in un seminario in cui furono individuate quattro sequenze di globalizzazione, distinte, ma storicamente sovrapposte e interagenti tra loro: a) una globalizzazione arcaica, b) una protoglobalizzazione profilatasi dopo il XVI secolo, c) una “grande” globalizzazione sviluppatasi dal XVIII secolo fino a tutto l’Ottocento, d) infine una globalizzazione postcoloniale, che data dal 1945, legata a alcune importanti trasformazioni sul piano economico, che si sono verificate a livello mondiale e che hanno in parte ridisegnato le forme di interdipendenza tra le diverse aree geografiche e dei processi di interconnessione. Dopo la seconda guerra mondiale, fino al 1973 si è verificata una crescita economica del tutto eccezionale, che, però, anche se ha coinvolto diverse aree del globo si è concentrata soprattutto in Giappone, in Europa e negli Stati Uniti. La forte crescita ha accentuato la tendenza a uno sviluppo diseguale, si aggravarono le distanze fra Nord e Sud del mondo.

Lo sviluppo di questa fase fu legato a un fortissimo aumento dei commerci internazionali che, per un ventennio, crebbero del 7% all’anno e fu accompagnato a una forte internazionalizzazione, che rese sempre più interconnesse le diverse economie nazionali. La lunga crisi seguita allo shock petrolifero del 1973 non arrestò la crescita, la rallentò, ma soprattutto introdusse importanti cambiamenti nella produzione e negli scambi internazionali. La supremazia occidentale iniziata con l’industrializzazione, rafforzata dall’espansione coloniale e ribadita fino al 1973 è stata intaccata dall’esplosiva crescita economica di alcuni paesi del resto del mondo. Fu il PIL dell’Asia (Giappone escluso) a entrare negli anni settanta in una fase di crescita impressionante, seguito – ma due decenni dopo e con incrementi molto più bassi – dall’America Latina, dall’ex blocco sovietico e dall’Africa.

Molto più veloce di quello dell’Europa e degli Stati Uniti al tempo della loro industrializzazione, lo sviluppo dell’Asia si configura come una sorta di riequilibrio del suo peso demografico e appare perciò una tendenza strutturale difficilmente reversibile.

L’alternarsi di fasi di sviluppo e di crisi non ha fermato il processo di globalizzazione e di interdipendenza economica tra le aree del globo. Questo, tuttavia, ha diminuito solo in parte e solo per alcune nuove aree di sviluppo le disuguaglianze a livello di crescita mondiale: più ineguaglianza vuol dire aggravarsi della distanza fra poveri e ricchi e la ricerca di un mondo migliore è uno dei motivi per cui si emigra.

Migrare, una prerogativa umana

Tutte le civiltà si sono costruite e rinnovate con le migrazioni. Alla base di questa idea c’è un filone di studi – che coinvolge le scienze umane, la demografia, l’economia – che chiama in causa la ricerca storiografica e pone l’esigenza di ripensare la periodizzazione, la storia del Novecento, quella dei secoli precedenti. I flussi migratori dei due secoli Ottocento e Novecento e inizio Duemila, non hanno precedenti nella storia per il loro volume e per la loro concentrazione in un breve arco di tempo.

Il fenomeno migratorio negli ultimi quarant’anni ha conosciuto un incremento significativo. Soprattutto a partire dagli anni Sessanta del Novecento, è costantemente aumentato il numero delle persone che risiedono in nazioni diverse da quelle in cui sono nate.

Tuttavia, più di recente, dal Duemila in poi le politiche dei governi hanno posto crescenti ostacoli alla circolazione delle persone, nel tentativo di arginare i flussi migratori. A differenza di quanto accade nel caso della circolazione delle merci, del commercio dei beni per cui è stata attuata una crescente liberalizzazione.

Migrazioni e globalizzazione oggi: che cosa sta cambiando.

Negli ultimi decenni la crescente mobilità delle società ha rivelato importanti mutamenti nelle forme migratorie tradizionali:

  1. il principale cambiamento sta riguardando le motivazioni che spingono i migranti a spostarsi dal proprio paese di origine; molto spesso all’origine dello spostamento non c’è un’unica ragione, ma un intreccio di fattori che rispondono a esigenze che si combinano tra loro;
  2. un altro importante cambiamento riguarda la direzione e la destinazione dei flussi migratori; c) ma anche la composizione di genere si è modificata nel tempo; d) tutti questi mutamenti hanno prodotto uno sviluppo della

Gli effetti di queste nuove tendenze dei flussi migratori oggi possono essere difficilmente valutati e c’è chi parla, per il periodo che stiamo vivendo oggi, dell’aprirsi di una nuova fase dei processi di globalizzazione che si sta disegnando tra mille incognite.

Una nuova figura di migrante: il rifugiato

Un dato deve essere sottolineato, tra quelli che indicano analogie e differenze tra i fattori all’origine dei movimenti migratori del passato e quelli attuali, ed è il diverso peso assunto dalle guerre dopo il 1945. Negli ultimi settant’anni le guerre hanno inciso più fortemente che in passato sui fenomeni migratori e oggi la fuga dalla guerra è diventata una delle principali motivazioni che spingono i migranti a partire. Al migrante mosso dal bisogno economico alla ricerca di una vita migliore si è aggiunta quindi una figura sostanzialmente nuova: quella del profugo. Il numero dei rifugiati, in ascesa fino al picco del 1990, in seguito è rimasto relativamente stazionario. Oggi il numero dei rifugiati è di nuovo in grande crescita.

Le caratteristiche dei conflitti sono cambiate: colpisce l’impetuosa crescita, dopo il 1946, dei conflitti all’interno degli stati e che, tra il 1975 e il 2009, hanno oscillato intorno all’80% del totale. Ciò ha significato un sempre più forte e drammatico coinvolgimento della popolazione civile: solo una minoranza dei morti stimati in questo periodo (circa 40 milioni) è costituita da militari, il 63% da civili.

Le guerre sono sempre più spesso connesse alla crisi della sovranità statale nei paesi postcoloniali, caratterizzati dalla debolezza delle istituzioni che, in paesi generalmente poveri, favorisce l’affermarsi di regimi autoritari e fenomeni quali il clientelismo e la corruzione. Ciò apre spesso la strada a conflitti armati e a vere e proprie guerre civili. Il fenomeno trova un puntuale riscontro negli sviluppi dei conflitti della fase più recente, la stragrande maggioranza dei quali è stata combattuta in Asia, in Africa e nel Medio Oriente, molto spesso per il disgregarsi degli stati che si erano formati con i processi di decolonizzazione.

I picchi nel numero dei civili morti si sono avuti nel 1947-48, nel 1971 e nel 1994 date che riguardano rispettivamente l’indipendenza dell’India/Pakistan, quella del Bangladesh e il conflitto tra Hutu e Tutsi nel Rwanda.

Nuove destinazioni

Durante la “grande migrazione” verificatasi fra Otto e Novecento (1846 – 1940) si mossero, a livello planetario, circa 150-160 milioni di persone. Di esse il 36% andò nelle Americhe, ma il resto si mosse attraverso l’Asia e nel Pacifico.

Occorre dunque, in primo luogo, sgombrare il campo da una vulgata a lungo accreditata dalla stessa storiografia: quella che colloca la “grande migrazione” esclusivamente fra le due sponde dell’Atlantico. In realtà, a fronte dei 46 milioni di migranti dall’Europa alle Americhe, dal 1846 al 1914 si mossero nel resto del mondo, e in particolare attraverso l’Asia, altri 61 milioni di persone: nel complesso, grosso modo 1 su 15 abitanti della Terra.

Dal 1960 al 2013 le persone residenti in un paese diverso da quello di nascita sono salite da 76 a 231 milioni. Questi migranti si sono mossi nell’ordine dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina e all’interno di questi continenti. 56 milioni sono arrivati nel Nordamerica, mentre l’Europa, dove negli anni Cinquanta le partenze superavano ancora gli arrivi, a partire dagli ultimi decenni del Novecento, è divenuta il principale luogo di destinazione (23%). Si è verificata dunque una storica inversione della direzione dei flussi migratori: dopo mezzo millennio l’Europa è divenuta una regione di approdo di migranti.

Un altro elemento nuovo è che mentre in passato una parte molto consistente dei migranti non si muoveva da paesi in via di sviluppo verso paesi sviluppati oggi la direzione dei flussi migratori è proprio questa, dai paesi più poveri verso quelli più ricchi. L‘Europa aveva infatti un tenore di vita medio superiore a quello di paesi quali l’Argentina e il Brasile che accoglievano molti migranti italiani e neppure le sue aree più povere erano distanti dalle altre come sono oggi i paesi poveri da quelli ricchi.

Composizione di genere dei flussi migratori

Cento anni fa tra i migranti europei diretti verso le Americhe i maschi in età lavorativa prevalevano sulle femmine in proporzioni che, a seconda dei gruppi etnici, andavano da due terzi a tre quarti. Oggi sia sullo stock mondiale degli immigrati, sia su quello dei rifugiati, le donne occupano quasi la metà del totale, senza grandi variazioni da un continente all’altro. Anche tra quelli di origine asiatica, storicamente più refrattari alla mobilità delle donne, la componente femminile è in forte crescita. In molti casi si tratta di ricongiungimenti familiari ed è evidente che questa novità potrà incidere anche profondamente sulle relazioni di genere all’interno delle famiglie e delle comunità di appartenenza, anche se una parte di queste donne è costituita da prostitute schiavizzate dai racket della malavita.

Il quadro normativo: italiano, europeo, internazionale

Iniziamo dal quadro normativo italiano e partiamo dalla norma costituzionale prevista dall’art.10. Particolarmente rilevante risulta la disposizione di cui al terzo comma sullo statuto dello straniero. Al comma 3, l’art. 10 enuncia che “lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. L’analisi di questo comma deve incentrarsi su due particolari questioni. La portata della protezione garantita dal nostro testo costituzionale è molto più ampia rispetto a quanto stabilito anche dalla Convezione di Ginevra del 1951, testo cardine del diritto internazionale per quanto riguarda i rifugiati. Mentre, infatti, la Convenzione non impone l’obbligo di ammettere nel proprio territorio richiedenti asilo e dà una definizione di rifugiato strettamente collegata alla persecuzione personale, il nostro art. 10, anche a causa della condizione di esule vissuta in prima persona da molti padri costituenti, è stato redatto con l’intenzione di dare diritto d’asilo a chiunque non goda nel proprio Paese delle libertà democratiche garantite dalla nostra Costituzione. Proprio questa portata così ampia, probabilmente non prevista in quel momento storico, ha impedito una vera applicazione di tale diritto nel nostro Paese. A questo si unisce la pressione esercitata dall’opinione pubblica, oscillante tra accoglienza e rifiuto, sugli interventi normativi che a partire dal 1990 hanno progressivamente affinato la struttura giuridica di quel fenomeno economico-sociale che è l’immigrazione. Ne ricordiamo le tre principali tappe.

  • Il primo intervento, la legge 39/1990 cosiddetta legge Martelli, si presenta formalmente come provvedimento in materia di rifugiati e profughi, argomento principale del testo di legge, che in effetti amplia e definisce lo status di rifugiato e il diritto di asilo politico a esso collegato. La seconda parte del testo si pone invece come un tentativo, per quanto tardivo, di regolamentare il rilevante aumento dei flussi migratori degli anni ’80, mediante una programmazione statale dei flussi di ingresso degli stranieri non comunitari in base alle necessità produttive e occupazionali del Paese. Si delinea ben presto quella che diventerà una costante della legislazione: la gestione dell’immigrazione da un punto di vista economico.
  • Il rapido evolversi del fenomeno, conseguenza del mutamento degli assetti internazionali, mette in luce l’inadeguatezza di quell’approccio, spingendo verso l’elaborazione di un quadro più completo che porterà prima alla legge 40/1998, la cosiddetta Turco-Napolitano, e successivamente al Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulle condizioni dello straniero (Dl 286/1998).
  • Su quel testo interverrà la legge 189/2002, conosciuta come legge Bossi-Fini, con un effetto punitivo. Nonostante l’intervento legislativo formalmente si configuri come una semplice modifica al Testo unico, in realtà comporta significativi cambiamenti, rendendo più difficoltoso l’ingresso e il soggiorno regolare (agevolando l’allontanamento degli stranieri), e – soprattutto restringendo la disciplina dell’asilo.

Va poi ricordato che la reale protezione dei rifugiati e delle persone bisognose di protezione internazionale andrebbe realizzata nel quadro della normativa europea. L’applicazione dei due decreti legislativi (il 251 del 2007 e il 25 del 2008) di attuazione di fondamentali direttive europee del 2004 e 2005 ed il richiamo nel Trattato di Lisbona alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (cui è riconosciuto lo stesso valore giuridico dei Trattati), rende vincolante il rispetto del diritto d’asilo secondo le norme della Convenzione di Ginevra, pur non con l’ampiezza garantita dalla nostra Costituzione (l’articolo 10 comma 3 sopra ricordato). Tali normative porterebbero ad una effettiva protezione dei diritti dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Il condizionale è però d’obbligo se si guarda alla realtà italiana, soprattutto dopo l’inizio della politica dei respingimenti in mare. Il respingimento dei migranti effettuati direttamente in mare verso la Libia (Paese non firmatario della Convenzione di Ginevra), infatti, non permettendo l’accertamento della presenza di persone che avrebbero diritto a qualche forma di protezione, viola ogni norma citata in questo commento. Per capire le dimensioni di tale ingiustizia, basti pensare che nel 2008 circa il 75% delle persone arrivate in Italia via mare ha fatto richiesta di asilo e che a circa il 50% di loro è stato riconosciuto lo status di rifugiato ovvero un altro tipo di protezione.

Chi erano i naufraghi di Lampedusa?

I migranti naufragati il 3 ottobre 2013 davanti alle coste di Lampedusa erano quasi tutti eritrei (360 su 366 vittime). Fuggiti dal proprio paese, avevano viaggiato attraverso il Sudan prima di giungere sulla costa libica, molti di loro dopo due anni dalla partenza. Perché gli eritrei scappavano e scappano ancora dal loro paese anche se oggi non c’è una guerra? E perché la domanda ci riguarda in modo particolare? Ci sono diverse ragioni.

  1. l’Eritrea è un’ex colonia italiana e costituisce una realtà sulla quale ha inciso il passato “imperiale” del nostro paese. Nella coscienza degli italiani, tuttavia, questo passato non ha mai raggiunto una reale consapevolezza, né ha dato luogo a una memoria storica capace di coinvolgere l’opinione pubblica negli avvenimenti che riguardano il Corno d’Africa;
  2. in Italia esiste una vasta comunità di eritrei che si è formata a partire dagli anni Sessanta, quando il legame con il nostro paese affondava ancora le radici nel passato coloniale di Asmara. Poi, con le guerre contro l’Etiopia – conclusesi con l’indipendenza eritrea nel 1991 – e il nuovo conflitto con Addis Abeba, iniziato del 1998 e che ha causato circa 100mila morti, ai migranti economici si è affiancato il flusso di chi fugge dalla guerra;
  3. pur rappresentando – tra i migranti che sbarcano in Italia – la comunità maggiore, gli eritrei non si fermano in Italia: solo un eritreo su cento formula la richiesta di asilo nel nostro paese. Per i circa 4-5 mila eritrei che ogni mese fuggono verso l’Europa, l’Italia è tappa di un percorso migratorio più ampio, è solo un luogo di transito. Analizzando il numero di richieste d’asilo presentate dai nuovi migranti eritrei, si rileva che i veri paesi di destinazione sono Germania, Olanda, Svezia e Svizzera. Nel 2014, la maggior parte degli eritrei cercava asilo in Germania (13.255 le domande presentate pari al 36% di tutte quelle per l’Unione Europea).

Da che cosa fuggivano?

Gli eritrei fuggono da una situazione di grave crisi politica, da un regime dittatoriale, ma anche dalla fame dovuta all’emergenza alimentare: in poche parole da una generale situazione di mancanza di prospettive per il futuro. Quando è avvenuto il naufragio del 3 ottobre 2013, le autorità dell’Eritrea hanno cercato di mantenere il segreto sull’episodio che mostrava al mondo il fallimento del progetto politico del gruppo di potere formatosi intorno al presidente Isais Afewerki nei decenni di lotta di liberazione.

Il rapporto 2015 di Freedom House inserisce l’Eritrea tra i 12 peggiori paesi al mondo per quel che riguarda diritti e libertà civili e politiche. In Eritrea non esiste stampa libera (l’ultimo giornale non governativo è stato chiuso nel 2001). Dal 2000 in poi il Paese si è andato sempre più chiudendo in un sistema di restrizioni politiche e di inquadramento statale della società. Inoltre, la maggior parte dei giovani eritrei tra i 17 e i 34 anni che, nel corso degli anni, hanno attraversato il Mediterraneo lo hanno fatto in gran parte per sfuggire al servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato istituito nel 1995 e portato di recente a 18 mesi (anche se secondo Amnesty International, “un’elevata proporzione di coscritti lo svolge a tempo indeterminato”). Chiunque, dai diciassette anni poteva essere chiamato alle armi per un tempo indefinito. Il provvedimento giustificato dalla situazione di emergenza per le continue guerre di confine con Etiopia, di fatto ha avuto la conseguenza di impedire, soprattutto ai giovani, di progettare la propria vita spingendone molti a partire.

Bibliografia
  1. Ministero degli Interni – Gruppo di studio sul sistema di accoglienza, Rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiati in Italia. Aspetti, procedure, problemi, Roma, ottobre 2015.
  1. Osterhammel J. e N.P. Petersson, Storia della globalizzazione. Dimensioni, processi, epoche, Bologna 2005 [2003].
  2. Christopher A. Bayly, ‘“Archaic” and “Modern “Globalization in the Eurasian and African Arena, c. 1750-1850′, in A.G. Hopkins, ed., Globalization in World History (2002).
  3. Giovanni Gozzini, Le migrazioni di ieri e di oggi. Una storia comparata, B. Mondadori, Milano 2008.
  4. Giambattista Scirè, Usi e abusi di un concetto, in Storia 2012. Idee e strumenti per insegnare, Milano, B. Mondadori, 2012.
  5. Matteo Guglielmo, Il Corno d’africa. Eritrea, Etiopia e Somalia, Il Mulino, 2013.
  6. Nadan Petrovic, Rifugiati profughi sfollati:Storia del diritto d’asilo in Italia dalla Costituzione ad oggi, Franco Angeli, 2013
  7. Massimo Livi Bacci, In cammino. Breve storia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino, 2014.
  8. Alessandro Leogrande, La frontiera, Milano, Feltrinelli, 2015.
  9. Chi bussa alla nostra porta, “Limes”, 6 – 2015.
  10. Alessandro Triulzi, Voci dal post-impero: percorsi altri delle memorie migranti in Italia, in Paolo Bertella Farnetti, Adolfo Mignemi, Alessandro Triulzi (a cura di), L’impero nel L’Italia coloniale tra album privati e archivi pubblici, Milano-Udine, Mimesis, 2013, pp. 185-195
  11. Rino Bianchi, Igiaba Scego,Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Roma, Ediesse, 2014

Sitografia

  1. http://www.gruppoabele.org (filmografia e bibliografia su immigrati e integrazione del Centro Studi Gruppo Abele)
  2. http://www.unhcr.it/wp-content/uploads/2016/01/Convenzione_Ginevra_1951.pdf
  3. https://www.unhcr.it/risorse/refworld
  4. http://www.unhcr.org/figures-at-a-glance.html
  5. http://www.iai.it/it/pubblicazioni/lista/all/quaderni-iai

Dossier

Testo per gli allievi

3 ottobre 2013, davanti a Lampedusa

Erano partiti di notte da un porto libico, uomini, donne, bambini, il 1° ottobre 2013, su un peschereccio lungo venti metri in cui erano stati stipati in più di cinquecento. Avevano ricevuto l’ordine di restare fermi al proprio posto, per non rischiare di far rovesciare il barcone e affondare. Invece, alle cinque del mattino del 3 ottobre, dopo due giorni di viaggio e quando l’imbarcazione è ormai giunta a circa mezzo miglio dalle coste dell’isola di Lampedusa e fatica ad avanzare, qualcuno, accende un fuoco con una coperta, forse per lanciare un segnale nel buio in cerca di soccorso, che cade sul ponte in una pozza di gasolio. In pochi attimi il fuoco divampa. Il panico si diffonde a bordo, tutti si spostano, l’imbarcazione si sbilancia, gira su se stessa tre volte e poi cola a picco con il suo carico di persone. Molti non sanno nuotare, alcuni rimangono intrappolati sotto lo scafo. Qualche ora dopo, alcune imbarcazioni civili e pescherecci locali si accorgono dei naufraghi, danno l’allarme e caricano la maggior parte dei superstiti a bordo. Man mano che vengono recuperati, i corpi privi di vita vengono sistemati in fila sul molo. Sono tanti e il numero delle vittime aumenta di ora in ora. Le operazioni di recupero dei corpi dureranno fino al 12 ottobre, quando verrà stabilito il numero delle vittime: 366 morti e circa 20 dispersi, una delle più gravi catastrofi marittime nel Mediterraneo dall’inizio del XXI secolo. I 155 superstiti salvati, tra i quali 40 minori non accompagnati, vengono trasferiti all’interno del Centro di Identificazione e di Espulsione (Cie) di Lampedusa.

La procura di Agrigento apre un’inchiesta. Il capitano dell’imbarcazione viene posto in stato di arresto, per il sospetto di aver causato l’affondamento dell’imbarcazione e accusato di omicidio colposo. Anche i superstiti del naufragio sono inseriti nel registro degli indagati accusati del reato di clandestinità per essere entrati illegalmente in Italia, secondo le leggi sull’immigrazione vigenti al momento della tragedia.

L’identificazione dei superstiti e delle vittime rende possibile conoscere la loro area di provenienza, il Corno d’Africa: sono quasi tutti eritrei, alcuni sono somali.

La tragedia ha delle conseguenze sia sul piano politico, sia su quello civile e della memoria. Nei giorni immediatamente successivi si sollevano polemiche sulla mancata celebrazione dei funerali di Stato per le vittime, che invece era stata annunciata in precedenza dal Ministero dell’interno. In seguito a questo disastro vengono anche sollevate molte critiche alla legislazione in vigore e presentate diverse proposte di riforma. Anche il Parlamento europeo chiede di intervenire al più presto per una revisione delle leggi comunitarie in materia di asilo politico.

In seguito al naufragio del 3 ottobre, il governo italiano decide di rafforzare il dispositivo nazionale per il pattugliamento del Canale di Sicilia autorizzando l’Operazione “Mare nostrum”, una missione militare ed umanitaria. A partire dal novembre 2014, l’operazione Mare nostrum è stata sostituita da “Frontex Plus”, il nuovo programma a guida Ue che punta al controllo delle frontiere.

Il 3 ottobre 2014, a un anno dalla strage al largo delle acque di Lampedusa, Roma ricorda le vittime del naufragio e le decine di migliaia di persone che in questi anni hanno perduto la vita fuggendo da guerre, persecuzioni e carestie. A Villa Celimontana viene scoperta una targa toponomastica dedicata al naufragio di Lampedusa e alle vittime di tutte le migrazioni.

Il Parlamento italiano – nell’aprile 2015 alla Camera dei Deputati e nel marzo 2016 al Senato – approva, con 287 voti favorevoli, 72 contrari e 20 astenuti, l’istituzione, il 3 ottobre, di una “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione.”

Documenti

Documento 1

Lampedusa, strage di migranti. Barcone a picco, centinaia di morti

La tragedia nei pressi dell’isola dei Conigli. Sull’imbarcazione, che si è incendiata e poi rovesciata, oltre 500 profughi tra i quali molte donne e bambini. I sommozzatori hanno già recuperato 130 corpi annegati nello scafo sul fondale. Solo 155 sono stati tratti in salvo. Per i soccorsi si muovono le navi della Marina militare

ROMA – Corpi affiancati sul molo. Avvolti in teli di plastica colorati. Una serie interminabile, straziante, di vite perdute. L’immagine delle salme dei migranti annegati nelle acque di Lampedusa in fila una accanto all’altra sulla banchina del porto è raccapricciante. E fa il giro dei media di tutto il mondo. E’ una tragedia dell’immigrazione senza precedenti quella che ha sconvolto questa mattina l’isola siciliana, a pochi giorni dal drammatico sbarco di Scicli, vicino Ragusa. Si contano a centinaia, tra morti e dispersi, le vittime del naufragio di un barcone probabilmente causato da un incendio. I passeggeri avrebbero dato fuoco a una coperta nel tentativo di farsi avvistare e soccorrere a poche miglia dalla costa dell’Isola dei Conigli. Sono già 130 i cadaveri finora recuperati – e si tratta di un numero provvisorio, in costante aggiornamento, man mano che i sommozzatori procedono con il recupero – compresi quelli di una donna incinta e di tre bambini. A metà pomeriggio un’altra sconcertante scoperta: un centinaio di cadaveri, soprattutto donne e bambini, vengono individuati da alcuni sommozzatori della Guardia costiera sotto e all’interno del barcone rovesciato e affondato, localizzato a una quarantina di metri di profondità.

Sarebbero 155 i superstiti tratti in salvo. Secondo il loro racconto sull’imbarcazione c’erano circa 500 persone, tutte provenienti dai Paesi dell’Africa subsahariana, soprattutto Eritrea e Somalia. Almeno altri 150 profughi, dunque, mancano all’appello. “Il mare è pieno di morti” è stato il primo agghiacciante commento del sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini. “E’ un orrore infinito. Ora basta, cosa dobbiamo ancora aspettare dopo questo?” ha poi aggiunto sconvolta e in lacrime, mentre sul molo assisteva all’arrivo dei pescherecci dei soccorritori carichi di cadaveri. La strage si è consumata in una manciata di attimi. Mentre il fuoco divampava, i migranti presi dal panico si son si sono tuffati in acqua, molti senza nemmeno saper nuotare, mentre la barca, ormai rovesciata, colava a picco. Straziante il racconto di alcuni superstiti: “Siamo partiti due giorni fa dal porto libico di Misurata – hanno detto – Su quel barcone non riuscivamo nemmeno a muoverci. Durante la traversata tre pescherecci ci hanno visto ma non ci hanno soccorso. Quando siamo arrivati in prossimità dell’isola abbiamo deciso di accendere un fuoco, incendiando una coperta, per farci notare. Ma il ponte era sporco di benzina: in pochi attimi il barcone è stato avvolto dalle fiamme; molti di noi sono si sono lanciati in acqua tra le urla mentre la barca si capovolgeva”.
Guardia costiera, carabinieri, guardia di finanza, ma anche decine di pescatori lampedusani continuano le ricerche. In serata la corvetta della marina militare ‘Chimera’ è partita dalla base navale di Augusta per rinforzare il dispositivo di sorveglianza e controllo in alto mare. Nella notte, inoltre, anche il pattugliatore Cassiopea lascerà l’ormeggio ad Augusta per dirigere verso Lampedusa. La nave imbarcherà una camera iperbarica, un team sanitario e un team di palombari del gruppo operativo subacquei della Marina per contribuire alle operazioni di recupero corpi in profondità. Il pattugliatore della marina militare Vega, già intervenuto oggi con l’elicottero imbarcato, rimane in assistenza. Domani mattina il Vega sarà avvicendato dal pattugliatore Libra, già in mare, nella normale turnazione delle unità impegnate in Vigilanza Pesca.
Il presidente del Consiglio Enrico Letta, invitato dal sindaco ad andare nell’isola per contare i morti, segue la situazione da Palazzo Chigi e ha proclamato domani il lutto nazionale. Il vicepremier e ministro dell’Interno, Angelino Alfano, presiede a Lampedusa una riunione del comitato per la sicurezza e riferirà alla Camera domani. La politica davanti alla tragedia si è fermata: annullate conferenze stampa e incontri politici in programma stamattina, mentre sono unanimi le dichiarazioni di cordoglio e sgomento, a cominciare da quelle del Capo dello Stato Giorgio Napolitano che ha parlato di “strage di innocenti” e del presidente della Camera, Laura Boldrini. Fa eccezione la Lega Nord, che addebita la “responsabilità morale” della strage alla stessa Boldrini e al ministro Cecile Kyenge.

“Vergogna!” ha invece esclamato Papa Francesco e ha invitato a pregare per le vittime.

La Procura della Repubblica di Agrigento ha aperto un’inchiesta. Titolare del fascicolo è il sostituto procuratore Andrea Maggioni. I reati ipotizzati, al momento a carico di ignoti, sono di omicidio plurimo colposo, naufragio colposo e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina aggravato. La polizia sta interrogando diverse persone individuate tra i sopravvissuti e sospettate di essere lo scafista del barcone. In particolare è stato fermato un giovane tunisino che era stato raccolto tra i superstiti. Sarebbe stato riconosciuto da un gruppo di migranti.

L’ennesimo naufragio nelle acque siciliane allunga il lungo elenco di vittime senza nome ingoiate dal Mediterraneo: migliaia di uomini, donne e bambini morti nella ricerca di un futuro migliore. Secondo Fortress Europe, dal 1994 nel solo canale di Sicilia sono morte oltre 6.200 persone, più della metà (4.790) disperse. Il 2011 è stato l’anno peggiore: tra morti e dispersi, sono scomparse almeno 1.800 persone, 150 al mese, 5 al giorno. Poche ore prima del dramma di Lampedusa, a Siracusa era stato soccorso un altro barcone con a bordo 117 profughi siriani. Per fortuna, tutti salvi.

Monica Rubino, 3 ottobre 2013 http://www.repubblica.it/ Cronaca

Documento 2

Costituzione della Repubblica italiana

Articolo 10

L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.

La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.

Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.

Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.

Documento 3

La Convenzione di Ginevra – 1951

Secondo il diritto internazionale, presupposto per l’applicazione del diritto di asilo è la nozione di rifugiato internazionale, cioè di colui che, direttamente (mediante provvedimento di espulsione o impedimento al rientro in patria) o indirettamente (per l’effettivo o ragionevolmente temuto impedimento dell’esercizio di uno o più diritti o libertà fondamentali), sia stato costretto dal Governo del proprio Paese ad abbandonare la propria terra e a “rifugiarsi” in un altro Paese, chiedendovi asilo.

Questa nozione risulta ulteriormente specificata dall’art. 1 della Convenzione di Ginevra, che indica i seguenti motivi per i quali si ha diritto allo status di rifugiato:

  • discriminazioni fondate sulla razza;
  • discriminazioni fondate sulla nazionalità (cittadinanza o gruppo etnico);
  • discriminazioni fondate sull’appartenenza ad un determinato gruppo sociale;
  • limitazioni al principio della libertà di culto;
  • persecuzione per le opinioni politiche.

La cessazione dello status di rifugiato avviene quando (sez. C dell’art. 1 della Convenzione):

  • il rifugiato abbia nuovamente usufruito della protezione del Paese di cui abbia la cittadinanza oppure ne riacquisisca volontariamente la cittadinanza;
  • il rifugiato sia tornato a stabilirsi volontariamente nel proprio Paese;
  • il rifugiato abbia acquisito una nuova cittadinanza e goda della protezione del Paese che gliel’ha concessa;
  • siano venute meno le condizioni in seguito alle quali la persona abbia ottenuto il riconoscimento della qualifica di rifugiato.

Le sezioni D, E ed F dell’articolo 1 della Convenzione di Ginevra individuano invece le cause di esclusione, precludendo dai benefici della Convenzione le seguenti categorie di persone:

  • coloro che beneficino attualmente ed effettivamente della protezione o assistenza da parte di organi o agenzie delle Nazioni Unite diverse dall’Alto Commissariato per i rifugiati;
  • i rifugiati o profughi nazionali, cioè i cittadini di un Paese che abbiano la propria residenza abituale in un altro Paese e che, a causa di eventi bellici, politici o altre situazioni verificatesi in tale Paese, volontariamente o forzatamente lo abbandonano o non vi facciano rientro e si rifugiano nel Paese di cui sono cittadini;
  • coloro che non sono degni di protezione internazionale.

L’articolo 32 della Convenzione prevede espressamente il divieto di espulsione del rifugiato che risieda regolarmente nel territorio di uno degli Stati contraenti se non per motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico. In tali casi, il rifugiato dovrà essere messo comunque in condizione di far valere le proprie ragioni e gli dovrà essere accordato un periodo di tempo per cercare di essere ammesso in un altro Paese.

Servizio studi della Camera dei Deputati [http://www.camera.it/cartellecomuni/leg14/RapportoAttivitaCommissioni/testi/01/01_cap09_sch06.htm]

Documento 4

Legge 39/1990 (legge Martelli)

Norme urgenti in materia di asilo politico, d’ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato

Articolo 1 (Rifugiati)

  1. Dalla data di entrata in vigore del presente decreto cessano nell’ordinamento interno gli effetti della dichiarazione di limitazione geografica e delle riserve di cui agli articoli 17 e 18 della convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con legge 24 luglio 1954, n. 722, poste dall’Italia all’atto della sottoscrizione della convenzione stessa. Il Governo provvede agli adempimenti necessari per il formale ritiro di tale limitazione e di tali riserve.

  2. Al fine di garantire l’efficace attuazione della norma di cui al comma 1, il Governo provvede ai sensi dell’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, a riordinare, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, gli organi e le procedure per l’esame delle richieste di riconoscimento dello status di rifugiato, nel rispetto di quanto disposto dal comma 1.

  3. Agli stranieri extraeuropei «sotto mandato» dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR) alla data del 31 dicembre 1989 è riconosciuto, su domanda da presentare, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, al Ministro dell’interno, lo status di rifugiato. Tale riconoscimento non comporta l’erogazione dell’assistenza.

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1990/02/28/090G0075/sg

Documento 5

Legge Turco-Napolitano e Legge Bossi-Fini a confronto

[…] Il rapido evolversi del fenomeno migratorio, conseguenza del mutamento degli assetti internazionali, ha tuttavia evidenziato nel giro di pochi anni l’inadeguatezza del testo della Legge Martelli, inducendo il Parlamento all’emanazione di una normativa più esaustiva, la legge 40/1998 cosiddetta Turco-Napolitano, confluita successivamente nel Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulle condizioni dello straniero (dl 286/1998). È questo l’assetto su cui la legge 189/2002 cosiddetta legge Bossi-Fini, è andato a incidere, in senso vessatorio e punitivo.

Nonostante la Bossi-Fini costituisca formalmente solo una modifica al Testo unico, che riprendeva l’impianto della Turco-Napolitano, essa vi introduce significative modifiche, da un lato rendendo più difficoltoso l’ingresso e il soggiorno regolare dello straniero e agevolandone l’allontanamento, dall’altro riformando in senso restrittivo la disciplina dell’asilo. Il meccanismo fondamentale di controllo dell’immigrazione rimane la politica dei flussi, quantificata annualmente dal governo mediante un decreto che fissa il numero di stranieri che possono fare ingresso in Italia per motivi di lavoro. Chiaro l’intento, peraltro ereditato dalla normativa precedente, di controllare il fenomeno attraverso la limitazione numerica degli ingressi imposta dall’autorità.

La Bossi-Fini fa però un passo ulteriore, prevedendo restrizioni all’ingresso in Italia di cittadini appartenenti a Paesi che non collaborano adeguatamente col governo italiano nel contrastare l’immigrazione clandestina o nella riammissione di propri cittadini soggetti a provvedimenti di rimpatrio, attribuendo nel contempo quote preferenziali agli Stati che abbiano stipulato accordi bilaterali volti alla regolamentazione dei flussi di ingresso e delle procedure di riammissione. Si produce in questo modo una disuguaglianza sostanziale tra gli stranieri basata esclusivamente sulla loro cittadinanza. È infatti possibile che al lavoratore in possesso di tutti i requisiti venga negato il permesso di soggiornare in Italia per il solo fatto di appartenere a uno Stato che, a parere insindacabile del governo italiano, non abbia posto in essere una politica sufficientemente ‘collaborativa’, con il conseguente aumento di immigrazione clandestina da questi Paesi, impossibilitati a ‘esportare’ legalmente la propria forza lavoro. Per quanto riguarda le procedure di ingresso, in linea con la precedente legislazione, la Bossi-Fini impone allo straniero l’ottenimento di un visto rilasciato dall’ambasciata o dal consolato del Paese di origine. Precisa però che l’eventuale diniego non debba essere motivato. Questa eccezione alla regola generale per cui i provvedimenti della pubblica amministrazione devono essere motivati per permettere al cittadino di proporre ricorso, rende di fatto inappellabile il provvedimento di rifiuto.

La Bossi-Fini, mediante modifica dell’art 23 T.U., ha peggiorato ulteriormente la situazione, abolendo il meccanismo più realistico per gestire l’ingresso dei lavoratori stranieri introdotto dalla Turco- Napolitano, che prevedeva la possibilità per il cittadino italiano o lo straniero regolarmente soggiornante, che intendessero farsi garanti dell’ingresso di uno straniero per consentirgli l’inserimento del mercato del lavoro, di presentare apposita richiesta nominativa alla questura della provincia di residenza. Il richiedente doveva dimostrare di poter assicurare allo straniero alloggio, sostentamento e assistenza sanitaria per tutta la durata del soggiorno; allo straniero era data possibilità, previa iscrizione alle liste di collocamento, di ottenere un permesso di soggiorno annuale a fini di inserimento nel mercato del lavoro. Una logica senz’altro più aderente alle normali dinamiche dei flussi migratori rispetto a quella attualmente in vigore. La Bossi-Fini si dimostra ostile anche verso il processo di stabilizzazione dell’immigrato dilatando da cinque a sei anni i termini per la richiesta della carta di soggiorno, quella che consente la permanenza a tempo indeterminato. Ma è in materia di lotta all’immigrazione clandestina che la Bossi-Fini da il meglio di sé. Seppure vengono aumentate le pene detentive e pecuniarie connesse al favoreggiamento dell’immigrazione non regolare, la principale novità è la riforma della procedura di espulsione.

Per comprenderne l’impatto è necessario chiarire il quadro delineato dalla normativa precedente. La Turco-Napolitano prevedeva tre tipi di espulsioni, due per motivi giudiziari e una per ragioni amministrative, risultata poi quella di maggior applicazione. L’espulsione amministrativa, disposta dal ministro dell’Interno o più comunemente dal prefetto per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, consisteva in un decreto motivato contenete l’intimazione a lasciare il territorio nazionale entro un termine di quindici giorni. L’espulsione eseguita con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica era prevista solo nel caso che lo straniero già espulso si fosse indebitamente trattenuto nel territorio dello Stato oltre il termine fissato dall’intimazione, oppure vi fosse la concreta possibilità che volesse sottrarsi all’esecuzione del provvedimento. Nel caso non fosse possibile l’immediato accompagnamento alla frontiera, per mancanza di un mezzo di trasporto adeguato o il compimento di attività di accertamento sull’identità e la cittadinanza dello straniero, la legge prevedeva che l’immigrato fosse trattenuto presso uno dei Centri di permanenza temporanea e assistenza, istituiti proprio a tale scopo.

La ratio della norma è chiara: gestire le procedure di rimpatrio in forma amministrativa, attribuendo carattere residuale all’esecuzione forzata del provvedimento. In questo contesto l’utilizzo dei Centri di permanenza temporanea risultava teoricamente marginale rispetto alla gestione generale del fenomeno. La Bossi-Fini ha ribaltato questo scenario, invertendone le proporzioni. L’espulsione coatta diventa il meccanismo principale, rendendo residuale l’applicazione della sola intimazione. Il nuovo assetto ha comportato un incremento nel ricorso ai Centri di permanenza temporanea, divenuti di fatto centri di detenzione, dai quali tutti i clandestini sono costretti a passare, indipendentemente dal fatto di essere o meno socialmente pericolosi. Il carattere repressivo della norma si evince anche dall’innalzamento del limite temporale del divieto di rientro da cinque a dieci anni. La Bossi-Fini, attenta anche alla prevenzione del fenomeno, dispone maggiori controlli transfrontalieri, con particolare attenzione alla vigilanza delle coste, ampliando oltre il limite delle acque territoriali l’ambito operativo delle navi in servizio di polizia. Questo aspetto in particolare sembra essere in contrasto con l’art. 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, secondo il quale “ogni uomo è libero di lasciare il proprio Paese”. Lo straniero che si trova in acque internazionali, che non è ancora entrato in Italia, sta formalmente esercitando il suo diritto a emigrare; potrebbe ipoteticamente cambiare rotta e non entrare neppure nel territorio dello Stato, e quindi nella sua giurisdizione, eppure è sottoposto ai controlli della polizia italiana, esercitati in un ambito territoriale generalmente non riconosciuto dalle consuetudini del diritto internazionale. […]

Erika Gramaglia, La schizofrenia dell’accoglienza, Paginauno n. 8, giugno – settembre 2008

Documento 6

Da sudditi coloniali a migranti: le relazioni tra l’Italia e le sue ex-colonie

Nell’acceso dibattito nazionale sulle ricorrenti ondate migratorie che percorrono l’Italia di oggi, pochi e puramente rituali appaiono i riferimenti al collegamento sudditi-migranti su cui insiste la letteratura straniera – un collegamento che appare nel caso italiano, pur nelle sue dimensioni ridotte, non una semplice coincidenza di percorsi ma un complesso intreccio di rapporti che richiama eventi e processi del rimosso passato coloniale e della odierna situazione di crisi nella post-colonia. Esaminare tale collegamento dal punto di vista della storia nazionale, nei suoi molteplici legami che la vincolano alla storia recente del continente africano, mi sembra oggi doveroso, non meno dell’infittirsi di domande sulle nuove responsabilità e compiti del mestiere dell’africanista in Italia. Lo storico africanista, come già in passato, viene qui interrogato con forza dagli eventi recenti occorsi negli ex-possedimenti e colonie italiane in Africa, una realtà fortemente influenzata dal passato imperiale del nostro paese con i suoi ambiziosi sogni di gloria e le sue cocenti delusioni, gli uni e le altre inquinati da un accecamento nazionalistico intriso di pulsioni di dominio e di sopraffazione – quasi una rivincita sull’altro più debole e indifeso come a lungo è stata la condizione italica sotto governi stranieri, poi ribaltata di segno ma non di senso nei confronti dei “sudditi” prima interni e poi imperiali. I ripetuti fenomeni di allontananza, esclusione e rigetto, a livello societario quanto istituzionale, nei confronti dei gruppi di immigrati venuti a risiedere o transitare nel nostro paese non possono non richiamare più di un elemento della classica “situazione coloniale”: il dominio di un gruppo sull’altro, la capacità di coercizione favorita dallo scarto tra scienza e conoscenza, oltre che da potere e ricchezza, tra due gruppi di cui l‟uno, pur essendo minoranza numerica (di origine, gusti e sistema di vita europeo) si erge in colonia a maggioranza sociologica, e impone all’altro, la popolazione locale percepita come minoranza sociologica, il governo, le leggi e il dominio dall’esterno.

[…]

Le espulsioni incrociate avvenute durante il conflitto tra Etiopia e Eritrea davano luogo a ulteriori esodi per molti residenti eritrei in Etiopia e etiopi in Eritrea improvvisamente rispediti nei paesi di origine con le loro famiglie spesso senza beni, risorse o contatti, e a volte neppure familiarità con la lingua locale a causa della lunga permanenza nel paese ospitante. Come per molti migranti della nuova generazione, la fuga dalla guerra, dall’insicurezza e da una generale assenza di prospettive nel proprio paese viene percepita da un numero crescente di persone come l’unica possibilità di continuare a sperare, e di aprirsi una strada verso un futuro migliore andando a vivere altrove. L’Italia è parte di un percorso migratorio più ampio, quasi accidentale, in attesa del paese che non c’è. Mebrat Alem, una donna eritrea rifugiata a Milano da molti anni, nel testimoniare il sogno di ritorno di tutti i migranti (“Sono scappata da un paese che si chiamava Etiopia e volevo tornare in un paese che si chiamasse Eritrea”) così spiega il trauma dello spostamento:

Quando sono arrivata in questo paese non sapevo neanche dov’era l’Italia, né mi interessava saperlo. (…) Io sono cresciuta e nata all’Asmara. (…) Avevo una vita limitata, di quartiere, come molti della mia età, una vita fatta di scuola, di amicizie, di un quartiere ben conosciuto. Quindi non conoscevo neanche il mio paese bensì solo la mia città. Non avevo aspirazioni di scoprire un altro mondo o trovarmi in un’altra veste, in un altro ruolo, un altro modo. Quindi vivo la mia immigrazione con questo di tipo di salto quasi nel vuoto (…) La guerra, ma anche la crisi economica e di un certo sistema politico, che è il risultato di un sistema dato, ha creato, negli anni migliaia e migliaia di fughe (…) e le persone hanno un livello di esasperazione tale che quel salto diventa necessario.

relazione di Alessandro Triulzi, Università di Napoli L’Orientale, Convegno Vecchie e nuove migrazioni nell’area mediterranea: Tripoli come un miraggio, 24-25 novembre 2006 Villa Baruchello, Porto S. Elpidio (Ascoli Piceno)

Documento 7

L’Eritrea è vicina

A raccontarmi i dettagli del grande naufragio di Lampedusa è stato Syoum, un eritreo che vive in Italia fina da quando era bambino, figlio di un’altra ondata migratoria, generatasi negli anni settanta del secolo scorso. […]

Erano quasi tutti eritrei, il 3 ottobre. Su 366 vittime ufficialmente accertate, 360 provenivano dall’Eritrea, gli altri sei erano etiopi. E sono quasi tutti eritrei i superstiti.

E’ per questo che Syoum, il giorno dopo il naufragio di cui parlavano ormai tutte le tv, in Italia e nel mondo, ha vinto l’indifferenza davanti a simili notizie, e si è diretto nell’ospedale della città siciliana dove è sempre vissuto. […]

E’ in quei giorni che apprende molti dettagli del viaggio. Non solo cose accadute in mare, o quanto è successo in Libia, nel mese che ha preceduto l’imbarco sul peschereccio stracolmo di corpi. Ma anche prima, in Sudan, e ancora prima al momento di lasciare l’Eritrea.

“Se va bene, il viaggio costa dai tre ai quattromila dollari. La prima tratta, per uscire dall’Eritrea, costa seicento dollari; l’imbarco per Lampedusa costa milleseicento dollari, il passaggio per Khartoum sono altri ottocento, e da Khartoum alla Libia ancora altri ottocento: il totale è intorno ai quattromila”.

Per questo il viaggio dura tanto. Al termine di ogni passaggio c’è la necessità di raccogliere i soldi per la tappa successiva, ma poi ci sono anche gli inconvenienti, che ti costringono a tornare indietro o a rimanere bloccato per mesi in una delle tappe intermedie, contro la tua volontà.

“Il viaggio è molto lungo, per capire quello che è successo devi sapere perché sono partiti”, mi dice Syoum in una delle nostre lunghe chiacchierate.

L’Eritrea è forse l’unico paese al mondo in cui è stato istituito il servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato. Chiunque, dai diciassette ai cinquant’anni, viene richiamato alle armi ed è sottratto a ogni altra attività per un tempo impossibile da stabilire. E’ questa una delle principali cause che spinge intere generazioni a partire. Il servizio permanente è motivato dal conflitto con l’Etiopia, ufficialmente ancora in corso, ma di fatto si trasforma nella vita di tanti in una sorta di reclusione, il cui unico fine è quello di poter utilizzare un enorme quantità di forza lavoro gratis. Così le caserme eritree si trasformano in carceri, e le carceri in veri e propri gulag in cui finiscono tutti gli oppositori e cioè, nella stragrande maggioranza dei casi, coloro i quali provano a sottrarsi al servizio permanente.

Si decide di partire, continua Syoum, perché lo fa un amico o una amica, perché qualcuno del quartiere sta andando via, e ci si accoda. In genere si parte con un gruppetto di conoscenti della stessa zona, dello stesso quartiere: “Si viaggia quasi sempre di notte, a volte anche a piedi. In ogni caso si cerca di non passare per i percorsi battuti dai soldati. Si viene arrestati, torturati o stuprati … insomma, può succedere qualsiasi cosa. Come essere rinchiusi nelle isole Dahalak, a largo di Massaua, dentro container di metallo con poco cibo e poca acqua, e la temperatura che arriva cinquanta gradi”.

Quando si raggiunge il confine che separa l’Eritrea occidentale dal Sudan, si cerca qualcuno che ti permetta di attraversarlo. Dall’altra parte, nei pressi Kassala, c’è uno dei più grandi campi profughi dell’Africa. “A fare da mediatore in queste operazioni è sempre un eritreo, di cui i migranti spesso conoscono solo il numero di telefono. I trafficanti non si fanno mai vedere in faccia: si telefona e si ottiene un appuntamento per la partenza di un pick-up, di un pulmino o di una macchina, in un luogo solitamente al di fuori dei centri abitati. Così si viene trasportati verso un altro punto dove si è caricati da un altro pick-up diretto in Sudan. I trafficanti restano sempre anonimi. Una volta in Sudan, bisogna coprirsi il viso, è necessario cercare di sembrare sudanesi. Il problema è che se si viene riconosciuti come eritrei, i rashaida, i trafficanti di uomini che vivono al confine tra Eritrea e Sudan, possono catturarti e venderti ai sudanesi o allo stesso governo eritreo, in entrambi i casi incassando parecchi soldi”.

Perché venderti ai sudanesi? Che interesse hanno?

“La polizia sudanese è quasi più pericolosa dei trafficanti di uomini. Questi in genere li paghi e ti lasciano andare, mentre i poliziotti sudanesi, che ufficialmente non hanno un ruolo da trafficante, ti mettono in prigione, ti portano via tutti i soldi e ti fanno telefonare a casa per chiederne altri prima di liberarti. A quanto mi dicevano, i ragazzi avevano innanzitutto paura dei poliziotti sudanesi”.

Se passano indenni questo primo varco, rimangono nel campo profughi solo per pochi giorni. Qui si mettono d’accordo con altri trafficanti, anche loro di solito eritrei, che fanno da mediatori con quelli sudanesi, prendono un pick-up e di notte partono alla volta di Khartoum, nel Nord. E qui il viaggio rallenta, si dilata, fino a occupare una parte rilevante della propria esistenza.

“A Khartoum stanno il genere un paio d’anni, per varie ragioni: prima di tutto cercano lavoro, per mettere da parte i soldi necessari ad affrontare il viaggio verso la Libia. Ma spesso, prima ancora di attraversare la Libia, cercano di uscire legalmente dal Sudan. Attraverso il sistema della sponsorship chiedono i visti per il Canada o per gli Stati Uniti. In molti, tramite internet, chiedono la possibilità di andare in America del Nord come rifugiati, vantando la presenza di un amico o di un parente che può mantenerli. Raramente qualcuno ci riesce; in genere questa via di fuga viene negata. Una volta in America, la loro richiesta accettata perché scappano da un regime dittatoriale, ma è difficilissimo che riescano a fare il primo passo: uscire legalmente dal Sudan. Questa è la ragione per cui nel paese ci sono moltissimi call center e internet point, e anche sudanesi con la cittadinanza canadese o statunitense che, in cambio di soldi, si offrono come sponsor, ma è un metodo che non funziona quasi mai. Di solito ci vogliono due anni per ottenere una risposta dalle ambasciate cui ci si rivolge, tutto avviene per via telematica. Per questo restano in Sudan così a lungo: quando questa strada fallisce, decidono di partire per la Libia. Sanno perfettamente cosa li attende, ma la risposta che danno è che è meglio tentare la sorte in Libia piuttosto che rimanere in Sudan o, peggio ancora, rischiare di tornare in patria”.

Alessandro Leogrande, La frontiera, Milano, Feltrinelli, 2015, pp. 48-53

Documento 8

Dal Niger al Corno d’Africa le nuove “fabbriche” di profughi che spaventano l’Europa

Niger, Corno d’Africa, Siria. Sono i tre “serbatoi” di profughi e migranti che più spaventano. Sudan, Libia, Giordania, Egitto sono invece i Paesi di transito sotto i riflettori. Perché l’estate si avvicina e il bollettino delle partenze si aggiorna di continuo. Nuove crisi e vecchi conflitti aprono rotte e cambiano i flussi dei migranti. Unhcr e Frontex monitorano le aree più calde: «Tre bombe a orologeria sono pronte a esplodere».

La lista dei Paesi dai cui partono i migranti è lunga e drammatica. Si lasciano alle spalle guerre, terrorismo e fame. «In Kenya, Etiopia e Niger, dove ci sono immense campi profughi, si registrano gravi problemi di carenze alimentari – spiega Carlotta Sami, portavoce Unhcr per il Sud Europa – in Sud Sudan, una delle aree più critiche, ci sono violenze e siccità. Poi c’è un nuovo fenomeno: i migranti costretti dai cambiamenti climatici, come accade in Etiopia e Somalia, difficili da catalogare».

Due sono oggi i sorvegliati speciali: Nigeria e Mali. I nigeriani in fuga sono 186.474 e 2.155.618 gli sfollati. I profughi dal Mali sono 135.417 e 36.762 gli sfollati. Dove vanno? In gran parte in Niger: il Paese di transito che oggi più allarma. È da anni infatti lo snodo principale dei trafficanti che muovono i rifugiati provenienti dall’Africa occidentale.

Qui stazionano centinaia di migliaia di migranti. «È una situazione terribile e per noi è una corsa contro il tempo», avverte la Sami. Un esempio? Le violenze di Boko Haram, negli ultimi due anni, hanno costretto più di 150mila nigeriani a fuggire in Niger. La maggior parte si è stabilita nella regione di Diffa. Da qui in migliaia sono pronti a partire, diretti in Libia e poi verso l’Europa.

Per capire il fenomeno, basta sapere che già oggi i nigeriani sono in testa tra i 47.881 migranti sbarcati in Italia nel 2016. Non a caso il Migration compact proposto dal governo italiano alla Ue punta a un intervento di sostegno rapido proprio in Nigeria.

Questa potrebbe essere dunque la grande emergenza estiva. Ma non certo l’unica, purtroppo.

L’altro scenario ha numeri da grande esodo: parte da Eritrea e Somalia, passa da Sudan ed Egitto, arriva fino all’Italia. Più di due milioni i profughi in fuga dall’Eritrea verso i Paesi confinanti. Ben 977.706 i rifugiati che scappano dalla Somalia. Non solo. In Etiopia stazionano oltre 230mila profughi sud sudanesi. Guardando agli arrivi via mare in Italia nel 2016, tra le prime dieci nazionalità dichiarate al momento dello sbarco compaiono proprio eritrei, sudanesi e somali. Partono quasi tutti dalla Libia. Ma si ingrossa col passare delle settimane la rotta dall’Egitto. Il rischio è l’apertura di una via di carovane verso l’Egitto, attraverso il Sudan: percorso più breve e veloce rispetto a quello fin qui seguito verso la Libia, che potrebbe riversare migliaia di persone in pochi giorni sulle coste egiziane.

La prima “fabbrica” di profughi resta però la guerra in Siria. Questa è l’emergenza più monitorata: 4.844.762 i siriani in fuga, soprattutto verso la Turchia (2.744.915 profughi ospitati). Ma il timore è che la chiusura della rotta balcanica, in seguito all’accordo Ue-Ankara del 20 marzo, spinga i siriani su rotte alternative. I trafficanti si sono già messi alla ricerca di nuove vie, «perché la domanda dei profughi che voglio raggiungere l’Europa – sostiene Christopher Hein, consigliere strategico del Cir (Consiglio italiano rifugiati) – resta altissima ». Due le ipotesi al vaglio degli uomini del Viminale e di Frontex. La prima: i siriani potrebbero partire dalla Turchia, dal Libano (1 milione e 48mila), dalla Giordania (655mila) e dalla stessa Siria, aggirare Israele, dove resta impossibile passare, attraversare la Giordania via terra, imbarcarsi sul Mar Rosso e arrivare in Egitto, nel Sinai. Poi dall’Egitto potrebbero partire per l’Italia. Altra ipotesi è via mare dalla Turchia verso Creta e Italia. Per ora nessuna conferma, ma è questo lo scenario più allarmante.

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Vladimiro Polchi, L’inchiesta. In fuga da guerre e carestie, seguendo rotte “alternative” verso i Paesi di transito: Libia, Sudan, Giordania ed Egitto, la Repubblica, 4 Giugno 20 16

Documento 9

Statistiche rifugiati 2013

grafici_doc9_01

Persone di competenza UNHCR 2003-2013
2003 17.010.100
2004 19.520.300
2005 21.050.000
2006 32.865.300
2007 31.678.000
2008 34.462.100
2009 36.460.800
2010 33.924.700
2011 35.440.100
2012 35.844.600
2013 42.876.400
Persone di competenza UNHCR per categoria
Regione Rifugiati Richiedenti asilo(casi pendenti) Rifugiati Rimpatriati Sfollati e altre persone di competenza Totale
Africa 3,377,600 449,300 168,500 9.551.800 13.547.200
Asia 6,317,600 168,500 245,300 13.343.300 20.074.700
Europa 1,156,700 408,800 800 1.101.500 2.667.800
America Latina e Caraibi 381,900 23,800 5.590.400 5.996.100
Nord America 424,000 106,500 530.500
Oceania 45,300 14,800 60.100
Totale 11,703,100 1,171,700 414,600 29.587.000 42.876.400
Origine delle 10 principali popolazioni di rifugiati
Origine Principali paesi d’asilo Totale
Afghanistan Pakistan/Iran/Germania 2.556.600
Siria Turchia/Giordania/Libano 2.468.500
Somalia Kenya/Yemen/Etiopia 1.121.700
Sudan Ciad/Sud Sudan 649.300
R.D. Congo Uganda/Congo/Tanzania 499.500
Myanmar Bangladesh/Malesia/Thailandia 479.600
Iraq Siria/Giordania/Germania 401.400
Colombia Venezuela/Ecuador 396.600
Vietnam Cina 314.100
Eritrea Sudan/Etiopia 308.800

grafici_doc9_02

Richieste di asilo nell’UE Rifugiati nell’UE
Stato Domande d’asilo Stato Rifugiati
Austria 17.503 Austria 55.598
Belgio 12.500 Belgio 25.633
Bulgaria 6.979 Bulgaria 4.320
Rep. Ceca 503 Rep. Ceca 3.184
Cipro 1.346 Cipro 3.883
Croazia 1.089 Croazia 684
Danimarca 7.557 Danimarca 13.170
Estonia 97 Estonia 70
Finlandia 3.023 Finlandia 11.252
Francia 60.234 Francia 232.487
Germania 109.580 Germania 187.567
Grecia 8.224 Grecia 3.485
Irlanda 946 Irlanda 6.001
Italia 27.823 Italia 78.061
Lettonia 185 Lettonia 160
Lituania 275 Lituania 916
Lussemburgo 989 Lussemburgo 2.873
Malta 2.203 Malta 9.906
Paesi Bassi 14.399 Paesi Bassi 74.707
Polonia 13.758 Polonia 16.438
Portogallo 507 Portogallo 598
Regno Unito 29.395 Regno Unito 126.055
Romania 1.499 Romania 1.770
Slovacchia 281 Slovacchia 701
Slovenia 243 Slovenia 213
Spagna 4.513 Spagna 4.637
Svezia 54.259 Svezia 114.175
Ungheria 18.565 Ungheria 2.440
Totale UE 398.475 Totale UE 980.984

Documento 10

Una targa a ricordo dei migranti morti

bistarelli_doc10Roma, 3 ottobre 2014

A Villa Celimontana l’assessore capitolino al Sostegno Sociale e Sussidiarietà, Rita Cutini, ha inaugurato, a nome di Roma Capitale, una targa toponomastica dedicata al naufragio di Lampedusa e alle vittime di tutte le migrazioni

Documento 11

LEGGE 21 marzo 2016, n. 45

Istituzione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione.

Art. 1 1. La Repubblica riconosce il giorno 3 ottobre quale Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione, di seguito denominata «Giornata nazionale», al fine di conservare e di rinnovare la memoria di quanti hanno perso la vita nel tentativo di emigrare verso il nostro Paese per sfuggire alle guerre, alle persecuzioni e alla miseria. 2. La Giornata nazionale non determina gli effetti civili di cui alla legge 27 maggio 1949. n. 260 Art. 2 1. In occasione della Giornata nazionale sono organizzati in tutto il territorio nazionale cerimonie, iniziative e incontri al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica alla solidarietà civile nei confronti dei migranti, al rispetto della dignità umana e del valore della vita di ciascun individuo, all’integrazione e all’accoglienza. 2. In occasione della Giornata nazionale le istituzioni della Repubblica, nell’ambito delle rispettive competenze, promuovono apposite iniziative, nelle scuole di ogni ordine e grado, anche in coordinamento con le associazioni e con gli organismi operanti nel settore, al fine di sensibilizzare e di formare i giovani sui temi dell’immigrazione e dell’accoglienza. Art. 3 1. Dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/04/1/16G00054/sg

Suggerimenti didattici

Seguendo lo stesso ordine, scrivi una relazione sul Lampedusa, che – sulla base della testo – utilizzi le informazioni utili ricavate dalla documentazione. Segui questa traccia di lavoro:

  • Il fatto
  • Legislazione
  • Da dove e perché
  • I dati
  • La memoria

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Dati articolo

Autore:
Titolo: Globalizzazione, guerre, migrazioni. 3 ottobre 2013: il naufragio di Lampedusa
DOI: 10.12977/nov194
Parole chiave: , ,
Numero della rivista: n.8, agosto 2017
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Globalizzazione, guerre, migrazioni. 3 ottobre 2013: il naufragio di Lampedusa, in Novecento.org, n. 8, agosto 2017. DOI: 10.12977/nov194

Dossier n. 8, agosto 2017

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