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La musica al tempo delle dittature

Si veda anche il laboratorio collegato Jazz, propaganda e Terzo Reich

La musica degenerata

La data del 31 maggio 1938 segna l’ingresso del lemma “degenerato” nel lessico giuridico nazista con la legge sulla confisca di prodotti dell’arte, che recita così: “i prodotti dell’arte degenerata (Entartete Kunst) messi al sicuro in musei o in raccolte accessibili al pubblico prima dell’entrata in vigore della presente legge o dichiarati prodotti dell’arte degenerata da uno degli edifici designati dal Führer e cancelliere del Reich, possono essere confiscati a favore del Reich senza indennizzo”.

Si procedette, allora, al sequestro a favore del Reich di oltre 12.000 opere (pitture, sculture e opere grafiche) di Munch, Van Gogh, Gauguin, Matisse, Picasso e altri: di esse parte venne venduta, soprattutto a privati e musei stranieri grazie alla “Commissione per procedere alla stima delle opere dell’arte degenerata poste sotto sequestro” istituita sempre nel maggio del 1938, altre entrarono in possesso di Göring, ma per 4.829 opere (dipinti ad olio, lavori figurativi, acquerelli, disegni e opere grafiche) il destino fu il rogo a scopo propagandistico. L’espressionismo, l’astrattismo e tutte le correnti moderniste facevano il paio con le sperimentazioni musicali inusitate dell’atonalità schoenberghiana, dell’improvvisazione jazzistica, delle avanguardie musicali novecentesche, bersagli prediletti per la propaganda nazista che, attraverso comizi, radio, esposizioni artistiche e musicali, istituzioni governative censorie, concerti, commenti musicali discriminanti, procedette alla restaurazione del Volk ariano verso una vagheggiata perfezione razziale di imponenza e bellezza, purezza e benessere, nell’arte, attraverso il ritorno all’equilibrio virile della grecità classica, nelle arti figurative, così come – in musica –  attraverso la ripresa dei grandi musicisti tedeschi tra i quali  Bach, Beethoven, Wagner.

I Ghetto Swingers si esibiscono al “Caffè” di Terezín (1943-1944)

I Ghetto Swingers si esibiscono al “Caffè” di Terezín (1943-1944)

Un’estetica razziale

Al criterio estetico si sostituì quello genetico-razziale per sottolineare, come espliciterà il giornale filonazista “Rheinische Landeszeitung”, quanto “nella musica vi è di malato, malsano e altamente pericoloso nella nostra (tedesca) vita musicale e che conviene dunque sradicare”.

Ancora più analitica la rivista americana “The Nation”, che si espresse così: “sarebbe un errore pensare che l’attuale ondata di antisemitismo in Germania riguardante l’ambito musicale sia un mero sottoprodotto della generale agitazione antisemita condotta dai nazionalsocialisti e che essa rappresenti un fenomeno passeggero, destinato a scomparire quando verrà meno l’eccitazione della prima ora. La dottrina nazionalsocialista condanna le attività musicali degli ebrei non solo perché esse sono direttamente ricollegabili alla finanza ebrea o al marxismo, ma perché sono la causa della rovina e della decadenza della musica stessa”. L’armoniosa polifonia sviluppata dai grandi compositori nordici deve ricucire lo strappo degenerato di cui si macchia anche la musica jazz. “Tornare a Bach!”, sembra essere l’adagio dello (pseudo)musicologo F. Blume, direttore dell’Istituto di Musicologia presso l’Università di Berlino, il quale, nel suo contributo Musik und Rasse, sosteneva l’incontro tra musica e razza nella misteriosa forza della rassisches Erlebnis (esperienza razziale) a fondamento dell’opera d’arte e della sua percezione: “Chi ha mai vissuto l’Arte della fuga realmente come Erlebnis avrà avvertito la forza misteriosa e la grandezza eroica dell’umanità nordica nell’autolimitazione imposta all’espressione più severa della forma”.

Il Jazz

Per il jazz fu addirittura varato un regolamento specifico discriminante-persecutorio prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale da parte dei vertici nazisti, che prevedeva, tra i vari commi, la riduzione al 20% dello swing nel repertorio orchestrale, la preferenza a composizioni in tonalità maggiore che esprimessero la gioia di vivere, da temperare e commisurare, però, al senso ariano della disciplina e della moderazione, la predilezione per il ritmo veloce (per combattere il blues), ma senza gli eccessi dell’hot jazz, il divieto dell’uso di strumenti musicali  estranei allo spirito tedesco (un altro paradosso considerando che il provvedimento avrebbe anche colpito ad esempio i costruttori tedeschi di sax), il divieto per la platea di alzarsi durante un assolo e per i musicisti di lanciare strilli durante l’esecuzione.

Goebbels, l’artigiano della propaganda, affermava che la radio fosse il mezzo più potente per influenzare le masse e la musica, parte integrante dei palinsesti radiofonici, avrebbe dovuto da un lato intrattenere i soldati al fronte e la classe medio-bassa del popolo tedesco, d’altro canto erudire le classi più agiate alla riscoperta dell’autentico sangue musicale ariano. Nacque la Camera Culturale del Reich con all’interno la Camera Musicale del Reich ramificata in sette dipartimenti: compositori, esecutori, organizzazione concertistica, musica corale e popolare, editoria musicale, commercianti in musica, fabbricazione di strumenti musicali.

Eddie Rosner e la Jack Band

Anche l’ebreo berlinese Eddie Rosner, il famoso jazzista che incantava la Dietrich, l’“Armstrong bianco”, come fu definito dallo stesso Louis Armstrong, incorse nel divieto nazista degli anni Trenta di suonare pubblicamente jazz, lasciò la Germania e, fino al 1945, riscosse enorme successo prima con la sua Jack Band (la prima orchestra nazionale jazz polacca che lui stesso fondò) e poi con la prima orchestra nazionale jazz di Bielorussia sempre da lui creata, suonando jazz durante la guerra in tutte le repubbliche dell’Urss. Paradossalmente, il periodo della guerra in territorio sovietico rappresentò per Rosner il massimo splendore del jazz.

EDDIE ROSNER  (Berlino, maggio 1910 - Berlino Ovest, 8 agosto 1976)

EDDIE ROSNER (Berlino, maggio 1910 – Berlino Ovest, 8 agosto 1976)

Tuttavia, dopo che Stalin, il 9 febbraio 1946, pronunciò il famoso discorso di lotta al capitalismo, al cosmopolitismo e al filoccidentalismo, l’arresto di Rosner complicò le cose e, dopo 7 mesi di torture, fu convinto a firmare una confessione fasulla, accettando di essere riconosciuto come “nemico del popolo”. Evitò la morte, ma fu mandato nella terribile Kolyma, l’Auschwitz dell’Est, dove non si smetteva di lavorare prima del raggiungimento dei sessantacinque gradi sotto lo zero. Nel centro amministrativo della Kolyma, a Magadan, si trovava la brigata centrale culturale e un importante teatro (attivo dal 1933 al ‘53) dove Rosner riuscì ad esplodere con i suoi spettacoli jazz, creando in loco delle orchestre formidabili.

La musica nel Gulag

Rispetto al campo di concentramento nazista, il gulag sovietico si avvicinava al concetto di campo di lavoro correttivo attraverso l’ideazione di una serie di attività culturali di regime (musica, educazione alla salute, educazione politica, alfabetizzazione, scacchi, teatro, ecc.) che avrebbero dovuto garantire disciplina e un aumento della produttività. Pur se i prigionieri impegnati in “lavori culturali” raggiungevano una quota massima del 5% rispetto al totale degli internati, essi andarono a formare dal 1942 le cosiddette “brigate di cultura”. Potevano fruire così di esoneri dal lavoro per la preparazione dei concerti, alloggi e pasti migliori, scrittura e invio di lettere ai propri congiunti, e di esecuzioni itineranti nei diversi gulag siberiani.

Da un lato, dunque, la musica era organizzata in maniera ufficiale dalle autorità sovietiche, d’altra parte la musica clandestina, per così dire indipendente, soprattutto vocale per l’impossibilità di mantenere segretamente uno strumento musicale all’interno del gulag, costituiva uno spazio ricreativo oltre che di libertà comunicativa tra i prigionieri. Il repertorio spaziava da Rachmaninov ai tanghi pre-rivoluzionari, dal jazz ai foxtrots, fino alle canzoni sentimentali (romansï). Le autorità del campo spesso lasciavano libertà di repertorio, non conoscendo perfettamente la musica eseguita. Cantare clandestinamente era un lusso, perché era vietato ai prigionieri del gulag di parlare a voce alta, men che meno di cantare, anche se il divieto non fu rispettato ovunque. I criminali di professione, là imprigionati, si caratterizzarono per dei testi talmente ironici nel ritrarre un anti-mondo rispetto a quello vissuto, che molti altri prigionieri si identificarono nelle loro canzoni, elaborate anche su melodie pre-esistenti. Il direttore d’orchestra moscovita Leonid Varpakhovsky scrisse in una lettera da Kolyma all’inizio degli anni ’40: “Il mio conforto è la musica, vi immergo me stesso e dimentico il mondo”. Là, egli diresse il Concerto n. 6 di Haendel.

Sopravvissuto, il jazz di Rosner ebbe vita difficile dopo la morte di Stalin (1953), quando la cosiddetta muzika na rebrach  (musica sulle costole) rimase ancora un’arte clandestina, tanto che il linguaggio ufficiale sovietico proibiva l’utilizzo della parola jazz, preferendogli il sintagma “arrangiamento jazzato” per tutte le nuove tendenze musicali. Poiché era impossibile registrare legalmente quel genere di musica, e in mancanza di vinile, i tecnici del suono sovietici avevano trovato nelle radiografie mediche un supporto sostitutivo per le incisioni musicali.

Unità culturale del Gulag di Sevvostlag, Settembre 1942

Unità culturale del Gulag di Sevvostlag, Settembre 1942

La musica nei lager nazisti

Ben diversa era la funzione della musica nella fenomenologia dei lager nazisti: Qui il lavoro, soprattutto a partire dagli anni ’40, produceva non merci, ma cadaveri: la musica era la “colonna sonora” del campo. Un’orchestra accoglieva i prigionieri (aspetto di facciata e di falsa rassicurazione presente anche nei gulag) appena scesi dai trasporti; scandiva l’andata e il ritorno in marcia verso e dal lavoro; era strumento denigratorio per i prigionieri, spesso obbligati a comporre musiche che schernivano la loro “razza inferiore”; si configurava come “passatempo” della vita del campo che le SS adottavano come svago tra un crimine e l’altro; infine rappresentava per le autorità un importante fattore di controllo, e valvola di sfogo, sociale nel campo.

Anche qui, alla musica per così dire ufficiale, si affiancava quella clandestina, fatta di canti sussurrati in momenti della notte soprattutto nelle baracche sovraffollate di anziani, e le filastrocche musicate per far imparare la storia o la geografia ai bambini, che si cantavano in gran segreto perché l’educazione era ufficialmente proibita. Naturalmente, per alcuni prigionieri la presenza, seppur ambigua e a due passi dall’aberrazione delle camere a gas e dei crematori, di orchestre anche jazz (la funzione della propaganda nei lager nazisti e i gusti musicali delle SS consentiva l’esecuzione di generi musicali proibiti al di là del filo spinato) permetteva di evadere spiritualmente, almeno per pochi istanti, dall’inferno concentrazionario e, per i musicisti simboleggiava anche un’unità meta-temporale di esistenza e di speranza verso il futuro, riscattando il tempo presente nel tempo musicale.

Terezín, un’eccezione
Manifesto di concerto a Terezí

Manifesto di concerto a Terezín

Il campo di Terezín, a pochi chilometri da Praga, rappresentò un’eccezione nell’universo concentrazionario nazista. Nato per ingannare la Croce Rossa e l’Europa intera circa le reali condizioni di vita presenti in un tipico lager, questo campo di transito (verso Auschwitz) si popolò di numerosi prigionieri intellettuali e musicisti di ogni genere (spicca tra tutti la figura di Viktor Ullmann), soggette comunque al rischio di morire per tortura, malattie infettive, malnutrizione e, nella maggior parte dei casi, destinati ai campi di sterminio. L’attività propagandistica del campo vide nascere opere teatrali, anche per bambini (gli stessi attori erano i bambini prigionieri), cabaret, concerti jazz, concerti di musica da camera, récital di pianoforte solo.

Terezín, che disponeva di una banca che coniava una propria moneta e di una biblioteca, oltre che di una cappella e di un “Caffè” dove si esibivano i Ghetto Swingers. La band jazz del campo dove spiccavano le figure di Martin Roman e Coco Schumann), rappresentò una fucina di artisti, tra i più importanti nella scena culturale europea del tempo, quasi tutti sterminati nella notte tra il 16 e 17 ottobre 1944 ad Auschwitz.

Rappresentazione della “vita” di Terezín ad opera della piccola Ruth (1931-1944)

Rappresentazione della “vita” di Terezín ad opera della piccola Ruth (1931-1944)

Anche qui (come in tutti i lager, anche in quelli che registrarono il maggior numero di vittime) vennero formate numerose orchestre maschili, vari ensemble. A Birkenau operò un’ orchestra femminile, diretta da Alma Rosé, violinista e nipote di Mahler, kapò del campo, la quale da un lato doveva mantenere lo stile di persecutore e aguzzino verso le prigioniere, d’altro canto dirigeva con passione e virtuosismo le sue musiciste. La figura del musicista-kapò si staglia in un orizzonte peculiare a forti tinte tragiche: l’obbedienza artistica ai vertici del lager spesso la rendeva invisa agli altri prigionieri, che leggevano in lei lo status del Prominenten (il privilegiato del campo che godeva più o meno delle stesse “agevolazioni” degli artisti del gulag), anche se la stessa incertezza, vero fulcro dell’ordine del terrore del potere nei lager, di sopravvivere accomunava indistintamente tutti i prigionieri.

Cosa si suonava nei campi

Quasi tutti i lager nazisti avevano il proprio inno. In quello di Dachau risuonava la frase “Arbeit macht frei”. A Börgemoor, il campo destinato agli oppositori politici più pericolosi, il canto dei “soldati della palude” di Rudi Goguel, che raggiunse tanti lager compreso Sachsenhausen ed il campo femminile di Ravensbrück, scatenò una violenta opposizione da parte delle SS a causa del testo disperato che dava voce ai pensieri dei prigionieri (“[…] ciascuno sogna di tornare da genitori mogli e figli. Qualcuno sospira disperato perché siamo prigionieri […]”).

Bisognava comporre su fogli di carta igienica incollata (un repertorio a memoria prolungava la vita dei prigionieri). Si eseguivano i pezzi in in condizioni di delirio: il comandante del campo obbligava ad intonare canti militari, urlando e picchiando. Nel deserto di Natzwailer-Struthof una piccola orchestra si riuniva di sera a suonare per un deserto silenzio, dal momento che tutti si erano addormentati per soffocare i morsi della fame. A Treblinka, il secondo campo di sterminio per numero di vittime, non essere musicisti poteva condannare direttamente i nuovi prigionieri alla morte nelle camere a gas. Orchestre jazz erano presenti a Vilnius e a Varsavia. La band più famosa del campo di Sachsenhausen fu il gruppo vocale a cappella di otto voci, i Sing-Sing Boys: il loro repertorio includeva danze, musiche popolari di film, canzoni folkloristiche, il jazz di Ježek; la loro peculiarità consisteva nella capacità di imitare gli strumenti con la voce.

A Kovno, dopo che le SS avevano fucilato centinaia di esponenti della cultura ebraica (18 agosto 1941), il Consiglio Ebraico del campo decise di proteggere i musicisti arruolandoli nella polizia del ghetto e dando vita ad un’orchestra. Nei campi di sterminio di Sobibór, Majdanek e Bełżec vi erano piccole orchestre. A Bełżec, in particolare, l’ensemble si esibiva nell’area tra le camere a gas e le fosse per la sepoltura, dove spesso accompagnava l’attività del Sonderkommando).

Concludendo questo rapido excursus, si può affermare che la missione della musica nell’universo dei lager e dei gulag non consisteva nel rendere meno spiacevole la vita ai prigionieri e nemmeno coincideva tout court con la creazione di contesti di resistenza spirituale (comunque essenziali). Forse, il suo scopo (e il suo effetto) principale fu quello di preservare l’umanità degli internati, alimentando una flebile fiamma di speranza.

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Dati articolo

Autore:
Titolo: La musica al tempo delle dittature
DOI: 10.12977/nov155
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Numero della rivista: n. 7, febbraio 2017
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, La musica al tempo delle dittature, in Novecento.org, n. 7, febbraio 2017. DOI: 10.12977/nov155

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