Le crisi dell’età contemporanea: 1929, 1973, 2008
Abstract
L’autore delinea qui una panoramica e un’analisi contrastiva di tre grandi crisi economiche: quella del 1929, quella del 1973 e quella attuale del 2008. L’elemento comune alle crisi in questione viene individuato in un’alternanza di euforia irrazionale e crollo economico e finanziario. Perché la crisi del 1929 non si ripeta, secondo l’autore, bisogna progettare istituzioni in grado di evitare sia ciò che è accaduto negli anni Trenta, sia ogni tentazione totalitaria. Nel seguito della sua relazione, l’autore traccia un’analisi orientata in senso storico della crisi attuale dello stato sociale e della rivoluzione neoliberale degli anni Ottanta, individuando in questi ultimi una svolta epocale. La deregulation, la globalizzazione e la new economy hanno condotto ad un’euforia finanziaria che sarà poi una della cause della crisi del 2008.
Eventi e immagini
Per ragioni simboliche o di semplice comodità, le tre maggiori crisi economiche dell’età contemporanea possono essere associate a un evento databile a un giorno preciso. Il primo è il 24 ottobre 1929, il “giovedì nero” della borsa di Wall Strett, che, dopo il massimo del 19 settembre, arrivò a registrare a fine mattina perdite per quasi il 13%. L’intervento delle grandi banche, con massicci acquisti, consentì però un ampio recupero e la giornata finì con un meno 2,1%. Dopo un venerdì di relativa quiete, l’imminente grande crollo risuonò nuovamente con il meno 12,8 del lunedì 28 e fu confermato dal meno 11,7% del successivo martedì nero, il 29 ottobre (ma la più elevata perdita registrata in un solo giorno a Wall Street è quella, rimasta in gran parte inspiegata, del 19 ottobre 1987, con un meno 22,6%). Il secondo evento è quello del 16 ottobre 1973, quando gli stati arabi membri dell’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Contries) notificarono un aumento del 70% del prezzo del petrolio. L’evento si impose perché del tutto inatteso, ma più memorabile sarà l’aumento di oltre il 120% deciso il 23 dicembre successivo. Entrambi erano una ritorsione contro i paesi occidentali che appoggiavano Israele ed ebbero come pretesto politico la quarta guerra arabo-israeliana scoppiata il 6 ottobre. Il terzo evento è il fallimento della società finanziaria Lehman Brothers, avvenuto il lunedì 15 settembre 2008; la crisi bancaria era stata comunque preannunciata in Europa e negli Stati Uniti dagli evidenti segnali dell’anno precedente, che già stavano coinvolgendo la borsa.
L’immagine-simbolo del crollo dell’ottobre 1929, accanto a quella (a quanto pare più mitica che reale) dei finanzieri che si suicidano lanciandosi dall’alto di un grattacielo, è data dalle lunghe code dei disoccupati di fronte agli uffici di collocamento. La si trova in diverse fotografie dell’epoca, oltre che in una delle scene iniziali del film King Kong, uscito al culmine della depressione, nel marzo 1933. Per la crisi petrolifera dell’inverno 1973-74 l’immagine che si impone è quella della domenica nelle strade delle città italiane, vuote o percorse solo da biciclette dopo che fu vietato o scoraggiato l’uso delle automobili per alleggerire i consumi di carburante. Dovrebbe, infine, essere ben presente nella memoria la sequenza vista più volte alla televisione dei dipendenti della Lehman Brothers che lasciano in tutta fretta i loro uffici con gli scatoloni dove hanno radunato le loro cose.
Confronti
Più che nel loro specifico aspetto e decorso economico, le tre crisi saranno qui esaminate per il posto che occupano nel definire il profilo generale del XX secolo e del principio del XXI. Ciò che esse hanno in comune è che giungono al culmine di una fase di ottimismo economico più o meno giustificato, ma gli elementi di diversità prevalgono su quelli di somiglianza.
Il 1929 sopravviene al termine dei folli o ruggenti anni Venti e della loro “Irrational Exuberance”. Questa espressione è stata usata il 5 dicembre 1996 da Alan Greenspan, governatore della Federal Reserve (la banca centrale degli Stati Uniti), ed è stata poi ripresa dall’economista, premio Nobel nel 2013, Robert J. Shiller come titolo del suo libro del 2000 (che nella traduzione italiana è diventato Euforia irrazionale) sui boom borsistici. Il 1926-1929 ne è un perfetto esempio, con il suo repentino sgonfiarsi che travolse le banche e si trasferì poi nell’economia reale con la grande depressione del decennio successivo. Il 1929 si colloca inoltre nel mezzo dell’“età della catastrofe”, il 1914-1945, il primo dei tre periodi in cui Eric J. Hobsbawm ha suddiviso il Novecento (Il secolo breve, 1994); il 1929 sta fra una guerra mondiale e l’altra non soltanto per ragioni cronologiche, perché la grande depressione è anche una conseguenza della prima e una causa della seconda.
Si direbbe invece estranea alla categoria dell’esuberanza irrazionale la crisi economica accesa da quella petrolifera. Con il 1974 era giunto al termine il felice periodo di rapido e regolare sviluppo venuto dopo la seconda guerra mondiale. Nel 1994 Hobsbawm lo ha chiamato “età dell’oro”. Già in un libro del 1979 (ripubblicato con qualche aggiornamento nel 1986) l’economista Jean Fourastié aveva denominato “Trenta Gloriosi” gli anni 1946-1975, riferendosi in primo luogo alla Francia e ai progressi allora realizzati nella qualità e nella durata stessa della vita; ma l’espressione si può giustamente estendere a tutto l’insieme dei paesi sviluppati. Ai Trenta Gloriosi si sostituì la stagflazione del 1974-1982, con il fenomeno senza precedenti di stagnazione più inflazione. I “Trenta” assicurarono ai paesi dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) una crescita annua media vicina al 5%; con la stagflazione la crescita si fermò a poco più del 2% medio e cinque anni su nove videro una marcata riduzione della produzione industriale.
Con la crisi del 2008 ci troviamo di nuovo di fronte al brusco risveglio da una euforia finanziaria irrazionale, con la differenza che mentre nel 1929 la successione era stata “borsa, banche, economia reale”, ora è invece “banche, borsa, economia reale”. Oltre che per il quadro dell’economia, il 2008 appare un anno straordinario anche dal punto di vista della periodizzazione della storia mondiale. Cominciato solo nel 1914, il XX secolo merita di essere chiamato “secolo breve” (ma il nome con cui Hobsbawm propriamente lo ha identificato è “età degli estremi”) perché finisce in anticipo con la terza tranche 1973-1989/1991, definita ancora da Hobsbawm età della “frana”. Si può dire che quel che segue è come un incerto entre deux siècles (in attesa che il XXI secolo voglia svelarci il suo autentico volto), raffigurabile inizialmente come decennio delle meraviglie, con le promesse della new economy e della globalizzazione e con la convinzione che le crisi indomabili appartenessero al passato.
Le crisi, in verità, non sono mancate, a cominciare da quella che nel 1997-98 ha coinvolto i paesi asiatici di nuovo sviluppo, allora chiamati “tigri”. Un segnale più minaccioso venne poi dal Nasdaq, l’indice di borsa riservato alle società tecnologiche avanzate. Questo crebbe di oltre cinque volte fra il 1995 e il 2000, raggiungendo il 10 marzo il massimo assoluto di 5132 punti, un livello che dopo questa data non è stato mai più toccato (il boom dei social network lo ha riportato dai 3700 punti del settembre 2013 ai 4362 del 3 marzo 2014, ma anche questo sembra già in esaurimento). Per una pura coincidenza la pubblicazione del libro già ricordato di Robert Shiller (Euforia irrazionale), che studiava i fattori strutturali, culturali e psicologici degli alti e bassi di borsa, aveva preceduto di poco la caduta dei mercati azionari. Una crisi speculativa non è però sufficiente a provocare da sola una depressione e dovrebbe prima di tutto punire, giustamente, gli avventurieri della borsa. Quella del marzo 2000, in effetti, ha colpito maggiormente i titoli Nasdaq, che al loro minimo dell’ottobre 2002 avevano perso il 75%, quasi quanto i guadagni ottenuti nel quinquennio di euforia. Il listino globale si limitò a una perdita del 55% e cominciò a riprendersi più celermente. La crisi del 2001 è stata comunque superata dall’economia reale e (dopo la diversa crisi provocata dall’attacco alle Twin Towers e nonostante il fallimento della guerra americana in Iraq) gli Stati Uniti e i paesi di vecchio capitalismo hanno conservato negli anni 2003-2006 un clima positivo apparentemente confortato dai risultati.
Diversamente sono andate le cose con la crisi del 2007-2008. L’indice Dow Jones, che aveva raggiunto il massimo di 14093 punti il 12 ottobre 2007, risultava in discesa con il novembre successivo; perse il 7,8% fra l’8 e il 17 settembre 2008 e toccò il minimo di 6547 punti il 9 marzo 2009. Ci sono voluti quattro anni per recuperare per intero le perdite, con il livello di 14296 punti del 6 marzo 2013. Gli Stati Uniti hanno avuto nel 2008-2009 sei trimestri di recessione e poi quattro anni di alti e bassi. La disoccupazione ufficiale si trovava al 4,9% nel dicembre 2007; è salita al 10,2 nell’ottobre 2009 ed è poi discesa lentamente fino a un 6,3 non ancora rassicurante nell’aprile 2014. Le sorti degli Stati Uniti stanno però seguendo una via diversa da quella dell’Europa, dove la situazione del prodotto interno lordo e dell’occupazione resta grave.
La crisi del 2008 ha portato dunque nelle economie avanzate a una lunga recessione non ancora esaurita; le speculazioni finanziarie ne sono solo un sintomo, mentre il ruolo di causa profonda va attribuito a due fenomeni connessi. Da un lato (come pensano Joseph Stiglitz e Paul Krugman) l’intenso accrescimento delle diseguaglianze ha provocato l’impoverimento relativo e assoluto dei ceti medi e operai, la cui capacità di spesa aveva fatto da propulsore dello sviluppo consumista durante i Trenta Gloriosi. Dall’altro (come pensa Luciano Gallino) l’esaurimento dello sviluppo nell’economia reale ha trasferito la ricerca del profitto nella finanza speculativa, che non produce alcuna ricchezza in termini di beni e servizi. Considerando nel suo insieme il periodo 1980-2013 troviamo che nell’area Ocse il Pil è cresciuto mediamente di circa il 2% annuo; ma al netto degli anni 1993-2000 (che costituiscono, soprattutto per gli Stati Uniti, una parentesi a sé), il tasso medio di crescita è sceso sotto all’1,8%, che almeno a paragone con i Trenta Gloriosi fa pensare a una prolungata stagnazione.
Perché il 1929 non si ripeta
I ruggenti anni Venti possono essere letti come un prolungato desiderio: fare come se la Grande Guerra non ci fosse stata. Ciò è vero nell’economia, con il ritorno al gold standard sospeso durante il conflitto e con la ripresa del commercio mondiale, ma è ancora più vero nella vita sociale e nel costume. Il sogno si scontrava con la realtà dell’incrocio dei debiti internazionali prodotti dalla guerra e con l’incombente crollo dei prezzi agricoli e delle materie prime. Dal 1929-30 la grande depressione venne a dimostrare che il capitalismo non era più in grado di funzionare e che il fascismo e il comunismo erano valide ricette alternative alla combinazione di libero mercato (interno e internazionale) e democrazia.
Ai paesi nei quali la democrazia era riuscita a sopravvivere oltre il 1940, in sostanza gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, si impose l’obbligo di trarre la giusta lezione da ciò che era accaduto, progettando istituzioni in grado di prevenire il ripetersi dei cupi anni Trenta e di esorcizzare ogni tentazione totalitaria (comunista, dopo il 1945) prodotta dalla disoccupazione di massa. Si svolse nel luglio del 1944, con la seconda guerra mondiale ancora in corso, la conferenza di Bretton Woods che pose le basi di un nuovo sistema monetario destinato a favorire la fiducia e la collaborazione fra gli stati e la ripresa del commercio internazionale (su ciò interverrà nel 1947 il Gatt, il General Agreement on Tariffs and Trade). Sarà poi espressamente diretto a prevenire le agitazioni comuniste («disordini provocati dalla disperazione») il “piano Marshall” annunciato il 5 giugno 1947. In quell’occasione il segretario di stato americano avvertirà che «i governi, partiti e gruppi politici che cercano di prolungare le sciagure umane con lo scopo di approfittarne politicamente o in altro modo, incontreranno l’opposizione degli Stati Uniti».
È assai precedente, datato al 20 novembre 1942, quando l’esito della guerra era tutt’altro che deciso, il rapporto Social Insurance and Allied Service preparato per il governo britannico dall’economista lord William Beveridge. Complementare a questa relazione è quella che seguì nel 1944 con il titolo Full employment in a free society. Il Piano Beveridge, nelle sue due parti (protezione sociale e pieno impego) è il documento che contiene le linee essenziali delle politiche sociali adottate via via nel dopoguerra dagli stati occidentali, e non solo da quelli retti da governi socialdemocratici. L’assicurazione sociale contro i rischi degli infortuni, dell’invalidità, della disoccupazione aveva naturalmente degli antecedenti, che rimandano al 1883 e alla Germania di Bismarck. Il Welfare State presentato nel 1942 si distingueva per il suo intento di contrastare le condizioni che precludono la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica; scontando lo scarto fra il progetto e le resistenze della realtà, è poi diventato parte integrante della trentennale età dell’oro, è stato un’efficace concorrente nei confronti del comunismo e ha rinsaldato il patto democratico.
Lo stato sociale
La formula Welfare State, resa con “stato del benessere”, “stato sociale” o “stato assistenziale” (in francese État-providence) è quella che ha finito per sintetizzare le politiche destinate a proteggere gli individui dai “cinque giganti”, le forme che secondo l’espressione usata da Beveridge assume l’oppressione esercitata dal bisogno: la miseria, la malattia, l’ignoranza, lo squallore, l’ozio. Ad essi corrispondono gli impegni che lo stato assume nella protezione sociale (pensioni, previdenza, carichi familiari), nella creazione di un servizio sanitario nazionale, nell’istruzione pubblica, nell’edilizia popolare, nella politica di pieno impiego (a proposito dell’ozio, Beveridge diceva che «è sempre fattore di corruzione fra gli uomini, anche se non accompagnato dal bisogno»).
Per la verità Beveridge non usa mai le parole Welfare State e, anche se il suo piano prevedeva il sostegno nel caso di spese straordinarie legate a nascite, matrimoni o morte, egli avrebbe considerato una caricatura l’idea che il cittadino potesse essere affidato alla protezione dello stato “dalla culla alla tomba”. Beveridge non pensava che lo stato dovesse sostituirsi all’individuo per procurargli “benessere”: «Vi sono molti che pensano che la ricerca della protezione sociale sia uno scopo errato, perché per essi le parole “protezione” e “sicurezza” significano qualcosa che non va d’accordo con l’iniziativa, con lo spirito di avventura e con la responsabilità individuale. Ma […] questo piano non è stato fatto perché venga concesso qualcosa a tutti gratuitamente e senza fatica, o qualcosa che li liberi per sempre dalle responsabilità individuali». Su questo punto Beveridge torna continuamente («lo stato non deve soffocare né le ambizioni, né le occasioni, né le responsabilità») e chiarisce che, se i costi del welfare devono essere finanziati con l’assicurazione sociale obbligatoria (a carico dei lavoratori e degli imprenditori) e in parte con l’imposta, niente impedisce a chi ne ha la possibilità di pagarsi da sé una pensione integrativa e una scuola o una assistenza sanitaria privata. Il principio della solidarietà esclude però che qualcuno possa pretendere di stare del tutto fuori dal sistema della sicurezza «perché ha migliore salute o un impiego più regolare».
D’altra parte Beveridge, che aderì al partito liberale, non pensava neppure che il servizio sociale statale dovesse escludesse un’ampia partecipazione autonoma degli individui come singoli e come associati. Nel 1948 pubblicò, come naturale continuazione dei due precedenti, un terzo rapporto, risultato di un’inchiesta sul mutuo soccorso in Gran Bretagna, e lo intitolò L’azione volontaria (espressione che diventa più trasparente se viene resa con “volontariato”), avendo in mente «ciò che l’individuo dovrebbe fare indipendentemente dallo stato», che, per suo conto, deve assicurargli «il massimo di libertà e di responsabilità”.
Lo stato sociale non è una forma attenuata di socialismo, non persegue lo scopo di superare il capitalismo o di abolire le classi sociali. Questo punto venne ben illustrato dalla conferenza su Cittadinanza e classe sociale tenuta nel 1949 dal sociologo Thomas H. Marshall, con un assunto principale: «la disuguaglianza del sistema delle classi sociali può essere accettabile nella misura in cui viene riconosciuta l’uguaglianza della cittadinanza». E ciò comporta il riconoscimento di diritti sociali che seguono una logica del tutto diversa da quella della vecchia assistenza alla povertà. Nel XIX secolo la povertà era una dimostrazione di insuccesso e «chi accettava l’assistenza usciva dalla comunità dei cittadini». Le prestazioni dello stato sociale presuppongono, invece, e intendono rafforzare il possesso della cittadinanza, con la sua «percezione diretta dell’appartenenza alla comunità […], fondata sulla fedeltà a una civiltà che è possesso comune». Per conseguenza il minino garantito in settori come l’istruzione o la sanità non dipende dal reddito ma ha un carattere universale. Deve anche avere una elevata qualità, così che gli extra che i ricchi possono e vogliono pagarsi da sé «diventino solo fronzoli lussuosi». Facendo della cittadinanza una sorta di «architetto della disuguaglianza sociale legittima», il principio universalista esclude che i servizi sociali siano un modo per livellare i redditi. Esso mostra perfino delle implicazioni paradossali, perché il ricco che usufruisce del servizio sanitario può spendere in altro modo il denaro che prima gli serviva per pagare il medico.
Dal 1973 alla rivoluzione neoliberale
La crisi petrolifera del 1973 sopraggiunse mentre stava dispiegando tutto il suo impatto emotivo il libro I limiti dello sviluppo il rapporto del Massachussets Institute of Technology pubblicato nel 1972 che prevedeva entro venti anni segni consistenti dell’esaurimento delle riserve di petrolio. Il decennio della stagflazione che allora si aprì fu quello della massima demoralizzazione degli Stati Uniti, segnata fra l’altro (un elenco completo sarebbe troppo lungo) dalle dimissioni forzate del presidente Nixon. La rivoluzione khomeinista in Iran e il sequestro a Teheran del personale dell’ambasciata americana, la seconda crisi petrolifera (con un nuovo raddoppio dei prezzi nel 1979-80) e le code delle auto alle pompe di benzina condussero nel novembre 1980 all’inevitabile vittoria elettorale dei repubblicani e di Ronald Reagan, preceduta nel 1979 dall’inizio della lunga stagione del predominio dei conservatori di Margaret Thatcher in Gran Bretagna.
Fra i molti aspetti della vera e propria rivoluzione (resta tale, anche se la chiamiamo conservatrice o neoliberale) che allora si aprì e che viene a volte riassunta con la parola deregulation, uno riguarda l’inflazione. Essa andava combattuta con tutti i mezzi e di fatto venne sconfitta a partire dal 1982. Se pure era stata provocata dai signori del petrolio, veniva ora alimentata dai sindacati che con il loro potere erano riusciti fino ad allora ad adeguare i salari ai prezzi, distorcendo il mercato e danneggiando l’economia. A ciò andava aggiunto il peso crescente della spesa pubblica. Lo scontro con i sindacati e l’impegno a ridurre le tasse, e quindi lo stato sociale, in nome del primato del mercato fu perciò al centro della rivoluzione neoliberale. È notevole, del resto, che prima ancora dell’avvento di M. Thatcher e R. Reagan, il nuovo vento fosse stato percepito nell’assegnazione del premio Nobel per l’economia, toccato nel 1974 a Friedrich von Hayek e nel 1976 a Milton Friedman. Entrambi erano esponenti della dottrina liberista offuscata durante i decenni di trionfo del welfare state e della pianificazione statale (detta “programmazione” per distinguerla da quella di tipo sovietico) dello sviluppo economico. Il vento ha preso a soffiare in senso inverso quando il premio Nobel è stato assegnato a Joseph Stiglitz e Paul Krugman, nel 2001 e nel 2008, ma finora con limitati effetti sulla gestione della politica economica e sociale.
Ancor più notevole è trovare i temi dell’attacco allo stato sociale nel contesto di un libro di netta impostazione marxista, The Fiscal Crisis of the State, scritto nel 1973 dall’economista americano James O’ Connor. La tesi di O’ Connor era che il welfare state non poteva essere visto separatamente dal “warfare state”, l’apparato militare imperialista. Il capitalismo tende inevitabilmente all’accumulazione e alla sovrapproduzione nonché alla creazione di una “popolazione eccedente” di disoccupati e precari. L’assistenza sociale serve a controllare politicamente questa popolazione e a sostenere la domanda e i mercati interni. Non diverso è lo scopo dell’impresa statale, più tipica dell’Europa: placare il malcontento politico e, in più, ripianare le perdite del capitale privato accollandosi le attività meno produttive. «La nazionalizzazione è stata tipicamente un provvedimento introdotto e diretto da forze conservatrici che cercavano di stabilizzare l’ordine sociale ed economico.» Il warfare state è necessario per il controllo dei mercati esteri, tiene a bada le potenze rivali, ostacola la rivoluzione mondiale e ugualmente evita il ristagno economico. Il welfare state, inoltre, disarma politicamente la popolazione eccedente, che si trova sempre a più dipendere dai vari programmi assistenziali e preme per il loro ampliamento. L’intreccio fra welfare e warfare fa sì che i sindacati e il capitale monopolistico si trovino ad avere oggettivamente un interesse comune. L’uno e l’altro producono una spesa pubblica improduttiva che tende continuamente ad aumentare e contribuisce alla lunga a rendere insostenibile la crisi fiscale dello stato e a creare tensioni all’interno del capitalismo. D’altra parte il costo dello stato sociale viene gestito inasprendo lo sfruttamento fiscale della classe operaia stessa.
L’aspetto dei costi figura solo come una componente accanto ad altre di natura più generale nella critica all’intervento dello stato nell’economia condotta dagli esponenti del neoliberalismo (o neoliberismo). Torniamo allora a Hayek e Friedman, prendendo il loro pensiero nell’originaria formulazione filosofico-politica più ancora che in quella data negli anni Settanta nelle opere più strettamente economiche.
Risale al 1944 La via della schiavitù, il libro di Hayek destinato a dimostrare che senza la libertà economica non è mai esistita e non potrà mai esistere la libertà personale e politica. Hayek andava anche oltre e sosteneva che il nazismo non era un peculiare prodotto della Germania ma il naturale compimento dei programmi socialisti, «non una reazione contro le tendenze socialiste, ma un esito necessario di quelle tendenze». Questa tesi, un po’ attenuata nella riedizione del libro pubblicata nel 1976, era così ripresentata in quella del 1955: «il fascismo e il comunismo sono semplicemente varianti di uno stesso totalitarismo, che il controllo centrale di ogni attività economica tende a produrre». Hayek doveva certo ammettere che i sei anni di governo laburista (1945-1951) non avevano prodotto in Inghilterra uno stato totalitario, ma ripeteva che la via verso la servitù passa prima di tutto attraverso un lento cambiamento «nel carattere della gente» e che «i mutamenti nel carattere del popolo inglese, non soltanto sotto il governo laburista, ma per un periodo di tempo molto più esteso durante il quale si è goduto della benedizione di un paternalistico stato sociale, sono effettiva realtà».
Il libro di Friedman che prendiamo in considerazione è Capitalism and Freedom del 1962. Il titolo è diventato nella prima tradizione italiana Efficienza economica e libertà, che rende forse anche meglio dell’originale la differenza che passa fra il puro liberismo e il liberalismo etico-politico che considera la libertà qualcosa di più elevato del mercato e dell’efficienza. Il senso del libro si ritrova tutto nella critica che Friedman rivolge alla celebre formula di John F. Kennedy nel gennaio 1961: «americani, non chiedetevi cosa il vostro paese può fare per voi, chiedetevi cosa voi potete fare per il vostro paese». Nessuna delle due sue parti sembra a Friedman degna di un uomo libero. La prima è paternalista e presenta il governo come tutore e il cittadino come pupillo. La seconda è organicista e vede il governo come il signore o la divinità e il cittadino come il servo o il devoto. L’uomo libero considera il governo solo un mezzo e non un dispensatore di favori, «non ammette l’esistenza di nessun fine nazionale che non sia la convergenza dei fini per i quali i cittadini individualmente si battono». Sul fronte della libertà troviamo perciò uno stato minimo, che esiste solo al servizio dell’individuo, e un individualismo restio ad ammettere la voce di un’etica pubblica. Sul fronte dell’efficienza economica troviamo una difesa del mercato ben condotta ma sofistica e ideologica di fronte a qualunque argomento contrario. Più moderatamente Beveridge aveva sì considerato un preconcetto l’idea che «qualunque lavoro fatto in vista del profitto fosse immorale» oltre a dichiarare di essere avverso per inclinazione allo statalismo economico, ma aveva ammesso il controllo statale e la proprietà pubblica nei casi in cui essi servissero «per curare i mali che non sono curabili altrimenti».
Gli anni Ottanta, una svolta epocale
Passato il clima di scoraggiamento che contrassegnò gli anni delle crisi petrolifere, la ripresa di un fiducioso ottimismo poté trovare in opere come Capitalism and Freedom il suo manifesto ideologico. Per il laburista Richard Titmuss, autore negli anni Cinquanta di importanti studi sul welfare state, impegnare lo stato a «ridurre le diseguaglianze proprie della condizioni di dipendenza» (vecchiaia, vedovanza, malattia, disoccupazione) non significa attentare alla libertà creando una dipendenza dallo stato ancora peggiore. Il principio che si impose nell’era Thatcher-Reagan può essere invece espresso con queste parole: “l’individuo farà comunque meglio da sé, e se fallisce vuol dire che non era all’altezza”. La logica dell’assicurazione pubblica era ridotta a una perdita dell’incentivo a fare da sé; un aiuto esterno, come per i sussidi di disoccupazione, poteva in extremis intervenire, ma doveva essere sudato e suonare come una sconfitta e una riprovazione.
L’impressione di un ritorno all’Inghilterra della legge sui poveri e di Dickens non esaurisce però il quadro. Nel loro procedere gli anni Ottanta e poi il successivo fortunato decennio furono il periodo in cui ebbe la massima valorizzazione la creatività individuale, capace di inventare la nuova economia fondata sull’informazione e sulla conoscenza. Furono gli anni della commercializzazione dei prodotti di Microsoft e Apple/Macintosh, della rivoluzione post-industriale e dell’economia leggera e smaterializzata che si contrapponeva a quella “pesante” e aveva meno bisogno di dissipare energia e materie prime: negli Stati Uniti, i più grandi dissipatori, nei quarant’anni successivi al 1975 i consumi pro-capite di energia hanno smesso di crescere e si sono ridotti, anche se solo di un 10%, mentre la produzione di acciaio è diminuita di un buon terzo. Gli anni successivi al 1985 furono poi quelli della globalizzazione del commercio, del lavoro (delocalizzazione, migrazioni), dei capitali (finanziarizzazione). Non erano fenomeni privi di precedenti: esiste una prima globalizzazione, quella del 1870/1890-1913, i cui livelli, perduti nel 1914-1945, erano stati recuperati appena nel 1970. Pur all’interno di un unico processo, l’accelerazione avvenuta negli anni Ottanta e la dimensione raggiunta nel 2000 restavano tuttavia fatti innegabili.
Ad accrescere l’euforia dell’epoca c’era poi la vittoria finale ottenuta sul modello nemico, il comunismo sovietico. La sua agonia era diventata evidente in coincidenza con quella di Breznev (morto nel 1982). L’America di Reagan si era allora convinta che con l’Urss, diventata un bluff, si poteva farla finita semplicemente dicendo “vedo”, come poi effettivamente accadde. Di fronte alla comparsa di una nuova ideologia vincente, sorretta dalla lotta di classe portata ora dai ricchi e dagli aspiranti tali e francamente favorevole alla diseguaglianza, anche il progetto socialdemocratico europeo e quello democratico americano stavano per perdere il loro appeal.
Il fatto era che l’ideologia neoliberista non aveva conquistato solo le élite sociali ed economiche. Nella nuova società dell’iniziativa e del rischio erano in molti a far propria la convinzione che lo stato era diventato davvero pesante e inefficiente e che pur di avere meno tasse si poteva rinunciare a certi servizi; chi era davvero capace avrebbe fatto da sé. Se non voleva davvero la vittoria definitiva del neoliberismo più aggressivo, la socialdemocrazia doveva accettare come un dato di fatto l’avvento della società del rischio e andare “oltre la destra e al sinistra” tradizionalmente intese. Nel libro del 1994 così intitolato il sociologo inglese Anthony Giddens poteva scrivere: «lo stato sociale non può sopravvivere nella sua forma attuale; o, se lo farà, subirà probabilmente continui tagli e ridimensionamenti anche per mano dei governi che con più forza sostengono i principi su cui è costruito.» Lo stato sociale stava cadendo in due generi di “trappole”, previste già dagli Settanta: da un lato l’invecchiamento della popolazione avrebbe fatto sempre più crescere i costi del sistema pensionistico e di quello sanitario; dall’altro le varie forme di assicurazione sociale avrebbero disincentivato la ricerca di una nuova occupazione e creato alla lunga una contrapposizione fra le categorie protette e quelle non protette perché mai entrate nel mondo del lavoro.
La cosa più notevole nel libro di Giddens era però che esso considerava i costi del welfare meno importanti della franca accettazione dei nuovi temi e valori estranei alla vecchia idea della sinistra. Ciò si vede bene nelle pagine dedicate alla vecchiaia, considerata in atto dai 65 o perfino 60 anni. Questa andava considerata «un’invenzione pura e semplice dello stato sociale», insieme allo status di “pensionato” che a cominciare dalla parola stessa «suona come invalidante, indicando una persona dipendente». Il sessantacinquenne di oggi è (e sa di essere) tutt’altro che un invalido. Nello stesso ordine di idee Maurizio Ferrero (Le trappole del welfare, 1998) ha così potuto qualificare come economicamente insostenibili e socialmente inefficienti (perché invitano all’inattività) i «venti o trent’anni di pensione-vacanza sussidiata dallo stato».
Nel maggio 1997 il “New Labour” di Tony Blair vinse le elezioni e pose fine ai diciotto anni di predominio conservatore (lo stesso anno era cominciato negli Stati Uniti il secondo mandato da Bill Clinton, succeduto nel 1993 ai dodici anni di amministrazione repubblicana). Il nuovo libro di Giddens La terza via (1999) poté apparire come un consapevole manifesto a favore di una nuova socialdemocrazia, “terza” rispetto alla vecchia sinistra e alla nuova destra. Giddens ripresentava i principi base di Beveridge o Marshall: «soltanto un sistema di welfare che benefichi la maggior parte della popolazione potrà generare una moralità comune della cittadinanza. Laddove “welfare” assume soltanto una connotazione negativa, ed è per lo più mirato ai poveri, come tende ad accadere negli Stati Uniti, la conseguenza sarà la divisione sociale.» Ciò non toglie però che il welfare state originario fosse stato pensato in termini negativi, per sopperire a delle mancanze (insicurezza, povertà, malattia, ignoranza) e per condizioni che appartenevano al passato, quelle di una nazione che usciva dalla seconda guerra mondiale e stava entrando nella guerra fredda. Esso si rivelava inadatto per i rischi di tipo nuovo, connessi al cambiamento tecnologico e ai mutamenti della famiglia, alla globalizzazione e a “valori post-materialistici” come quelli dell’ambientalismo. Doveva ora assumere le vesti di un welfare positivo, destinato a rafforzare l’autostima e a preparare a fronteggiare adeguatamente la società del rischio.
Un esempio può chiarire in cosa consiste la terza via. I sussidi di disoccupazione elargiti dal vecchio welfare hanno ridotto la tensione verso la ricerca di un nuovo lavoro e hanno finito per produrre nuova disoccupazione. Ma la riduzione dei sussidi con lo scopo di costringere ad accettare un qualsiasi nuovo lavoro ha portato, in certi settori, a salari sempre più bassi per un numero crescente di persone. Il welfare positivo, nella società di internet, si baserà piuttosto sulla formazione e riqualificazione professionale, con lo scopo di tener dietro all’innovazione tecnologica.
Prima e dopo il 2008
La new economy e la concreta pratica della Terza via non hanno tuttavia impedito né il procedere verso la “finanziarizzazione” dell’economia né la marcia verso la diseguaglianza. La deregulation della finanza cominciata con Reagan e quella completata da Clinton nel 1999 sono capitoli della storia. D’altra parte, questo è il quadro della distribuzione dei redditi negli Stati Uniti offerto da Paul Krugman. Fra il 1947 e il 1980 il reddito reale (misurato in dollari del 2010) dell’1% più abbiente è rimasto stabile o è cresciuto di poco, raggiungendo i 500 mila dollari. Quello della famiglia media è raddoppiato, passando da 25 mila a 50 mila dollari. Fra il 1980 e il 2010 l’1% più ricco è passato da 500 mila a 2 milioni di dollari, mentre la famiglia media ha appena sorpassato la soglia dei 50 mila dollari già raggiunta nel 1980.
Con le dovute semplificazioni, la storia successiva al 1980 presenta un profilo ben definito. La sfida dei padroni del petrolio ha prodotto nei paesi di vecchio capitalismo una adeguata risposta, economica, politica e culturale. Questa ha comportato un ridimensionamento del welfare state cui negli anni Settanta nessun governo conservatore aveva davvero pensato. Il comunismo aveva cessato di essere un serio rivale già verso il 1985; l’Occidente smise di preoccuparsene e si crearono le condizioni per attuare il neoliberismo sia nel mercato del lavoro che in quello dei capitali. Il mercato globale, con la delocalizzazione delle produzioni, non ha giovato all’occupazione e ai salari degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale. Si faceva però ingannare dalla superficie chi manifestava contro la globalizzazione vedendovi solo una nuova forma di imperialismo economico e culturale (l’occidentalizzazione del mondo). Di fatto nei venticinque anni 1990-2014 la presa dell’Occidente sul mondo è piuttosto diminuita che aumentata; i vantaggi che ne ha tratto sono certo inferiori a quelli conseguiti da una grande parte dell’ex Terzo mondo. Ciò che resta invece vero è che, con la progressiva perdita di importanza del G7 o G8 e il mancato decollo di un G2 Stati Uniti-Cina, la globalizzazione non ha creato gli strumenti per controllare le crisi e ha reso più difficile il governo economico del mondo.
Nessuno può dire che natura assumerà la depressione seguita alla crisi del 2007-2008. Avventurarsi a predire la fine del capitalismo non è molto opportuno, visto che predizioni affrettate in proposito risalgono al 1848. Più importante è invece notare che oggi mancano le prospettive degli anni Trenta e Quaranta (comunismo, fascismo, capitalismo regolato) e degli anni Settanta e Ottanta (terzomondismo, ecologia e sviluppo sostenibile, deregulation e neoliberismo). L’indirizzo che la crisi ha preso dal 2010 al di qua dell’Atlantico ha anche messo a repentaglio l’avvenire del modello Europa, mentre sembra molto dubbio che possa acquisire una attrattiva universale il modello del capitalismo cinese, privo del soft power rappresentato da un insieme come “Hollywood, coca cola, blue jeans, rock and roll”.
Opere citate
- W. Beveridge, L’azione volontaria (1948), Edizioni di Comunità, Milano 1954
- W. Beveridge, La libertà solidale. Scritti 1942-1945, Donzelli, Roma 2010
- W. Beveridge, Alle origini del Welfare State, F. Angeli, Milano 2010
- M. Ferrera, La trappola del Welfare, il Mulino, Bologna 1998
- M. Friedman, Efficienza economica e libertà (1962), Vallecchi, Firenze 1967
- J. Fourastié, Les Trente glorieuses ou la révolution invisible de 1946 à 1975 (1979), Fayard, Paris 1986
- L. Gallino, Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino 2013
- Anthony Giddens, Oltre la destra e la sinistra (1994), il Mulino, Bologna 1997
- Anthony Giddens, La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia (1998), il Saggiatore, Milano 1999
- S. Guarracino, Storia degli ultimi settant’anni. Dal XX al XXI secolo, B. Mondadori, Milano 2010
- F. Hayek, La via della schiavitù (1944), Rusconi, Milano 1995
- Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, (1994), Rizzoli, Milano 1995
- P. Krugman, Fuori da questa crisi, adesso! (2012), Garzanti, Milano 2012
- Th. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale (1950), Laterza, Roma-Bari 2002
- J. S. Nye jr., Soft Power (2004), Einaudi, Torino 2005
- J. O’ Connor, La crisi fiscale dello stato (1973), Einaudi, Torino 1977
- R. J. Shiller, Euforia irrazionale. Alti e bassi di borsa (2000), il Mulino, Bologna 2009
- J. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro (2012), Einaudi, Torino 2013
- R. Titmuss, Saggi sul “Welfare State” (1958), Edizioni Lavoro, Roma 1986