“Che storia!” La metodologia della scienza come nuovo orizzonte della didattica e della cittadinanza
Abstract
La abbondanza di dati e di informazioni presenti sulla rete configura un contesto problematico da gestire in un orizzonte culturale tradizionale. Si tratta, pertanto, di decidere se continuare a difendere lo status quo, assumendolo come modello di cultura “autentica” o, invece, provare a immaginare strategie di apprendimento e di trasmissione del sapere in grado di contenere i rischi e ottimizzare le concrete opportunità di una realtà aumentata. Nell’ambito di queste prospettive, l’educazione scientifica pare configurarsi come la background knowledge a partire da cui ridefinire logiche e ambienti dell’apprendimento.
“Non è strano che la cultura possa essere indebolita da un eccesso d’informazione che impedisce di selezionare e di riflettere e mette in difficoltà i tempi dell’autentica cultura, che non è cumulo di nozioni bensì capacità di critica e autocritica, passione e distanza”1.
Così, sul Corriere della Sera del 26 febbraio 2014, Claudio Magris poneva una questione seria. E lo faceva calamitando l’attenzione dei suoi lettori sull’apparente (e insidioso) paradosso che contrappone “l’incredibile quantità”2 di dati (più o meno attendibili) resi disponibili dalla rete e, sull’altro fronte, i ritmi propri del metabolismo culturale – ovvero, le dinamiche con cui ci nutriamo di sapere: masticando, digerendo e assimilando nozioni, concetti e visioni del mondo plausibili, scartando invece il resto.
A ben vedere, però, il problema sollevato dal letterato triestino è talmente profondo da avere più storia che soluzioni. Una prospettiva cronologica sull’evoluzione delle tecnologie sarebbe, infatti, sufficiente a mostrare come timori e tremori di tal fatta si siano riproposti in ogni epoca in cui qualche dispositivo o supporto abbia significativamente aumentato il grado di esternalizzazione dell’informazione e della conoscenza: dalla scrittura alfabetica, alla stampa a caratteri mobili; dalle rotative alla rete.
Aveva colto nel segno Friedrich Engels quando sosteneva che, oltre un certo limite, la quantità si trasforma in qualità. Nel senso che, superato un certo livello, un incremento quantitativo genera un mutamento qualitativo nella natura stessa di un fenomeno. E la rete, appunto, non fa eccezione a questa regola. L’ontologia aumentata conseguente alla sua diffusione – per lo meno da quando il CERN di Ginevra decise (30 aprile 1993) di rendere pubblico il World Wide Web rinunciando a ogni diritto d’autore – ha effettivamente definito un orizzonte qualitativamente diverso entro cui reimparare sempre e di nuovo a orientarsi.
Il mare magnum di dati e informazioni in cui da quel momento ci si è trovati a navigare configura un contesto di gran lunga differente da quello costituito da tutte le “mappe cartacee” che, fino a qualche decennio fa, ancora riuscivano a contenere (e a com-prendere) l’intero universo dei saperi e delle informazioni disponibili.
A fronte di tale transizione, si tratta quindi di decidere il da farsi. E le alternative che si prospettano sono sostanzialmente due:
a) difendere da un lato la tradizione, assumendola come il modello di cultura “autentica”, mentre dall’altro si stigmatizza l’innovazione come la premessa materiale di un naufragio epocale;
b) non perdere tempo nel prospettare improbabili scenari apocalittici e – come del resto è sempre successo in circostanze e fasi storiche analoghe – provare piuttosto a immaginare quali strategie di apprendimento e di trasmissione del sapere potrebbero contenere i probabili rischi e ottimizzare le concrete opportunità di una (inedita) realtà aumentata, dentro e fuori la scuola.
Più schematicamente, è giunto il momento di scegliere tra l’illusione e la consapevolezza. Tra l’illusione – per molti versi rassicurante – che esista un patrimonio di pratiche e di valori in cui si custodisce la “natura autentica” del pensiero e della conoscenza dell’essere umano; e, invece, la consapevolezza – sicuramente più destabilizzante – che ciascuno di noi non agisce e non pensa indipendentemente dagli strumenti (più o meno tecnologici) attraverso cui si interfaccia col mondo e con i propri simili3.
Chi propenderà per l’illusione avrà gioco facile nel rifugiarsi in un passato sclerotizzato (e spesso idealizzato) e nel diffidare quindi di tutte le epifanie tecnologiche e di tutte le conseguenti ricadute che in qualche modo potranno anche solo incrinare lo status quo.
Diversamente, chi sceglierà la via della consapevolezza potrà invece fare tesoro di una vecchia lezione di Immanuel Kant. Quella in cui il filosofo di Könisberg, in un celebre scritto del 17864, mostrava come l’esercizio del pensiero sia una attività sotto molti aspetti analoga a quella dell’orientarsi in uno spazio più o meno conosciuto (ed esperito).
E nel caso della rete l’analogia kantiana risulta particolarmente pregnante proprio in considerazione del fatto che – come si accennava più sopra – in un orizzonte tanto “aumentato”, la pratica di un orientamento consapevole dovrebbe diventare parte costitutiva e fondante di un percorso formativo allargato (esteso dunque ai docenti, prima ancora che agli studenti) e finalizzato anche alla costruzione di un progetto di cittadinanza tecnico-scientifica.
A tal proposito, occorre però far attenzione e non confondere tale proposta formativa con l’erogazione di un mero (per quanto utile) aggiornamento informatico. Non è in gioco qui la sola competenza tecnico-operativa nel gestire e utilizzare i nuovi dispositivi resi disponibili dal mercato dell’innovazione. Più radicalmente, si delinea invece l’esigenza di imparare a pensare costruttivamente con le macchine che stanno riplasmando l’“ontologia quotidiana” entro cui andiamo riscrivendo il nostro modo di abitare il mondo.
Chi opta dunque per la consapevolezza, dovrebbe impegnarsi a intuire nel paradosso proposto da Magris la silenziosa opportunità che si nasconde dietro al pericolo tanto urlato. E per riuscirci, sarebbe molto d’aiuto cominciare (davvero!) a considerare cultura a tutti gli effetti anche la pratica scientifica. Assumendo tale prospettiva, se si iniziasse a contemplare più da vicino (e con qualche pregiudizio in meno) il lavoro artigianale5 dello scienziato, ci si renderebbe conto di come anche lui – e per lo meno dai tempi di Galilei – sia costretto a imparare quotidianamente a ri-orientarsi nel denso flusso di dati e di informazioni che confluisce in un orizzonte davvero sconfinato: quello, appunto, della sua ignoranza.
Un’ignoranza feconda, diversa da quella da cui abbiamo preso le mosse: più che un pericolo da temere, addirittura un’occasione (formativa) da sfruttare. Così almeno la pensava uno dei più importanti fisici del secolo scorso.
“Lo scienziato – scriveva infatti Richard Feynman – convive quotidianamente con l’ignoranza, il dubbio e l’incertezza e questa, a mio avviso, è una esperienza fondamentale”6. Ed è fondamentale proprio perché induce – per non dire costringe – il ricercatore a imparare a trasformare le nozioni e le evidenze di cui già dispone in strumenti sempre più raffinati attraverso cui muoversi sensatamente in un orizzonte di temi e problemi di cui (ancora) non conosce i confini e le dimensioni. Utilizzare e perfezionare strumenti (concreti e concettuali) per gestire razionalmente la propria ignoranza è uno degli elementi decisivi che consentono di reperire nella pratica scientifica la matrice culturale per una concreta e rigorosa attivazione di competenze utili a vivere più criticamente il portato della rivoluzione tecnologica cui stiamo assistendo.
Ribadisco, infine, che il bisogno di una educazione scientifica come background knowledge entro cui ridefinire strategie e contesti dell’apprendimento aumentati dalle tecnologie,7 rappresenta altresì la conditio sine qua non di ogni serio progetto di cittadinanza tecnologica.
E questo proprio perché in un mondo in cui si teme (per certi versi a ragione) che l’abbondanza rischi di sopraffarci, è importante riuscire a distinguere e scegliere con criterio e autonomia di giudizio. In altre parole, appunto, saper orientarsi.
Ma per passare dalle parole ai fatti, una qualche dimestichezza con l’esercizio di un’antica libertà potrebbe rivelarsi un’abilità preziosa. Così, per offrire qualche breve cenno storico sull’origine e la rilevanza di tale antico esercizio di emancipazione (individuale e collettivo), cedo nuovamente la parola a Feynman: “La nostra libertà di dubitare è nata da una lotta contro l’autorità, agli albori della scienza. Una lotta dura e difficile per conquistarsi il diritto di mettere le cose in discussione, di non accettare certezze, di dubitare. Non dovremmo dimenticarcene o rischieremmo di perdere quello che abbiamo conquistato. La nostra responsabilità nei confronti della società consiste proprio in questo”8.
Note
1. Il citato articolo di C. Magris dal titolo “Perché siamo diventati così ignoranti” è reperibile al seguente link: http://www.corriere.it/tecnologia/cyber-cultura/14_febbraio_26/perche-siamo-diventati-cosi-ignoranti-400e4866-9ee3-11e3-a5c9-783ac0edee3c.shtml?refresh_rum
3. Sia lecito qui il rimando a S. Moriggi, Connessi. Beati coloro che sapranno pensare con le macchine, San Paolo, Cinisello Balsamo 2014. Per una trattazione più ampia del rapporto “umano”/“tecnologico” si veda anche S. Moriggi, G. Nicoletti, Perché la tecnologia ci rende umani. La carne nelle sue riscritture sintetiche e digitali, Milano, Sironi 2009.
4. Si allude a qui a I. Kant, Cosa significa orientarsi nel pensiero, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1996, in particolare pp. 45-51.
5. Qui l’uso dell’aggettivo “artigianale” fa eco all’accezione data da R. Sennett in L’uomo artigiano, tr. it. Feltrinelli, Milano 2008.
6. R. Feynman, “Il valore dela scienza”, in Il piacere di scoprire, tr. it. Adelphi, Milano 2002, p. 153.
7. Sia lecito nel merito il rimando a P. Ferri, S. Moriggi, “La Classe di Bayes: note metodologiche, epistemologiche ed operative per una reale digitalizzazione della didattica nella scuola italiana”, in Educational, Cultural and Psycological Studies (ECPS), 10 (2014), pp. 131-151.
8. R. Feynman, “Il valore della scienza”, cit., p. 154.