Gli stereotipi sulle migrazioni
Testo esperto per docenti, con bibliografia
Premessa: perché tematizzare gli stereotipi sulle migrazioni
Tra le molte questioni “socialmente vive” legate al tema Nord/Sud del Mediterraneo, quella delle migrazioni è senza dubbio la più intensa, quella che più di ogni altra è impressa nelle menti, nei cuori e nelle pance degli studenti, attraverso i più diversi canali (dalle immagini televisive sulle “tragedie del mare”, ai commenti captati in famiglia, alle battute tra coetanei). Queste “preconoscenze”, è superfluo aggiungerlo, sono basate in gran parte su luoghi comuni, stereotipi, pregiudizi, presenti negli studenti come nell’insieme della società. Da questo presupposto mi sembrano ricavabili tre conseguenze:
1) l’inutilità di affrontare in aula il tema delle migrazioni ignorando gli stereotipi che le riguardano, perché (anche senza scomodare le teorie freudiane sulla rimozione e sui vissuti profondi) sarebbe come mettersi a tinteggiare una parete ignorando che è rivestita di impermeabilizzante;
2) la dannosità di affrontare questo tema in chiave di “attualità”, o solo di astratti “diritti umani” e “diritti di cittadinanza” (e peggio ancora se con approccio predicatorio o moralistico);
3) l’utilità (che diventa anche un dovere deontologico, per me docente di storia) di affrontare il tema delle migrazioni, e degli stereotipi ad esso legati, mediante le risorse della storia, restituendo spessore diacronico e prospettiva di comparazione storica a un fenomeno usualmente visto come “emergenza” schiacciata sul presente e sulla cronaca; e in quanto tale, priva non solo di un passato, ma anche di un futuro.
Ho scelto i cinque stereotipi di seguito indicati (al punto B) – alcuni più “di bassa lega”, altri più “colti” – perché sono largamente diffusi, cosa che rende significativo e credibile per gli studenti il lavorare su di essi.
Questi stereotipi consentono di spaziare diacronicamente nell’ambito della demografia storica, cioè di ragionare sul passato, sul presente e anche sul futuro, dato che la demografia è l’unica scienza sociale che può spingersi a fare previsioni attendibili, entro l’arco di un paio di generazioni 1Rispetto alle previsioni allarmistiche dei primi anni ’70 sull’aumento della popolazione mondiale, rivelatesi grossolanamente infondate, le revisioni effettuate annualmente dall’apposita agenzia dell’Onu mostrano, dalla fine degli anni ’90 al presente, scostamenti minimi (vedi in sitografia)..
C’è pertanto, e non casualmente, una contiguità con gli altri due studi di caso da me costruiti (vedi Le transizioni demografiche nel mondo e nel Mediterraneo): essi potrebbero utilmente precedere questo, che peraltro ha una sua autonomia e può essere svolto anche senza il supporto di quelli.
Le migrazioni come sguardo non settoriale sulla storia
La contiguità riguarda anche gli autori sui quali ho basato lo studio di caso e dai quali ho tratto i materiali per gli studenti (non documenti, ma brani storiografici): Massimo Livi Bacci, in primo luogo, e Antonio Golini, i due massimi esperti italiani di demografia storica (vedi bibliografia). Oltre a una sostanziale convergenza interpretativa, essi hanno in comune la propensione a inscrivere i fenomeni migratori in una prospettiva storica di lunghissimo periodo, dal passato al futuro, e in una complessa rete di relazioni non solo con le dinamiche demografiche in cui le migrazioni si inscrivono, ma anche con quelle economiche, sociali e antropologiche, politiche e giuridiche; fino a fare diventare le migrazioni uno sguardo “totale” (non settoriale) sulla storia umana passata, presente e futura. Qui di seguito, mi riferirò perciò ai loro contribuiti, evidenziando i temi più direttamente pertinenti al lavoro sugli stereotipi qui proposto (e in gran parte sviluppati nei brani antologizzati al punto C), e richiamandone alcuni altri, importanti ma lasciati in ombra nei documenti perché non direttamente pertinenti a tali stereotipi.
Le migrazioni del passato
Le migrazioni sono sempre state una componente fondamentale della storia umana. Dopo quelle preneolitiche, cui si deve il popolamento di tutto il pianeta, si ebbero le migrazioni lente e graduali che nel neolitico diffusero l’agricoltura, poi consentirono sia la colonizzazione di spazi interni (come accadde in Europa fino alle soglie dell’Ottocento), sia gli spostamenti e l’occupazione di spazi esterni, vuoti o semi-spopolati, o – sempre più spesso – già occupati, ma da gruppi più deboli per tecnologie e strutture organizzative: tra i casi più rilevanti, la migrazione-colonizzazione greca nel Mediterraneo antico, quella tedesca nell’Europa centro-orientale, quella europea nelle Americhe e poi in Australia, quella russa oltre il Caucaso e quella cinese in Mongolia. In molti casi furono migrazioni spontanee; in altri, sempre più frequentemente, spostamenti organizzati e diretti dal potere politico, talora con successo (come in alcuni dei casi sopra citati), talaltra con effetti fallimentari (come ad esempio gli spostamenti forzati di indios da parte degli spagnoli, o il tentativo di ripopolamento della Maremma tra XVI e XVII secolo). In ogni caso, si trattò sempre di percentuali molto basse di migranti rispetto alle regioni di provenienza, per cui il flusso migratorio ebbe carattere autopropulsivo, dovuto alla forte crescita demografica dei coloni, grazie alle favorevoli condizioni ambientali dei territori da essi via via colonizzati, e alla loro grande fitness, o “capacità adattativa” (come sottolinea Livi Bacci). Ciò è vero anche i secoli XVI-XVIII, nonostante l’accelerazione che in questi tre secoli ebbero i processi migratori, sia quelli interni all’Europa (dalle campagne alle città e tra zone a diversa densità di insediamenti), sia quelli verso le Americhe, grazie alla “rivoluzione geografica” d’inizio Cinquecento.
Le migrazioni nella “prima globalizzazione” del lungo Ottocento, e in quella attuale
Tanto Livi Bacci quanto Golini sottolineano l’eccezionalità delle migrazioni europee del “lungo Ottocento”, rese possibili dal concorso sia di specifiche condizioni interne (l’inizio della “transizione demografica”, la rivoluzione agricola, industriale e dei trasporti) sia di irripetibili condizioni esterne (gli enormi spazi ricchi di risorse naturali e poveri di risorse umane creatisi nelle Americhe; l’assoggettamento coloniale del resto del pianeta). Soprattutto nel periodo 1870-1914, quella “prima globalizzazione”2Riprendo l’espressione “globalizzazione ottocentesca”, riferita al periodo 1870-1913, da M. Livi Bacci, il quale fa iniziare la globalizzazione novecentesca nel secondo dopoguerra. Personalmente, preferisco l’altra denominazione (anch’essa ampiamente seguita), che distingue: il periodo 1870-1913 come “prima mondializzazione”, sotto il primato britannico ed europeo; il periodo dal secondo dopoguerra ai primi anni ’70 come una seconda mondializzazione, sotto il primato americano; e riserva il termine “globalizzazione” al periodo attuale, iniziato tra i ’70 e gli ’80 (secondo alcuni, da intendersi come una svolta; secondo altri, come un’accelerazione rispetto al trentennio postbellico). Al di là delle denominazioni, lo stesso Livi Bacci sottolinea la svolta verificatasi negli anni ’70 del Novecento: l’intensificazione delle pressioni migratorie, e, soprattutto, l’adozione di politiche migratorie restrittive nei paesi del Nord. consistette in un’enorme accelerazione degli scambi di notizie, merci, capitali, e di persone: i 50 milioni di europei che migrarono in America consentirono allora all’Europa di riversare all’esterno il 20% del suo surplus demografico.
Nel trentennio 1914-45 quella prima globalizzazione si bloccò e così pure i flussi migratori europei, frenati e distorti dalle tragiche vicende di quel trentennio: il blocco delle migrazioni provocato dalle due guerre mondiali e dalle politiche restrittive attuate prima e dopo la crisi del ’29; le migrazioni forzate dovute agli spostamenti dei confini e alle espulsioni di massa dopo la Seconda guerra mondiale; la divisione Est-Ovest, che bloccò l’emigrazione dall’Europa orientale nel dopoguerra.
Dal secondo dopoguerra ripresero, ma su nuove basi, sia il processo di internazionalizzazione economica (sotto il segno del primato americano), sia i processi migratori, non più orientati prevalentemente sull’asse nord-nord (dall’Europa alle Americhe), ma su quello sud-nord. In questo contesto, l’Europa smise, dopo oltre mezzo millennio, di esportare migranti e ridivenne meta di immigrazione: prima, dal sud al nord del continente (dall’Europa mediterranea e balcanica a quella nord-occidentale); poi, anche dal sud del Mediterraneo, e dagli anni ’90 dall’Europa orientale e dall’Asia. Dopo il primo trentennio post-bellico (la cosiddetta “età dell’oro”per l’Occidente), caratterizzato da politiche di promozione attiva dell’immigrazione da parte dei paesi del Nord, la situazione è cambiata dagli anni ’70 al presente: si è passati a opposte politiche via via più restrittive nei confronti dell’immigrazione, in un contesto socio-culturale segnato dal riemergere di forme più o meno aperte di xenofobia, localismo, razzismo. Pertanto, a differenza di quella ottocentesca, quella attuale è una globalizzazione parziale, assai più di merci capitali e notizie che di persone. Mentre, come detto sopra, l’Europa d’inizio Novecento poté scaricare verso le Americhe il 20% del suo surplus demografico, l’emigrazione dal Sud al Nord di fine Novecento e inizio Duemila è molto più contenuta, per effetto di tali politiche restrittive: circa 3 milioni di emigranti l’anno, cioè solo il 3% del surplus demografico del Sud. L’immigrazione recente e attuale è relativamente modesta, nonostante la percezione comune, secondo la quale il mondo occidentale sta per essere travolto da un’ondata migratoria. L’Europa occidentale aveva “esportato” tra il 1870 e il 1913 circa 15 milioni di persone: è lo stesso numero di immigrati che essa ha assorbito dal 1960 al 2000, ma con una popolazione europea più che raddoppiata. Allo stesso modo, il Nord America accoglieva un milione di immigrati all’anno nel decennio precedente la Prima guerra mondiale, e lo stesso numero oggi, quando la popolazione americana è triplicata.
Tutto questo avviene in un contesto demografico (e socio-economico) che spinge nella opposta direzione, per effetto di due fenomeni concomitanti, entrambi senza precedenti nella storia mondiale, e legati ai tempi e modi diversi con cui si è attuata nelle differenti parti del mondo la “transizione demografica” (vedi su questo l’altro studio di caso): la forte crescita della popolazione nel Sud del mondo – sia pure in attenuazione, ma più lenta in Africa che in Asia e in America Latina – ; e il declino demografico del Nord del mondo (soprattutto in Giappone, in Italia e nel resto dell’Europa mediterranea, in Germania, Russia e in tutta l’Europa orientale), ove la bassa fertilità rende inevitabili le immigrazioni, come “adozioni a distanza ritardate” (così Livi Bacci in una recente intervista).
Ne discende una duplice conseguenza, molto “dura” da accettare oltre che paradossale per il senso comune, che può essere così riassunta:
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le migrazioni, oggi e nel prossimo futuro, non possono in alcun modo risolvere i problemi demografici del Sud del mondo, a causa dell’entità trascurabile delle emigrazioni rispetto all’aumento naturale delle popolazioni (a differenza di quanto accadde all’Europa nel “lungo Ottocento”.
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le migrazioni in entrata sono, viceversa, necessarie – e in misura ben più consistente dei ritmi attuali – per gran parte dei paesi del Nord, e in primo luogo per quelli dell’Europa mediterranea, Italia in testa. Da questo punto di vista, il raffronto tra le migrazioni del lungo Ottocento e quelle attuali è improponibile, e in larga misura fuorviante, a causa delle enormi differenze demografiche, socio-economiche e geopolitiche tra le due fasi storiche. Tale raffronto diventa, al contrario, molto utile in un’altra prospettiva, sottolineata con forza da Livi Bacci: quella della “capacità adattativa”3“Capacità adattativa”,o fitness, è espressione tecnica, usata da Massimo Livi Bacci per indicare le capacità dei migranti di sopravvivere e di riprodursi negli ambienti ove si spostano, come emerge dai successivi documenti 1, 2, 3. L’espressione non va perciò equivocata, o intesa in un significato generico. dei migranti, e della sua flessibilità. Le emigrazioni europee d’inizio Novecento furono infatti le prime, nella storia mondiale, rivolte verso mete urbane e industriali, proprio come quelle attuali.
Falsi problemi e veri problemi
Quanto scritto appena sopra riguarda alcuni dei “problemi veri” (cioè di difficile soluzione, e sui quali le risposte latitano o stentano ad emergere) connessi al tema delle migrazioni, e toccati nelle opere di riferimento utilizzate: l’allargarsi della “forbice” demografica e socio-economica tra il Nord e alcune aree del Sud del mondo; l’urbanesimo abnorme nelle megalopoli del Sud, prodotto dalle migrazioni interne prima e molto più che da quelle internazionali; le teorie e pratiche di integrazione emerse nei differenti paesi (come i modelli meltingpot, saladbowl, l’assimilazionismo francese, la formula tedesca dei “lavoratori-ospiti”) e la loro evoluzione; le difficoltà di gestire l’immigrazione irregolare e clandestina, e le politiche di cittadinanza, dagli estremi dello ius soli e del iussanguinis alle varie forme intermedie; le differenti politiche di welfare state che, direttamente o indirettamente, influenzano le migrazioni; ed anche il tema della densità della popolazione e della “capacità di carico” della Terra, un dibattito avviato già da Malthus nel 1798 e tuttora aperto (ma qui neppure sfiorato, per la pluralità di implicazioni sui versanti ecologico, socio-economico, geopolitico, dei modelli di sviluppo)4Mi limito a segnalare che il problema della densità della popolazione, come quello ad esso collegato della “capacità di carico” (ampiamente affrontato soprattutto da A. Golini, 2003), si pone su scala mondiale o di macro-aree, mentre è poco significativo, nel mondo attuale, riferito a singoli stati. Lo dimostrano i diversissimi livelli di densità presenti oggi in paesi sia avanzati (l’Olanda ha 403 abitanti/kmq, il Giappone 337, la Germania 228, l’Italia203,gli Usa 32, il Canada 3) sia poverissimi (Bangladesh:1.119 ab/kmq, Rwanda444; Congo 31; Niger 13) - dati Onu del 2012..
Per affrontare seriamente questi “problemi veri” (o anche solo per averne una matura consapevolezza), è preliminarmente utile sgomberare il campo dai “falsi problemi”. Tra questi ultimi, ci sono quelli sottesi ai cinque stereotipi affrontati in questo studio di caso.
Come emergerà chiaramente dalla loro lettura, i documenti pertinenti a ciascuno degli stereotipi sono:
1^ stereotipo: doc. 1 e docc. 2-3 come espansione del primo;
2^ stereotipo: doc. 4, e docc. 1-2 come inquadramento generale;
3^ stereotipo: doc. 3, e doc. 2 (ed eventualmente doc. 1) per confronto/contrasto;
4^ stereotipo: doc. 5 (ed eventualmente doc. 4 per informazioni integrative);
5^ stereotipo: doc. 5 (ed eventualmente doc. 1 come contestualizzazione generale).
Bibliografia e sitografia essenziale
Livi Bacci, Massimo, In cammino. Breve storia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino 2014
Livi Bacci, Massimo (a cura di), Demografia del capitale umano, Bologna, Il Mulino 2010
Livi Bacci, Massimo, Storia minima della popolazione del mondo, Bologna, Il Mulino 2002
Livi Bacci, Massimo, La popolazione nella storia d’Europa, Bari, Laterza 1998
Livi Bacci, Massimo (a cura di), Le risorse umane del Mediterraneo, Bologna, Il Mulino 1990
Golini, Antonio (a cura di), Il futuro della popolazione del mondo, Bologna, Il Mulino 2009
Golini, Antonio, La popolazione del pianeta, Bologna, Il Mulino 2003
World Population Prospects: The 2012 Revision, in: http://esa.un.org
Testo per gli studenti
Come certamente sapete, un luogo comune è una frase fatta, un argomento banale e non motivato. Sapete anche che cos’è uno stereotipo? Le definizioni che ne danno due dizionari della lingua italiana sono: “Opinione precostituita, non acquisita sulla base di un’esperienza diretta, e scarsamente suscettibile di modifica” (Garzanti); “Percezione o concetto rigido e semplificato o distorto di un aspetto della realtà, in particolare di persone o gruppi sociali” (Zingarelli). Anche se non ce ne rendiamo conto, viviamo in mezzo a luoghi comuni e stereotipi che seguiamo senza rendercene conto, semplicemente perché sono comodi. Ci consentono infatti di avere opinioni su tante cose, anche senza conoscerle. Capita che, anche quando facciamo un’esperienza diretta, questa venga falsata dagli stereotipi che abbiamo già in mente (e che diventano perciò pregiudizi). Gli stereotipi riguardano gli argomenti più diversi: le donne e gli uomini, le categorie sociali (ad esempio i carabinieri, bersagli di tante barzellette…), le popolazioni di determinate regioni (l’avarizia dei genovesi…), paesi e popoli (l’ordine e la disciplina dei tedeschi…). Luoghi comuni, stereotipi, pregiudizi, in un certo senso sono altrettanti gradini di una scala che ci allontana da una conoscenza corretta e scientifica. La storia – come tutte le altre scienze, sia quelle sociali che quelle della natura, ciascuna nei suoi campi di pertinenza –può e deve servire anche a riconoscere e a rimuovere gli stereotipi, un po’ come fal’anticalcare contro le incrostazioni in bagno e in cucina. In entrambi i casi, ovviamente, l’efficacia dipende anche dalla durezza delle incrostazioni!
Tra i molti temi sui quali gli stereotipi abbondano, vi è quello delle migrazioni: tema che nell’Italia di oggi significa soprattutto l’immigrazione dalla sponda opposta del Mediterraneo, oltre che da altre parti del mondo. Qui di seguito vi vengono proposti, brevemente, alcuni tra i più diffusi stereotipi su questo tema*:
Gli stereotipi che ascoltiamo più spesso
1^ “Le migrazioni sono un fenomeno anomalo, la regola dovrebbe essere che ognuno stia a casa propria!”
2^ “Siccome gli immigrati arrivano a causa della povertà e del sottosviluppo dei loro paesi, il rimedio è di
favorire lo sviluppo interno dei paesi del Sud, cioè aiutarli a non avere bisogno di emigrazione”
3^ “Qui in Italia si fanno pochi figli, mentre gli immigrati vengono da paesi dove ne fanno tanti, come l’Africa,
perciò ci sommergeranno, l’Italia perderà la sua identità e in poche generazioni saremo tutti neri!”
4^ “Con tutta la disoccupazione, soprattutto giovanile, che c’è in Italia (e nei paesi europei mediterranei),
nonè possibile accettare l’immigrazione, che toglie il lavoro a noi italiani”
5^ “Qui in Italia (o: in Europa) siamo già in troppi: non solo non c’è spazio per accogliere altra immigrazione,
maanzi, sarebbe meglio che la popolazione calasse; ne guadagnerebbe anche la qualità dell’ambiente.”
*[nota per l’insegnante: potrebbe essere efficace, prima dell’elenco, invitare la classe a una conversazione che faccia emergere direttamente dagli studenti quelli che, secondo loro, sono gli stereotipi più diffusi su questo tema.]
C. Dossier di documenti
Il dossier è composto da brani ricavati dal saggio di Massimo Livi Bacci, In cammino. Breve storia delle migrazioni, Il Mulino 2014. Si tratta dunque di brani storiografici. Lo studio di caso chiede agli allievi di ricavarne argomenti ed esempi per dimostrare la falsità degli stereotipi più diffusi sul tema dell’immigrazione.
Doc. 1
Le migrazioni nella storia: uno sguardo d’insieme
Nel mondo del XXI secolo è ormai comune l’idea che le grandi migrazioni non siano un motore primario della società, ma piuttosto una componente anarchica del cambiamento sociale, la tessera deformata di un mosaico che non trova la sua appropriata collocazione, un “rumore” di fondo che disturba il regolare ronzio della vita sociale. In realtà le migrazioni hanno sempre assolto un ruolo fondamentale nella storia.
Spostarsi sul territorio è una prerogativa dell’essere umano, è parte integrante del suo “capitale”, è una capacità in più per migliorare le proprie condizioni di vita. E’ una qualità connaturata, che ha permesso la sopravvivenza dei cacciatori e raccoglitori, la dispersione della specie umana nei continenti, la diffusione dell’agricoltura, l’insediamento in spazi vuoti, l’integrazione del mondo, la prima globalizzazione ottocentesca. Questa prerogativa può declinarsi anche come “capacità adattativa” (fitness) del migrante: uno sviluppo di caratteristiche biologiche, psicologiche e culturali che non è stato della stessa natura nelle varie epoche storiche e secondo le circostanze delle migrazioni stesse. Per esempio, l’insediamento agricolo in nuovi spazi richiedeva persone disposte a costruire solide famiglie, ligie ai valori della tradizione, con molti figli e forte capacità di lavoro, e forza propulsiva per le generazioni successive verso ulteriori insediamenti. Non così la migrazione degli ultimi due secoli, spesso diretta nelle aree urbane, in attività dipendenti nelle manifatture e nel commercio, per la quale erano più adatte persone singole, culturalmente più flessibili, fondatrici di nuclei familiari con pochi figli.
Con la nascita delle entità statuali e, come conseguenza, delle migrazioni internazionali, sono nate anche le “politiche migratorie”, ossia, l’intervento del governo (o, nel passato, di un signore, o di potenti istituzioni) volto a dirigere, pianificare, sostenere i flussi migratori. Con l’epoca moderna e ancor prima della rivoluzione industriale, le capacità di spostarsi si rafforzano: aumentano le risorse, migliorano le tecniche. Si creano sistemi migratori interni e internazionali. La navigazione lega strettamente Eurasia Africa e America. Dal 1500 l’Europa diventa esportatrice netta di risorse umane, dopo essere stata per millenni meta di immigrazione e di invasione. Si accresce la volontà e la capacità degli stati di interferire sulle scelte individuali in tema di mobilità. Le migrazioni accelerano il ritmo, che diventa travolgente nell’Ottocento; perdono quella “lentezza” e quella gradualità che avevano caratterizzato gli spostamenti d’insediamento agricolo; aumentano l’intensità dei flussi e l’impatto sulle società sia di origine che di destinazione.
L’ultimo secolo, dalla prima guerra mondiale a oggi, è stato segnato da un percorso irregolare, da politiche contradditorie, dall’impatto dei grandi shock bellici sui trasferimenti di persone, dalla separazione dell’oriente europeo dal resto del continente (durante la guerra fredda), dall’inversione del ciclo migratorio – con l’Europa che da esportatrice diventa nuovamente importatrice di risorse umane – e dall’impatto profondo del ciclo demografico. Negli ultimi decenni, dagli anni 70 del Novecento, le politiche migratorie si sono fatte più restrittive e più selettive, mentre le pressioni aumentano per ragioni sia demografiche che economiche generate dai divari Nord-Sud.
[tratto, con riduzioni e adattamenti, da:Massimo Livi Bacci, In cammino. Breve storia delle migrazioni, 2014]
Doc.2
La “capacità adattativa” nelle migrazioni del passato
Le migrazioni del passato, dalla diffusione dell’agricoltura fino all’espansione europea nelle Americhe nel sec.XIX, avvennero con spostamenti relativamente lenti e continui, secondo un’“onda d’avanzamento” la cui spinta autopropulsiva era generata dalla crescita demografica dei migranti stessi: era una parte modesta della popolazione già insediata, per lo più costituita dalle nuove generazioni, a fare avanzare il fronte della colonizzazione. Così avvenne la diffusione dell’agricoltura dal Medio Oriente in Europa, secondo una direttrice da sud-est a nord-ovest che partì dalla “Mezzaluna fertile” 9000 anni fa e si concluse nelle isole britanniche 5000 anni fa, con una velocità media di espansione dei campi coltivati e dei villaggi di poco più di un chilometro all’anno. Analoga fu la migrazione delle popolazioni Bantu, che diffuse l’agricoltura nell’Africa centrale e meridionale, per 5000 chilometri nel corso di tre millenni. In seguito, in un mondo sempre più densamente insediato, quelle condizioni di diffusione incontrastata sono state sempre più rare, e i processi migratori hanno generato conflitti, confronti, mescolanze culturali, sociali e bio-demografiche. Oltre a migrazioni spontanee, ci sono state quelle pianificate, organizzate e guidate dal potere politico (dapprima principi e signori, poi gli stati), in alcuni casi con grande successo, in altri con esiti disastrosi. Grande successo ebbe la migrazione di coloni germanici verso l’Europa centro-orientale, molto intensa tra l’XI e il XIV secolo (ma proseguita con fasi alterne fino al XIX), pianificata, organizzata e guidata dai principi tedeschi. Le condizioni molto favorevoli per le famiglie che si spostavano (ampi poderi assegnati senza oneri fiscali o feudali, varie altre agevolazioni, la superiorità delle loro tecniche agricole rispetto a quelle delle popolazioni slave autoctone) ebbero un potente “effetto fondatore”: una spinta autopropulsiva che alimentò una vigorosa espansione demografica e territoriale, per cui un modesto flusso di migranti (poche migliaia all’anno, circa l’1 per mille della popolazione della popolazione tedesca a ovest del fiume Elba) produsse una forte espansione demografica: i 30 milioni di tedeschi a est di quella linea, alla fine del XIX secolo. Dal Cinquecento, l’Europa diventò esportatrice di risorse umane, e l’emigrazione transoceanica fu un attore importante dello sviluppo. Sul piano strettamente demografico, l’emigrazione ebbe un’importanza modesta: furono solo 2,3 milioni gli europei che si spostarono nelle Americhe tra il secolo XVI e il XVIII, ma con una grande “capacità adattativa”, cioè di sopravvivere e di riprodursi. I loro discendenti, gli 8 milioni di americani di origine europea d’inizio Ottocento (4,5 in Nord America, 3,5 nell’America centro-meridionale) avevano modellato un intero continente a immagine e somiglianza dell’Europa, e creato le premesse per attirare e accogliere la grande migrazione ottocentesca. A fronte di questo, ci fu il drammatico destino degli altri due gruppi: i nativi d’America, che vennero decimati dall’impatto con gli europei; e gli “immigrati a forza”, i 7,2 milioni di africani deportati in schiavitù nelle Americhe in quei tre secoli, che si erano ridotti a 5,6 milioni all’inizio dell’Ottocento.
Il caso dei francesi emigrati nel secolo XVII nella valle del fiume San Lorenzo in Quebec (Canada) è l’esempio di “capacità adattativa” più noto, grazie all’accuratezza dei parroci nel registrare le nascite (al battesimo), i matrimoni e le morti. Quei contadini ebbero condizioni riproduttive del tutto diverse da quelle delle regioni d’origine, grazie alla disponibilità illimitata di terra. In Francia (e in tutta l’Europa occidentale) la necessità di non frazionare ereditariamente i poderi, perché non diventassero insufficienti a sfamare la famiglia contadina, induceva a limitare i figli, sia ritardando il matrimonio sia con un’alta percentuale di celibato. In Quebec, invece, gli emigrati francesi si sposavano tutti, si sposavano prima e avevano più figli. La prima generazione di pionieri ebbe in media 6,3 figli, di cui 4,2 divennero adulti e si sposarono (per cui la popolazione inziale raddoppiò in meno di 30 anni), e quei 4,2 figli ne generarono 28. Tra il 1608 e il 1700 arrivarono in Canada 6.669 immigrati, poi il flusso di affievolì. Si calcola che quelle poche migliaia di coloni siano i progenitori di circa i 2/3 dei 7 milioni di franco-canadesi che oggi vivono in Canada. Quei pochi migranti ebbero uno straordinario “effetto fondatore” di popolazioni numerose e ben radicate. In quel caso come negli altri citati, oltre alle favorevoli condizioni ambientali, nella “capacità adattativa” ha un ruolo anche una certa “selezione” dei migranti, che non sono un “campione causale” della popolazione di provenienza: sono in media più giovani e robusti, con maggiore inclinazione a sperimentare il nuovo, più adattabili al cambiamento. Sono tutte caratteristiche per lo più legate ai migranti stessi, non ereditarie, come provano i confronti, effettuati a cavallo tra Otto e Novecento, tra gli esiti alle visite di leva di italiani emigrati negli Usa e quelli in Italia; e tra gli australiani e neo zelandesi, con meno mortalità e più longevità dei coetanei europei, ma solo all’inizio.
[tratto, con riduzioni e adattamenti, da: Massimo Livi Bacci, In cammino. Breve storia delle migrazioni, 2014]
Doc.3
La “capacità adattativa” nelle migrazioni del passato prossimo e del presente
Dalla fine dell’Ottocento la maggior parte dell’emigrazione europea, interna e internazionale, cominciò a dirigersi verso società industriali-urbane, nelle quali le alte capacità riproduttive non erano affatto un vantaggio in termini di “capacità adattativa”, come era accaduto fino ad allora. Il caso dell’emigrazione italiana nel Nord America è esemplare. Le donne italiane censite negli Stati Uniti all’inizio del Novecento, originarie in gran parte delle campagne meridionali, avevano indubbiamente caratteristiche diverse dalle (bianche) nate in America. Si sposavano più giovani, poche rimanevano nubili, avevano più figli. I loro comportamenti riproduttivi potevano essere dovuti in parte a fattori di selezione legati alle migrazioni; in ogni caso esse si differenziavano non solo dalla popolazione di arrivo ma anche da quelle di partenza, le campagne meridionali. Tuttavia quella situazione di “vantaggio riproduttivo” era di poca utilità nella nuova società urbana e industriale nella quale gli immigrati si trovavano a vivere. E poiché una caratteristica dei migranti è l’alto grado di adattamento, i comportamenti riproduttivi cambiarono con grande rapidità.Ancora nel 1920, il numero medio di figli delle immigrate italiane nate in Italia era esattamente il doppio di quello delle americane (bianche) nate negli Stati Uniti: 6,3 contro 3,15. Ma in pochissimo tempo la forbice si richiuse e già nel 1936 il numero di figli delle italiane America era sceso sotto quello delle americane: 2,08 contro 2,14. Questo esempio di folgorante mutamento-adattamento è uno dei tanti che si possono trarre dalla storia migratoria in epoca contemporanea.
E nell’attualità? Come si riproducono nei paesi di immigrazione gli stranieri, particolarmente quelli che provengono da regioni ad alta o altissima natalità? Si rischia, a lungo andare, un effetto di “spiazzamento” della popolazione autoctona per la crescita incontrollabile della popolazione di origine straniera? Oppure, la stessa domanda può essere declinata con implicazione opposta: possono gli immigrati, per la loro maggiore propensione ad avere figli, attenuare o annullare il deficit di nascite di tanti paesi ricchi?
La risposta a questi quesiti è complessa ma non impossibile. Va stabilita una distinzione tra gli immigrati di prima generazione e quelli delle successive.
Nella prima generazione, l’attuale esperienza europea dice che essi tendono ad avere un numero di figli moderatamente superiore a quello medio del paese in cui arrivano, ma inferiore a quello di provenienza, perché le migrazioni tendono, di per sé, a selezionare persone più “adatte” all’inserimento nelle società di destinazione. In Francia (1991-1998) il numero medio di figli per le donne immigrate dal Maghreb fu di 2,8(contro 3,3 nei paesi d’origine), per quelle provenienti dal resto dell’Africa 2,9 (contro 5,9), per quelle dall’Asia 1,8 (contro 2,9). In Lombardia, le elaborazioni sulle nascite del 2008 assegnano un numero medio di figli per donna di 2,1 alle immigrate non europee: certo assai più alto dell’1,3 delle italiane ma, per lo scarso peso delle prime rispetto alle seconde, scarsamente influente sul livello generale di riproduttività.
Per le generazioni successive alla prima, l’esperienza americana e di altri paesi d’oltreoceano d’immigrazione, dall’Europa o da altri continenti, dice che esse avevano comportamenti riproduttivi praticamente indistinguibili dagli autoctoni e che le divergenze erano state praticamente annullate.
La conclusione è che nel mondo contemporaneo il vantaggio riproduttivo delle generazioni successive alla prima è vicino allo zero e, alla lunga, la popolazione di origine immigrata tende a crescere alla stessa velocità di quella di origine autoctona.
[tratto da: Massimo Livi Bacci, In cammino. Breve storia delle migrazioni, 2014]
Doc.4
Chi emigra e quando: la lezione del lungo Ottocento per il presente e per il futuro
Nel lungo Ottocento [=fino al 1914, ndr.], mobilità e migrazioni cambiano il passo. Si accelerano i ritmi del cambiamento, si accorciano le distanze e si intensificano i legami tra mondi diversi. Si rafforza la capacità di spostarsi, una componente essenziale del capitale umano. In Europa si chiudono gli spazi vuoti o scarsamente popolati che avevano attratto le migrazioni d’insediamento del passato. I “nuovi mondi” fuori d’Europa, che avevano ricevuto un modesto rivolo d’immigrazione nei tre secoli successivi al primo contatto con l’America (vedi doc.3), sono ormai entrati stabilmente nell’orbita europea. Altri mondi si aprono in Oceania e nell’Africa australe, anche questi tanto ricchi di capitali naturali e di terra, quanto poveri di risorse umane, e quindi complementari all’Europa. Per meglio comprendere le specificità delle migrazioni europee ottocentesche, bisogna avere chiari alcuni aspetti del cambiamento demografico, sociale ed economico che ne sono alla base. Innanzitutto l’accelerazione della crescita demografica, soprattutto nelle campagne. Poi le due rivoluzioni, agricola e industriale: ovvero, il graduale aumento della produttività agricola, che forma una quota crescente, e consistente, di forza lavoro poco pagata o disoccupata; e in parallelo, la capacità del settore industriale in crescita di attrarre e impiegare questa forza lavoro eccedente in agricoltura. Infine l’accelerazione dell’integrazione economica, che porta alla “prima globalizzazione ottocentesca”, ovvero a una crescente internazionalizzazione delle economie con una larga circolazione di merci, notizie, capitali e persone. Questi tre fenomeni sono tra loro connessi, e solo il loro concorso determina i movimenti di massa avvenuti nel lungo secolo, durante il quale l’“esportazione netta” di risorse umane dall’Europa è di 50 milioni di persone (su una popolazione che nel 1800 ne contava 188, moltiplicatisi per due e mezzo, fino a 458, del 1913). Quella popolazione contadina in crescita, ed espulsa dalle campagne in fase di modernizzazione, è spinta a emigrare in massa oltreoceano, lungo rotte battute da secoli e divenute assai più veloci grazie alla navigazione a vapore. Mano a mano che si sviluppa l’industria con la sua domanda di lavoro, la pressione emigratoria diminuisce. Tra fine Ottocento e inizio Novecento si riscontra un’evidente correlazione inversa tra sviluppo dell’industria ed emigrazione: quando il numero degli occupati nell’industria si avvicina a quello degli occupati nell’agricoltura, gli emigrati transoceanici calano.Verso fine Ottocento, in Gran Bretagna (che più di ogni altro paese aveva esportato emigranti in America fino a metà Ottocento) i primi superano i secondi e l’emigrazione ha perso da tempo il suo carattere di massa. Prima della Grande guerra gli occupati nell’industriasuperano quelli in agricoltura in Belgio, in Germania e in Svizzera, paesi nei quali l’emigrazione è cessata. In Olanda, Svezia, Norvegia lo stesso accadde nel periodo tra le due guerre. Nei paesi mediterranei, come Italia e Spagna, dove l’industrializzazione si generalizza tardi, nel ventennio successivo alla seconda guerra mondiale, l’emigrazione si esaurisce negli anni ’70 del Novecento.
Storicamente, le migrazioni sono lo strumento per migliorare le condizioni di vita, un concetto assai più generale che non il mero miglioramento delle condizioni economiche. Miglioravano le proprie condizioni di vita – o cercavano di farlo – le popolazioni nomadi in cerca di ecosistemi più ricchi di risorse; o gli agricoltori protagonisti delle prime onde di avanzamento preistoriche, o di quelle medievali o dell’epoca moderna; o i migranti transoceanici dell’Otto-Novecento. Ma si può migrare per fuggire un peggioramento delle condizioni di vita: perseguitati per motivi politici o religiosi, profughi di deterioramento ambientale, espulsi dalle turbolenze belliche. Nel complesso bilancio tra costi e benefici non c’è solo la componente economica, tuttavia non c’è dubbio che questa è molto rilevante: il divario tra le condizioni di vita materiali nei paesi d’origine e quelle prevedibili nei paesi di destinazione è stata una molla potente delle migrazioni moderne. Galbraith ha scritto che queste hanno contribuito a rompere lo storico equilibrio della povertà, tipico delle campagne europee. Quell’equilibrio era basato sulla capacità di adattamento a condizioni di povertà ritenute immutabili: un adattamento che va considerato una risposta del tutto razionale, mentre era sarebbe stata del tutto irrazionale una continua lotta destinata alla frustrazione. L’emigrazione ha reso possibile l’uscita dalla trappola della povertà. Per la maggior parte di coloro che l’hanno tentata, ha funzionato bene, e ha migliorato le condizioni sia nei paesi di destinazione sia in quelli di provenienza.
L’esperienza europea del lungo Ottocento aiuta anche a combattere un pericoloso luogo comune, e cioè chenei paesi poveri l’emigrazione sia causata dall’assenza di sviluppo; e che, sostenendo questo, si attenui la pressione di quella. Questo punto di vista male interpreta la natura del processo di sviluppo: esso è (quasi sempre) distruttivo e destabilizzante della società rurale, e nel breve e medio periodo accentua le pressioni migratorie anziché ridurle. Nelle economie agrarie tradizionali, infatti, il prodotto è determinato non dai mercati ma dalle dimensioni e dalla composizione delle famiglie, e le relazioni economiche e sociali si fondano su ipotesi di stabilità e continuità. Lo sviluppo economico inevitabilmente distrugge questa stabilità dei sistemi economici e sociali attraverso tre processi che si rafforzano reciprocamente: la sostituzione del capitale al lavoro, la privatizzazione e il consolidamento delle proprietà agricole, la creazione di mercati. La distruzione dell’economia contadina tradizionale crea masse di persone sradicate socialmente e i cui legami economici con la terra, la comunità e le tradizioni si sono indeboliti. Questi contadini sradicati sono il serbatoio per le migrazioni interne e internazionali.Ricordiamocelo per oggi, e per domani. Una prima fase di sviluppo dei paesi africani più poveri sta provocando squilibri simili a quelli che avvennero nel mondo rurale europeo, generando condizioni e aspettative favorevoli all’emigrazione.
Si possono individuare stadi diversi nella propensione a migrare. I paesi molto poveri e in qualche modo esclusi dai processi di globalizzazionehanno scarse possibilità e propensione all’emigrazione, benché i benefici attesi possano essere molto considerevoli; infatti il “costo” di entrata nelle correnti migratorie è elevato, perché mancano la conoscenza e le risorse per competere con correnti già esistenti, preferite dai paesi di destinazione. Potrebbe così spiegarsi il caso dei paesi sub-sahariani che, nonostante la povertà estrema, hanno tardato nello sviluppare consistenti flussi di emigrazione verso i paesi ricchi. Poi, quando lo sviluppo si mette in moto, il costo relativo di “entrata” nei flussi migratori relativamente ai benefici diminuisce (maggiore istruzione, capacità di affrontare il costo di spostamento ecc.). Così si spiega il paradosso dell’Asia, dove i paesi più poveri (Afghanistan, Laos, Vietnam, Cambogia) sono rimasti esclusi dalle correnti internazionali, mentre paesi in forte sviluppo (Indonesia, Malesia, Corea del Sud, Thailandia) hanno contribuito ai flussi migratori verso i paesi asiatici occidentali produttori di petrolio. In uno stadio successivo, durante il quale si raggiungono più alti livelli di istruzione, moderati livelli di benessere, aspettative di ulteriore crescita, il costo relativo di abbandono del proprio paese comincia ad aumentare e la propensione a migrare decresce. Si spiegano così, in larga parte, l’esaurirsi dei flussi dall’Europa mediterranea verso l’Europa più ricca durante gli anni ’70, il mancato avverarsi delle previsioni di esodo verso occidente delle popolazioni coinvolte nel crollo dell’Urss, la debole mobilità interna all’Unione Europea nonostante il permanere di forti sperequazioni di reddito.
[tratto, con riduzioni e adattamenti, da: Massimo Livi Bacci, In cammino. Breve storia delle migrazioni, 2014]
Doc.5
Che cosa succede, oggi, se la popolazione diminuisce
Nelle società agrarie del passato, alle fasi di crescita delle popolazioni seguivano violenti cali dovuti a carestie e a devastanti epidemie: un esempio tristemente celebre è la pandemia di peste del Trecento che eliminò un terzo della popolazione europea, colpendo allo stesso modo tutte le fasce d’età (e provocando un riequilibrio del rapporto tra popolazione e risorse che, paradossalmente, migliorò le condizioni di vita dei sopravvissuti). Nelle società industriali del nostro tempo, però, le dinamiche demografiche sono del tutto diverse: oggi il calo della popolazione è provocato dal calo della natalità e in questo contesto, per un meccanismo demografico rigidissimo e senza elementi di incertezza, più veloce è il calo della popolazione, più rapido risulterà il suo invecchiamento. Ciò comporta problemi complessi e quindi risolvibili con difficoltà anche per il ruolo giocato dalla variabile tempo. Una società infatti ha bisogno di tempo per fronteggiare le trasformazioni demografiche, e quindi se la loro velocità è troppo rapida il sistema entra in crisi. Qualche riferimento a dati concreti può essere utile per valutare la situazione europea e i suoi orizzonti. Nel 2010 il continente (Russia compresa) conta 733 milioni di abitanti; nel 2030, nell’ipotesi di assenza di migrazioni, ne conterebbe 700, con una forte flessione di giovani e un forte aumento degli anziani. I giovani tra i 20 e i 40 anni (fascia di età cui appartengono sia la maggior parte dei migranti, sia quasi tutti coloro che generano figli, sia gran parte delle capacità innovative e delle nuove conoscenze) scenderebbero da 208 a 154 milioni (-26%). Gli anziani oltre i 65 anni, invece, crescerebbero da 119 a 163 milioni (+37%). Possiamo anche osservare i dati da un’altra prospettiva: nel 2010 ci sono, in Europa, 38 milioni di bambini sotto i 5 anni; i loro genitori appartengono a una classe di età (mediamente, tra i 30 e i 35 anni) che conta 52 milioni di persone. Facendo il rapporto, 73 bambini dovranno sostituire, da grandi, 100 adulti-genitori, nel lavoro, nelle funzioni sociali, nella capacità riproduttiva. La forte depressione della popolazione giovane, e di quella in età lavorativa, suscita un “vuoto” che genererà inevitabilmente un’ulteriore, intensa migrazione sul continente. Questo processo, però, non è omogeneo. Ci sono paesi nei quali la natalità ha mantenuto livelli moderati e la popolazione resta grosso modo invariata (Francia, Gran Bretagna, Scandinavia), che rappresentano però appena un quinto della popolazione europea; ce ne sono altri, che racchiudono una metà della popolazione del continente, nei quali la potenziale depressione demografica è assai maggiore della media: tra i maggiori, l’Italia (che ha il più alto numero di anziani al mondo, assieme al Giappone), la Spagna, la Germania, la Russia, la Polonia e gran parte dell’Europa dell’est. Pensiamo alle conseguenze sulla produzione di ricchezza. E’ possibile che in certi settori una forza lavoro ridotta di un terzo possa produrre tanto quanto la generazione precedente: l’aumento della produttività serve proprio a questo, ed è quanto accade nei settori dell’industria. Ma in altri settori ciò non è possibile, per esempio nel grande comparto dei servizi alla persona (che proprio l’aumento degli anziani tende a dilatare, con mansioni come assistenti, infermieri, badanti), nei quali la produttività aumenta poco o nulla. Pensiamo inoltre all’aumento della spesa sociale – che indirettamente grava sui lavoratori attivi mediante la tassazione –legata agli anziani, cioè alla spesa pensionistica e a quella sanitaria (della quale l’80% riguarda gli anziani).
Si dovrebbe pensare anche alle conseguenze psicologiche e sociologiche sugli individui e sulle relazioni familiari, perché la bassa natalità e l’alta longevità portano sempre più a “reti familiari lunghe e strette”, ovvero a figli unici – con pochi cugini e pochi coetanei – che cresceranno come “piccoli imperatori” al centro delle attenzioni (e dell’oppressione?) di quasi una decina di adulti e anziani (due genitori, quatto nonni, spesso uno o due bisnonni, e altri nei casi sempre più frequenti di divorzi e seconde nozze). (…)
La demografia depressa del continente rende dunque inevitabile un forte aumento dell’immigrazione, che ha sia una funzione di rimpiazzo generazionale, sia una funzione di risposta alle esigenze del mercato del lavoro. Nonostante l’attuale crisi economica, infatti, c’è una domanda del mercato per le qualifiche più modeste, poco remunerate (edilizia, lavori stagionali agricoli, lavoro manuale nell’industria e nei servizi, come le pulizie, assistenza agli anziani, ecc.) e scarsamente appetite dalla manodopera nazionale. Questa, anche in condizioni di disoccupazione, precarietà o bassi salari, evita i lavori di basso profilo, protetta da reti di trasferimento pubblico o familiari. Si tratta pur sempre di popolazioni autoctone abituate a vivere in società prospere con alti consumi. Parafrasando Galbraith, “adattate all’equilibrio della prosperità”, così come invece le masse rurali dei secoli scorsi erano “adattate all’equilibrio della povertà”) [vedi doc.4].
In questo contesto, senza una rilevante immigrazione, le forze di lavoro scenderebbero dal 226 milioni nel 2005 a 160 nel 2050. Anche riassorbendo l’attuale disoccupazione e aumentando i tassi di occupazione femminile, bisognerebbe alzare di 10 anni l’età del pensionamento, in modo che alla metà del XXI secolo dovrebbero essere al lavoro tre persone su quattro tra i 60 e i 75 anni (oggi, in quella classe di età è attiva solo una persona su sette). Non è impossibile in teoria, ma è molto arduo sul piano sociale e politico, per l’impopolarità di questa riforma presso elettori in maggioranza anziani. Anche ammesso che questo si verifichi, è da notare che un’invecchiata, e stazionaria, forza lavoro europea dovrebbe competere con sistemi economici assai più dinamici sotto il profilo delle risorse umane: quelli asiatici, ma anche quello degli Stati Uniti, dove la popolazione è mediamente più giovane di quella europea.Ma non è questione soltanto di mercato del lavoro e di migrazioni. Se, per fare un solo esempio, nel 2030 la metà della popolazione italiana avrà più di 54 anni e la metà di quella dell’Etiopia meno di 20 (come mostrano le proiezioni per il nostro paese, il più anziano al mondo dopo il Giappone, e per uno dei paesi del mondo con l’età media più bassa), una tale differenza comporterà anche questioni di atteggiamenti e di comportamenti, di possibilità di dialogo, finanche di attitudine alla pace.
Come il Novecento è stato il secolo della grande crescita della popolazione mondiale, il Duemila sarà quello del suo invecchiamento, con tempi diversi nelle differenti parti del mondo. Forse dal prossimo secolo si avrà una decrescita generalizzata, ma nel futuro prossimo la decrescita, se non corretta da immigrazioni, porterà problemi che saranno tanto maggiori nei paesi (come l’Italia)ove essa è più intensa.
[tratto, con riduzioni e adattamenti, da: A. Golini, La popolazione del pianeta, 2003; e Massimo Livi Bacci, In cammino…cit. 2014]
Attività didattica
- Rapporti con la storia generale
Dopo aver letto il testo, cerca di contestualizzarlo cronologicamente, anche con l’aiuto del manuale: gli stereotipi dei quali si parla, si riferiscono al periodo prima degli anni ’80 del Novecento, o a quello successivo? Aiutati con la lettura del primo documento.
- Rapporti fra testo e documenti
Riprendi l’elenco di stereotipi, poi leggi rapidamente la documentazione, e sottolinea, in ogni documento, almeno una frase che può riferirsi a uno degli stereotipi, sia per confermarlo, sia per smentirlo. Scrivi, afianco della frase sottolineata, il numero dello stereotipo corrispondente.
- Rapporti fra documenti
Leggi attentamente il primo documento. Individua i passi dove si parla dei seguenti temi e contrassegnali con il numero corrispondente:
- Molti hanno una concezione sbagliata dell’emigrazione
- L’emigrazione è un fatto naturale nella storia umana
- Gli emigranti si adattano alle situazioni di accoglienza
- Gli stati, negli ultimi due secoli, mettono in atto politiche di governo dell’emigrazione
- Nella storia antica, le migrazioni erano lente. In età moderna diventano sempre più accelerate
- Nei tempi recenti, gli stati tendono a limitare il fenomeno migratorio
Cerca, poi, negli altri documenti, espressioni, concetti, esempi che si riferiscono ai temi individuati, e contrassegnali con il numero corrispondente.
- Scrivere un nuovo testo
Ora formate cinque gruppi, ciascuno dei quali si occuperà di uno solo dei cinque stereotipi elencati sopra (B). Scegliete i documenti o i brani dei documenti che si riferiscono allo stereotipo che dovete trattare. Il vostro compito è di dimostrare l’infondatezza di questo stereotipo. Perciò, cercate nel materiale raccolto tutti gli elementi che vi possono aiutare in questo scopo e scrivete un articolo, nel quale spiegate al pubblico (con esempi e ragionamenti) che quello stereotipo è sbagliato. Ogni gruppo leggerà il suo articolo; la classe voterà quello che risulta più convincente.
[NB per l’insegnante: al fine di accelerare il lavoro o di facilitarlo, si potrebbe scegliere, in particolare per il punto d, una strategia didattica diversa: anziché fare scegliere a ciascun gruppo il documento (uno o più di uno) più pertenente allo stereotipo su cui che quel gruppo deve lavorare (cosa che implica, preliminarmente, la lettura e un’analisi almeno sommaria di tutti i documenti), l’insegnante potrebbe assegnare direttamente a ciascun gruppo il documento pertinente al suo stereotipo, ovviamente secondo la corrispondenza sopra indicata a pag.5.]