La decolonizzazione del Mediterraneo: una chiave per capire il presente
Abstract
Nel suo intervento Nicola Labanca[1] affronta i temi della colonizzazione e decolonizzazione mettendoli in relazione a quattro snodi di storia del Novecento (1918-23; 1945; il 1960; il 1989-91) e suggerisce che, per capire fino in fondo le cause e le conseguenze dei diversi processi di creazione di Stati indipendenti, sia necessario allargare lo sguardo molto al di là delle zone costiere, includendo un ampio cerchio di Stati che si collocano nei tre continenti intorno al Mediterraneo.
Per capire il Mediterraneo contemporaneo, le società che vi si affacciano e le politiche che lo intersecano, mi è stato proposto di svolgere alcune riflessioni sulla sua decolonizzazione.
Per poterlo fare, sarà necessario accordarsi su cosa intendiamo per colonialismo-colonizzazione, decolonizzazione e Mediterraneo. Non sono termini univoci, nonostante le loro apparenze, e vi è un continuo scontro fra retorica, o idee ricevute, e storiografia per attualizzarle.
Ad esempio, considerare il Mediterraneo come un’area omogenea e unitaria è stato ed è assai importante: ma non questionare più quest’affermazione storica rischia di congelare un’interpretazione storiografica (e civile, e politica) in un vero e proprio pre-giudizio storiografico, che rischia di costituirsi però in stereotipo.
Al proposito, le idee degli storici si sono evolute. Fernand Braudel, tra le due guerre mondiali, aveva pensato al Mediterraneo come una grande unità e il suo libro, La Mediterranée[2], era stato pubblicato nel 1949, nel mezzo del processo di decolonizzazione e dopo la fine della seconda guerra mondiale, il periodo di massima divisione del Mediterraneo. D’altronde, ad esempio, lo studio di Horden e Purcell[3], pubblicato nel 2000, racconta una storia di un Mediterraneo molto diverso, decomposto, frammentato, più complesso di quello di Braudel. Ancora più recente, del 2011, Abulafia con Il grande mare[4] spiega la storia di un Mediterraneo di nuovo in un certo senso unico facendo ritornare la grande politica: rappresenta un passo avanti rispetto a Braudel, perché le conoscenze storiche sono oggi assai più dettagliate, ma anche un passo indietro rispetto all’immagine più articolata di Horden e Purcell.
Colonialismo
Già sul colonialismo ci sarebbe molto da dire e su cui intendersi. Quello della colonizzazione e decolonizzazione è un fenomeno storico assolutamente fondamentale non solo nella storia contemporanea ma nella storia medievale e moderna in generale.
L’espansione coloniale europea prese avvio non dal 1492 e dall’America latina ma quantomeno dal 1415 e dalla ricerca dei portoghesi di raggiungere l’Oriente aggirando l’Africa per evitare di pagar dazio ai musulmani che, dalla metà del VII secolo, controllavano una parte del Mediterraneo.
E se presero avvio nel 1415 quando finirono gli imperi europei? Di nuovo la grande decolonizzazione del 1945-1960 rappresenta una risposta stereotipata e ormai insufficiente. In realtà essi finirono molto più tardi, per alcuni studiosi ad esempio nel 1998, quando Hong Kong tornò alla Cina. Per altri in fondo gli imperi non sono mai finiti, perché la colonizzazione è un processo straordinariamente complesso e c’è sempre un impero che grava sulle menti, sulle economie e sulle politiche di Stati subalterni.
Decolonizzazione
Anche decolonizzazione è un termine con molti significati. Significa uscire da questo processo semimillenario di dominio europeo di tanta parte del mondo: ciò ha comportato creare uno Stato, un’economia e una cultura indipendenti. Gli studiosi hanno insistito, legittimamente, sugli aspetti politici, poi su quelli economici, infine su quelli culturali della decolonizzazione. Ora, senza ridurre l’attenzione a tali aspetti, appare opportuno non dimenticare, anzi sottolineare, l’aspetto della creazione di uno Stato indipendente. Gli stati indipendenti nell’area del Mediterraneo sono stati creati a più ondate e il risultato storico di queste ondate è cambiato nel tempo.
In particolare, per cominciare a introdurre il tema, dovremo accordarci anche sugli aspetti sia spaziali-geografici sia cronologici della decolonizzazione del Mediterraneo.
A livello geografico, se noi intendiamo il Mediterraneo nella sua accezione – diciamo – costiera, come al fondo lo hanno inteso Braudel e Abulafia, alla data del 1900 esistevano una decina di unità statuali indipendenti. Se però restiamo nel piccolo cerchio degli stati costieri, con la linea di displuvio a 50 chilometri dalla costa, la storia del Mediterraneo non si capisce. Inoltre, politicamente, quando pensiamo al Mediterraneo non pensiamo certamente solo al mare e a soli stati rivieraschi, come pure l’intende anche Matvejević[5]. Se vogliamo capire il Mediterraneo di oggi certamente decolonizzato, abbiamo ad esempio bisogno di un cerchio più ampio degli Stati rivieraschi, un secondo cerchio. Per comprendere quello che sta succedendo nel Mediterraneo dobbiamo tener conto di quanto avviene in Siria e in Iraq, in Afghanistan e in Arabia Saudita, dove ha avuto origine la parabola politica e religiosa di Bin Laden. Né possiamo capire la storia del Mediterraneo novecentesco, la storia delle colonizzazioni e delle decolonizzazioni, senza tener conto ad esempio dell’Inghilterra, che certamente non è uno Stato mediterraneo. Oltre all’Inghilterra la storia del Mediterraneo non è comprensibile ad esempio senza la Russia, soprattutto quando nella seconda metà del Novecento l’Unione Sovietica e la sua squadra navale sovietica entrata nel Mediterraneo cambiò le forze in gioco. Analogamente si deve dire per gli Stati uniti. Si tratta di un terzo cerchio.
Quindi per comprendere la storia del Mediterraneo novecentesco, nonché i suoi processi di colonizzazione-decolonizzazione, dobbiamo tenere conto di altri Stati da quelli rivieraschi, e quindi di altri cerchi, più ampi.
Ma è forse a livello cronologico che sarà necessario fare una riflessione storiografica, parlando di decolonizzazione. Nel caso in esame, non è possibile restringere questo fenomeno all’arco cui tradizionalmente è confinato. La decolonizzazione del Mediterraneo non avviene solo nel quindicennio 1945-1960, la sua accezione tradizionale, adatta per altre aree ma non per questa.
Il processo di statualizzazione del Mediterraneo, cioè della creazione sulle sue rive di Stati indipendenti, è più ampio e si snoda secondo alcuni tornanti.
- Alla data del 1900 abbiamo un certo numero di stati indipendenti nel primo cerchio – quello rivierasco –, nel secondo e nel terzo cerchio.
- Dopo il 1918 e la prima guerra mondiale abbiamo una crescita di stati indipendenti, soprattutto nella forma di mandati da amministrare. Smembrato l’impero ottomano, territori del Medio Oriente sono assegnati in mandato coloniale a Francia e Gran Bretagna; sono territori non ancora indipendenti ma lo saranno in seguito.
- Dopo il 1945 non tanto nel Mediterraneo rivierasco ma nel secondo cerchio, quello mediorientale, altri stati diventano indipendenti, ed è lì che si assiste ad un momento di svolta.
- Dopo il 1960 c’è una crescita di stati indipendenti nel Mediterraneo rivierasco, l’Algeria, il Marocco e la Tunisia diventano indipendenti. Anche nel secondo cerchio – il Medio Oriente – ad esempio Israele guadagna l’indipendenza. Ma finisce qui la decolonizzazione?
- Proviamo a vedere cosa succede nel 1989-1991, dopo la fine della Guerra fredda e l’ingresso nel tempo presente. In questo periodo abbiamo una straordinaria crescita di stati indipendenti nati dallo smembramento della Jugoslavia e dell’Unione Sovietica.
Stati del Mediterraneo | Mediterraneoin senso costiero | Secondocerchio | Terzocerchio |
Dopo 1900 | 10 | 4 | 2 |
Dopo 1918 (1923) | 10 | 5 | 2/5 |
Dopo 1945 | 11 | 11 | 2/5 |
Dopo 1960 | 19 | 15 | 3 |
Dopo 1989-1991 | 25 | 18 | 15 |
In conclusione, appare più opportuno parlare di ondate di decolonizzazioni – e non di una sola grande decolonizzazione –, ondate di decolonizzazioni e di statualizzazioni tutte diverse fra loro: uno Stato che si crea dopo la prima guerra mondiale non è simile a uno Stato che si crea alla fine della Guerra fredda.
Il Mediterraneo mare unico
Possiamo, quindi, considerare ancora il Mediterraneo un mare unico? L’affermazione è stata implicitamente ed esplicitamente oggetto di discussione fra gli storici: da Abulafia, nel capitolo dedicato alla decolonizzazione, il Mediterraneo è presentato come un mare unico e strettamente intrecciato; ma se guardiamo allo stesso mare con gli occhi di Horden e Purcell si presenta invece una grande frammentazione.
Tanti sono ovviamente gli elementi di continuità. Ad esempio, gli studiosi di antropologia politica hanno osservato che certi elementi di deferenza clientelare pervadono le società politiche del Mediterraneo odierno a sud, a nord, a est e a ovest, con ridotte differenze. Però è anche vero che la modernizzazione politica del Novecento, insieme a queste permanenze, ha enormemente differenziato i sistemi politici. Creando peraltro una quantità enorme di “democrature”, ibridi intermedi fra democrazie e dittature.
Quando Braudel scriveva il proprio libro, dopo la seconda guerra mondiale, l’unità del Mediterraneo rappresentavano un vero ideale lanciato contro le divisioni coloniali, un obiettivo progressivo al tempo del terzomondismo, quando le potenze coloniali e i movimenti anticolonialisti si confrontavano sanguinosamente.
Durante, contro e dopo la Grande decolonizzazione è andata creandosi un’ideologia mediterraneista, per cui è facile affermare una certa comunanza perché bagnati dalle stesse acque. Ma dietro a questa presupposta unità c’è un mondo di diversità, di frammentazioni, di casi storici diversi, di Stati nati in periodo diversi e dai caratteri diversi, nonché di fondamentali ineguaglianze economiche.
Due studiosi, un filosofo della politica e un sociologo, Danilo Zolo e Franco Cassano, hanno curato il volume L’alternativa mediterranea[6]; nei loro interventi sostengono che il Mediterraneo sia oggi una reale comunità e che sarebbe domani un’alternativa. Per questi autori il Mediterraneo sarebbe già oggi uno e progressista, rappresenterebbe l’unione e la convivenza tra i popoli e le religioni, impersonerebbe la risposta alla teoria di Samuel P. Huntington dello scontro fra le civiltà[7]. Si tratta di una proposta culturale e politica, da filosofi della politica, più che un’analisi da storici. Credo, purtroppo per gli storici e per il Mediterraneo, che la questione sia più complessa.
Oggi al di là delle ideologie, questi legami e questi rapporti mediterranei tra potenze rivierasche del ‘mare fra le terre’, ma ormai fra potenze di secondo e terzo livello, non possono più essere legami esclusivi né è sicuro saranno forieri di sviluppo per ambedue i contraenti. E allora è un bene che il commercio estero dell’Italia, nelle sue parti più qualificate economicamente, vada certo verso il Mediterraneo ma soprattutto verso i Paesi del nord Europa così come quelli delle aree economicamente più dinamiche del Lontano Oriente. D’altronde i tempi del ‘patto coloniale’ e delle monocolture di diretto sfruttamento da parte delle madrepatria verso l’ex colonia sembrano davvero passati: i prodotti tropicali, che una volta andavano solo verso la propria potenza coloniale, oggi sono richiesti e inviati per tutto il mondo. Paradossalmente, possiamo persino affermare per fortuna, in questo Mediterraneo ci sono gli Stati Uniti, la Cina con la sua lungimiranza strategica e la Russia, senza con questo fare alcuna apologia. Il Mediterraneo unito, da solo, non è certo sia più sufficiente per rispondere alle sfide di questo secolo e del prossimo.
È legittimo, è auspicabile – ma questi sono giudizi di valore – che il Mediterraneo si unisca ma, ripeto, si tratta di un progetto politico.
Problemi attuali di un Mediterraneo unico
Interrogarsi sul Mediterraneo allo snodo tra colonizzazione e decolonizzazione fornisce al tempo stesso una chiave centrale per capire il Mediterraneo nel Novecento e rappresenta anche un esempio di come la storiografia si sia evoluta nel corso dei decenni.
È evidente che a livello di geografia fisica il Mediterraneo abbia elementi in comune per tutti gli stati rivieraschi: ma la geografia storica pone in questo il movimento del tempo, cosicché i legami che uniscono le sponde del Mediterraneo all’inizio del Novecento, al tempo della guerra fredda e oggi non sono gli stessi, cambiando l’intensità, la portata, i soggetti stessi di quel legame.
Il Mediterraneo ha anche aspetti comuni fra le società e le economie che vi si affacciano: è stato così per lunghi secoli, quando la differenziazione tra le sue sponde nord e sud, così come tra quelle est e ovest, era minore. La differenziazione è un prodotto storico dello stesso processo di colonizzazione europea del mondo.
Proprio con il XV secolo questa differenziazione è aumentata. Paul Bairoch, nel suo fondamentale Storia economica e sociale del mondo, offre un computo economico da cui emerge che all’epoca della rivoluzione industriale tra Europa e Asia il rapporto del prodotto interno lordo pro capite oscillava da uno a uno a uno a due, mentre oggi è di uno a 14[8]. Hanno prodotto questo due secoli di rivoluzione industriale, di processo di industrializzazione e di modernizzazione: ma anche il processo di colonizzazione ha contribuito assieme a quello a separarle fortemente.
Dal punto di vista del contemporaneista, la storia di questi cinque secoli di dominio coloniale europeo hanno enormemente cambiato e allontanato le sponde del Mediterraneo.
Il Mediterraneo del post 1989-91, che ha moltiplicato entità statuali indipendenti, è quindi molto più iniquamente diviso. Riflettere sulla decolonizzazione oggi ci permette di riconsiderare questi dati di fatto e l’ideologia del mediterraneismo. Inoltre riflettere sui rapporti tra decolonizzazione e stati significa chiederci quali sono oggi “i mediterranei”, al plurale, oggi e probabilmentein tutto il Novecento.
È ancora più necessario riflettere sulla retorica mediterraneista quando, a seguito della crisi internazionale del 2007-08, gran parte della politica contemporanea si gioca sulla logica di un Mediterraneo unito o di un Mediterraneo diviso. Quanto l’Unione Europea sia interessata a questo/questi Mediterraneo/mediterranei dipende dalla comprensione anche storica che si ha del problema. Peraltro viviamo in un’era globale il/i Mediterraneo/mediterranei sono solo il locale di una realtà estremamente più complessa e globale.
Ed anche se avessimo un’unità mediterranea, cosa di per sè semplice, avrebbe questa un impatto decisivo su un mondo globale? Un mondo dove a decidere non è questa Europa, parte residuale del pianeta, ma pare essere – oltre agli Stati Uniti – l’Oriente, la Cina, l’India, i BRIC. Non c’è forse il rischio che unirsi come Mediterraneo possa distrarci da questo grande processo globale oggi in atto e di cui quella creazione di stati indipendenti dopo il 1989-91 è un riflesso? L’obiettivo finale deve essere il Mediterraneo unito o dev’essere – di nuovo come molti secoli fa – un raccordo fra l’Europa, i mediterranei e l’Oriente e la Cina?
In questa retorica mediterraneista gli storici del colonialismo sentono anche un qualche riflesso di qualcosa che conoscono bene e che era chiamata Eurafrica (o Eurafrique), una teoria molto diffusa in Francia e in Italia che, al momento del declino della colonizzazione, spingeva alcuni teorici del colonialismo a proporre in maniera interessata alle ex colonie di mantenere strette relazioni e legami economici con le ex-madrepatrie coloniali, per potersi avvantaggiare queste delle materie prime – petrolio – delle altre.
Quello che da storici contemporaneisti dobbiamo fare è studiare il Mediterraneo al di là delle retoriche, capire come nel caso della colonizzazione-decolonizzazione il problema si sia diversificato nei vari mediterranei (Mediterraneo europeo, Mediterraneo slavo, Mediterraneo Maghreb e Mashrek) che, già al tempo della decolonizzazione, avevano storie diverse e che oggi si sono ulteriormente diversificate.
Un Mediterraneo plurale
Quindi quanti mediterranei esistono nel Novecento?
È possibile identificarne almeno quattro:
- gli Stati dell’Europa meridionale: Spagna, Francia, Italia, Austria;
- gli Stati balcanici: Slovenia, Croazia, Albania, Montenegro, Grecia, Macedonia, Kossovo, Bosnia-Erzgovina, e per certi versi le isole di Malta e Cipro;
- gli Stati del Mashrek: con la Turchia, uno Stato di difficile collocazione, tra Europa e Medio Oriente. E poi soprattutto Libano, Israele, autorità palestinese, Siria, Iraq, Kuwait, Giordania e Arabia Saudita;
- gli Stati del Maghreb, oggi alla ricerca di una loro collocazione: l’Egitto, ma anche Libia (ammesso che non si divida presto in Cirenaica, Tripolitania e Fezzan), Tunisia, Algeria e Marocco.
Questi gruppi di Stati hanno storie diverse, nel Novecento hanno assunto denominazioni e vissuto esperienze assai diversificate tra loro, e talora anche al loro interno.
Queste aree grandemente differenziate sono divise fra loro, ma ospitano spesso al loro interno anche aree di faglia: aree talora molto deboli, dall’identità incerta e plurima. Si pensi anche al caso dell’Italia, che si considera europea, anche quando molti Stati ed élite europee l’hanno considerata per lungo tempo al massimo mediterranea, in taluni casi un modo gentile per dire nordafricana.
Gli Stati dell’area balcanica portano molte eredità di quelli che una volta erano i due grandi imperi dell’area e che li hanno generati: l’impero austro-ungarico e l’impero ottomano. Ma anche qui, tra i Balcani e il Mashrek è possibile individuare una realtà ambigua, la Turchia, che tiene di ambedue i lati: non è forse un caso se oggi la Turchia intenda entrare nell’Unione Europea ma al tempo stesso svolgere una politica di egemonia in Medio Oriente.
Gli Stati del Maghreb sono stati nel Novecento divisi fra loro per differenze storiche (alcuni hanno conosciuto la decolonizzazione prima, altri più tardi) e per quantità di risorse economiche e culturali (alcuni sono Stati assai poveri, altri sono Stati eccezionalmente ricchi, come la Libia).
Questo non è un dato geografico bensì un prodotto della storia. Una storia che si è sviluppata secondo gli snodi precedentemente indicati: il 1900 come orientativo momento d’avvio, il 1918-23, il 1945, il 1960, il 1989-91: un momento di partenza e quattro tornanti di storia novecentesca, tutti accompagnati da momenti di decolonizzazione e di statualizzazione e indipendenza.
Incrociando questi tornanti con le aree sopra ricordate, ne consegue un Mediterraneo oggi non più certamente unico mare bensì un mare fatto di più mari, visto il processo di frammentazione che la storia novecentesca ha creato, a partire dalla statualizzazione.
Un Mediterraneo allargato, allargare i suoi cerchi
D’altro conto, se si intende capire la storia del Mediterraneo novecentesco e del tempo presente solo a partire da questi stati rivieraschi, è difficile comprendere tutto. Come possiamo capire il Mediterraneo tra colonizzazione e decolonizzazione nel Novecento, si è già detto, lasciando fuori la Gran Bretagna? E come spiegare la storia dei Balcani senza l’Unione Sovietica, o prima la Russia? E poi, nel secondo Novecento, come capire Gamal Abd el Nasser e la sua rivoluzione dei “liberi ufficiali” egiziani senza l’Unione Sovietica? È insomma necessario un cerchio un po’ più ampio che tenga conto di alcuni stati dell’Europa, la Gran Bretagna, come abbiamo già detto, ma anche la Germania: come capire la storia della Turchia e dei Balcani senza la Germania?
Allargare il cerchio non significa solo tirare in ballo le vecchie grandi potenze coloniali. In Medio Oriente, come capire la storia del Libano senza la storia della Siria? Come capire la storia della Palestina e di Israele senza l’Iraq, che provenivano dallo stesso mandato coloniale britannico?
C’è tutto un secondo anello intorno all’acqua del Mediterraneo che è assolutamente fondamentale, una corona di stati che oggi sono il Kuwait, il Qatar, il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e lo Yemen. E nel caso dell’Africa mediterranea il Sudan, l’Eritrea, l’Etiopia, la Somalia, il Ciad, il Niger, il Mali, la Mauritania. Infine per alcuni periodi storici il processo di statualizzazione nei tre continenti intorno al Mediterraneo ha subito dei passaggi che non sono comprensibili se non ampliando questo cerchio. Allora è necessario tenere conto anche dell’Afghanistan e del Pakistan, visto il loro influsso sull’Iran, e non solo.
Una tale articolazione non contraddice il fatto che ci siano unità, scambi economici e commerciali, similitudini demografiche, sociali e culturali a misura di Mediterraneo. Però, per evitare di cadere in ideologie, conviene fare attenzione e non dare nulla per scontato, misurandosi con i dati di fatto e con le cifre. Ad esempio, se consideriamo il commercio inter-mediterraneo dal 1945 a oggi, non è detto che esso sia così tanto aumentato in valore assoluto. Anche perché sono cresciuti altri commerci. Nello specifico, un tempo alcuni beni alimentari venivano dal Mediterraneo e vi si scambiavano intensamente, tanto in valore assoluto quanto percentuale. Adesso è probabile che rifornimenti vengano dal Cile o dall’Australia, con commerci globali, più che dal solo Mediterraneo. Oggi il processo di globalizzazione permette di unire luoghi molto lontani, in quanto i costi degli spostamenti sono molto più bassi, e non basta osservare che la geografia fisica indica che i mercati mediterranei sono fra loro vicini, se non abbiamo anche la prova storica che essi sono fra loro interconnessi. Peraltro il processo globale lega oggi non più necessariamente le identità statuali e i mercati nazionali, come era forse successo tra Ottocento e prima metà del Novecento, ma aree e regioni sub-statuali. In un certo senso siamo tornati ad un passato in cui non erano legati gli Stati ma le città portuali. Non è l’economia italiana che è legata con quella tunisina, ma sono singoli beni alimentari di Tunisi che vanno a Milano, e magari a Palermo non vanno mai. Questo pare configurare legami non più del Mediterraneo ma nel Mediterraneo, effetto questo anche del processo di globalizzazione.
Il Mediterraneo odierno è attraversato da tutte queste correnti e fili di contatti, a partire dai capitali e dalle merci: ma oggi anche da genti in movimento. È questo l’aspetto oggi più evidente, per quanto non è detto sia l’aspetto fondamentale.
È certo tragicamente fondamentale per chi il Mediterraneo vuole attraversare, e soprattutto lo è per chi non riesce purtroppo a superarlo, finendo per rimanere per sempre sui suoi fondali seppellito. Anche se è quella più mediatizzato, non è detto la corrente dei migranti sud-nord sia quella più rilevante: troppo frequentemente si dimentica la grande quantità di migranti che viene da est, che il Mediterraneo costeggia se proprio non lo attraversa, passando per Grecia, Turchia, Balcani per arrivare, se riescono a sopravvivere a tutto quello che incontrano in queste regioni, in Italia via Trieste.
Infine il Mediterraneo è tenuto assieme da legami ma non è detto che essi siano tutti progressivi. Si consideri che questi vincoli che legano il Mediterraneo nell’età presente sono troppo spesso legami che stringono aree nient’affatto forti del pianeta. Questo è il punto più importante, di solito un po’ oscurato nelle rappresentazioni oleografiche delle ideologie mediterraneiste. Sono infatti legami che uniscono economie oggi deboli del pianeta: un’Europa se non in crisi in stagnazione, e un Africa, o un Medio Oriente, o Balcani, in piena crisi economica. Forse più vantaggiosi sono certi legami che scavalcano il Mediterraneo: i legami transatlantici dell’Europa, così come il nuovo intervento diretto – formalmente non coloniale – delle grandi potenze asiatiche come Giappone, Cina e India direttamente nel Continente nero, anche solo alla ricerca di terre. In questo il Vecchio continente deve rassegnarsi a rappresentare un’area tendenzialmente residuale sia demograficamente sia economicamente: l’Europa aveva un peso significativo intorno al 1900, ma ora rappresenta circa l’11% della popolazione mondiale. Finisce così che questi legami intorno al Mediterraneo possono risultare una gabbia tragica, e un’alternativa non necessariamente vincente ad altri legami globali: un rischio più che l’ideale per la convivenza pacifica tra popoli che pure, in altre fasi storiche, avevano rappresentato un ideale importante.
Un mare di problemi
Tali ripensamenti permettono oggi di pianificare più criticamente e laicamente non solo il futuro prossimo o lontano ma anche di rileggere le tappe del processo di decolonizzazione, e di creazione di Stati indipendenti, a partire dal giudizio sulle classi dirigenti di questi Paesi appunto al tempo della decolonizzazione. Tale giudizio è ormai tempo che sia storico, non più ancorato ai cliché del tempo del terzomondismo e dell’antimperialismo: ed il bilancio non è molto positivo. Il Mediterraneo, più che un’oasi felice e unica, si presenta come un mare di problemi. Ovviamente, per ragioni di tempo, non potremo elencarli tutti né nemmeno ambire ad indicare i maggiori. Faremo solo alcuni esempi a scopo didattico.
È vero che per rettamente giudicare queste classi dirigenti, e l’intero processo di decolonizzazione, sarà necessario tenere in gran conto le difficili congiunture interne, lo stringente assedio del capitale internazionale, il fatto che questi Stati usciti dalla decolonizzazione non abbiano trovato attorno a sé l’habitat, l’humus per far espandere le loro risorse. Ma molti di questi Stati erano rentier non di terre ma di materie prime esauribili – come il petrolio – e di manodopera a basso costo, ed è questo che le classi dirigenti hanno sfruttato al tempo della decolonizzazione. Come alcuni storici hanno osservato, il regalo più avvelenato che la colonizzazione ha fatto ai regimi della decolonizzazione sono state le classi dirigenti nazionaliste: classi dirigenti spesso inadeguate per Stati spesso deboli strutturalmente, come peraltro tutti gli Stati coloniali e post coloniali.
Un altro problema è l’idea di nazione che le classi dirigenti dei Paesi in via di decolonizzazione e decolonizzate hanno ereditato dall’Occidente: una idea di nazione che non corrisponde alla realtà di questi Paesi, nei quali ideali comunitari, appartenenze locali, lealtà e identità religiose hanno avuto una forza e una resistenza assai maggiori che in Occidente, contribuendo a indebolire ulteriormente Stati coloniali già deboli divenuti post coloniali.
Ci sono poi problemi creati dalla storia. Troppo spesso il Mediterraneo è stato rappresentato come una partita a due, fra europei e arabi. Ma così facendo si rischia di perdere di vista almeno due grandi attori. Uno è ancora presente sulle sponde del Mediterraneo, uno purtroppo è quasi assente. Quello ancora presente è dato dalle popolazioni slave e non andrebbe mai sottovalutato: il Mediterraneo è tale perché è frutto dell’incontro non di due (Europa, Africa) ma di tre continenti (come dimenticare l’Asia?). Inoltre le popolazioni slave sono parte integrante dell’Europa e della sua storia, anche se una interessata concezione di ‘Occidente’ ne ha escluso, al tempo della Guerra fredda, una parte importante. L’altro attore, quantitativamente minore ma di grande rilevanza, che purtroppo è quasi assente è quello delle popolazioni ebraiche. Per lunghi secoli gli ebrei hanno costituito una delle reti di relazione nel Mediterraneo, che fino al 1933 avevano un ruolo di rilievo a loro modo anche quantitativo. Ma l’estirpazione della presenza ebraica nel Mediterraneo è dovuta alla violenza nazista, dello sterminio razziale del progetto di Soluzione finale del problema ebraico. Esso ha contribuito a sradicare comunità che stavano dentro il Mediterraneo, tagliando molti di questi fili, invisibili ma molto concreti economicamente e politicamente, che lo univano. Ciò che rimane oggi di quella presenza, Israele, per molte delle politiche dei suoi governi non è sinora riuscito a riguadagnare quel ruolo di cerniera che per secoli quella presenza aveva avuto.
Se si sommano tutti questi fattori – Stati coloniali diventati post coloniali ma rimasti deboli, classi dirigenti non democratiche e spesso inadeguate al momento storico, il sistema politico internazionale segnato dalla Guerra fredda, il sistema economico capitalistico mondiale che certo non aiutava – si hanno le chiavi per la comprensione delle difficoltà e del fallimento del sogno della decolonizzazione, quello cioè di avere Stati ed economie indipendenti. Attualmente gli Stati nazionali al sud come al nord – in maniera diversificata ovviamente – si trovano in grandi difficoltà, mentre le economie non sono certo autonome, come attestano le recenti vicende di Somalia, Iraq, Libia e Siria.
In tutto questo c’è una grande continuità con la lunga storia plurisecolare del colonialismo europeo: ma questo stato di cose postcoloniale non chiamiamolo né di nuovo colonialismo, né neocolonialismo: perché non aiuteremmo a capire meglio e a risolvere i problemi.
È ormai una visione abbastanza comune tra gli storici non considerare la storia del Mediterraneo del Novecento una storia di successo. In tale quadro politica ed economia non hanno aiutato i popoli delle diverse sponde a incontrarsi, anzi il processo di modernizzazione e poi quello di globalizzazione ha allontanato queste realtà.
Conclusioni?
Dobbiamo con ciò concludere che storiograficamente Braudel è morto? Anagraficamente sì, ma non il suo messaggio, perché il Mediterraneo rimane uno, ad onta di questa progressiva frammentazione.
I più recenti studi post coloniali hanno però sottolineato – nell’unità – la pluralità del Mediterraneo, rappresentato perciò come un “pluriverso” e non un universo. Altre tendenze hanno invece assolutizzato le diversità; e anche questo, che si spiega storiograficamente, non stupisce perché quando si rompe una grande narrazione unitaria, allora il rischio è che rimangano solo le differenze, i cocci rotti e sparsi.
Horden osserva che gli studi correnti sul Mediterraneo seguono quattro approcci. 1. Il primo è quello del “Mediterraneo riduttivo”: un approccio secondo il quale più stringiamo l’oggetto di osservazione e più unità troviamo; ad esempio se noi cerchiamo l’unità del Mediterraneo nell’ulivo, è chiaro che meno chilometri ci si allontani dalla costa e più gli ulivi sono diffusi. 2. Il secondo sarebbe quello dei “rapsodici”, o meglio dei non sistematici, i quali scelgono ciascuno a proprio modo i motivi di unità del Mediterraneo, focalizzando l’attenzione su argomenti del tutto differenti sul piano sociale, politico, culturale e così via. 3. Il terzo approccio sarebbe quello dei “riflessivi”, i post coloniali radicali che si interessano solo alle teorizzazioni, alle idee, ai discorsi, e per i quali l’economia non conta. .4. C’è infine il quarto approccio degli studi mediterraneisti, che è quello che Horden definisce dei “realisti”, nel quale l’autore si iscrive e in cui anche chi scrive finirebbe per collocarsi, non foss’altro perché le altre categorie sembrano rappresentazioni irridenti.
Se questo è davvero una autorevole analisi degli studi mediterraneisti, il rischio odierno è che prevalgano sogni di unità mediterranea moralmente anche nobili ma difficilmente dimostrabili soprattutto per quanto concerne l’età contemporanea e segnatamente il Novecento, e per certi risvolti forse nemmeno tanto auspicabili.
Non si tratta di tornare al realismo groziano del “tutti contro tutti”. Ma quanto meno di allertare contro i rischi di scivolare da una retorica a un’altra, soprattutto in mancanza di studi che tengano conto della realtà dello stato dei fatti.
Ho volutamente affrontato la storia del Mediterraneo tra colonizzazione e decolonizzazione non nella didascalica elencazione degli incontri, degli scontri, delle politiche, della data in cui questo o quello Stato si sono decolonizzati, preferendo accennare un quadro che complicasse le idee e offrisse una prospettiva di più largo respiro.
Estratto video
Note
[1]Testo della conferenza non rivisto dall’autore e trascritto a cura dell’Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea.
[2] F. Braudel, La Mediterranée et le Monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Colin, Paris 1949, trad. it. Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino, 1953.
[3] P. Horden, N. Purcell, The corrupting sea. A study of Mediterranean history, Blackwell, Oxford, 2000.
[4] D. Abulafia, Il grande mare. Storia del Mediterraneo, Mondadori, Milano, 2013.
[5] P. Matvejević, Breviario mediterraneo, introduzione di Claudio Magris, Hefti, Milano, 1988.
[6] L’alternativa mediterranea, a cura di Franco Cassano, Danilo Zolo, Feltrinelli, Milano, 2007.
[7]> S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997.
[8] P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo. Vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, Einaudi, Torino, 1999.