Eppur si muove? Prospettive per la didattica della Storia in Italia e in Europa
Improvvisamente, la didattica della storia
Una giornata di lavoro divisa in due. La mattina, una rassegna di buone pratiche italiane; il pomeriggio, un panorama dei sistemi di formazione dei professori di storia in Europa. Siamo a Padova, nella bella sala Bortolami del palazzo Jonoch Gulinelli. Sono tra il pubblico di Prospettive per la didattica della storia in Italia e in Europa, convegno organizzato da Walter Panciera, che qui insegna storia moderna e didattica della storia. Con me, altri docenti universitari, ricercatori di didattica storica italiani ed europei, e parecchi insegnanti. Fra qualche giorno (il 22 e 23 febbraio) si svolgerà un convegno, organizzato dalla Sissco (la società degli storici contemporaneisti), quasi interamente dedicato alle esperienze didattiche. Vengo da Bari, dove al convegno sulle Digital Humanities i miei colleghi hanno appena organizzato un ricco panel sulla didattica digitale della storia e un altro ne stanno preparando alla kermesse sulla Public History, che si terrà a Pisa a giugno. Inaugurando i lavori, Panciera annuncia che in autunno la Commissione didattica, espressione delle diverse associazioni storiche italiane, ha in calendario due convegni: il primo sull’insegnamento della storia nelle scuole; il secondo sulla didattica storica universitaria. Come Rete degli Istituti, infine, stiamo lavorando anche noi, per l’organizzazione di un momento di confronto fra le associazioni storiche e le associazioni degli insegnanti, da realizzarsi in questo anno.
A memoria non conosco un altro periodo così denso di convegni universitari sulla didattica storica. “Eppur si muove”, diremo di una comunità di studiosi che, al di là dei proclami, nei fatti non si è mai mostrata particolarmente disponibile alla questione didattica? I pessimisti insinueranno che questa agitazione nasce dall’aspra lotta per contendersi le briciole dei 24 cfu, lasciate dai colleghi dell’area psico-pedagogica, e in vista del FIT, il nuovo percorso di formazione dei docenti. Chi, come me e come tanti (in primis gli organizzatori della manifestazione padovana), tende a guardare le cose dal loro lato confortante, vedrà in questa mobilitazione almeno un momento di qualificazione del dibattito didattico italiano.
Un Centro di Studi di didattica della storia
A spingere verso questa direzione è lo stesso CUN, che, come ricorda Marina Rossi, delegata dell’Ateneo patavino alla formazione degli insegnanti, ha invitato esplicitamente le Università a occuparsi di didattiche disciplinari, proprio in vista dei 24 cfu e del prossimo FIT. Un rapido conto ci avverte che ci sarà un notevole numero di nuovi insegnamenti. E se (come spero) sarà sempre più difficile il tentativo di spacciare per didattica storica il normale corso monografico, o un corso di epistemologia e storiografia buono per ogni occasione – cosa che dovrebbe accadere se si rispetterà l’elenco puntiglioso degli argomenti di studio, preparato dallo stesso Panciera –, si avrà bisogno di un personale universitario realmente specializzato in didattica. Dove troveranno, le nostre Università, questi docenti? Un Centro Nazionale per lo studio della didattica storica potrebbe essere un utile strumento per formarli e, al tempo stesso, per avviare progetti di ricerca storico-didattica. Se ne era già parlato al convegno sulla didattica storica organizzato dalla Sissco a Roma nel 2017 (Insegnare storia ai millennials). Ci si sta lavorando, e se – nuovo governo permettendo – si riuscisse in questa impresa, potremmo dire che questo movimento ha portato a un successo del quale tutti – sostenitori o no delle didattiche disciplinari – dovremmo essere contenti. Infatti, come puntualizza Panciera in apertura dei lavori, al di là dei proclami e delle promesse della Public History, la scuola resta l’istituzione che collega ricerca e società. Quindi il rapporto con la scuola costituisce un terreno strategico, nel quale la storia può cercare di riconquistare qualche credito presso una collettività sempre più scettica sull’utilità delle discipline umanistiche.
Buone pratiche, insegnanti eccellenti
Poche pratiche, quelle selezionate dai responsabili del convegno, ma indicative dello stato di una ricerca didattica, che in Italia è, prevalentemente, quella praticata dagli insegnanti direttamente sul campo. Sono pratiche di lavoro partecipato/laboratoriale. Si va da quelle più tradizionali (nel solco di innovazioni didattiche che risalgono agli anni ‘70/80), che partono dal principio della simulazione in classe del lavoro storico. E’ il caso di Daniele Fioravanzo, che costruisce un mini-archivio, con documenti scritti e iconografici, alla scoperta di ciò che accadde a Thiene, durante una peste di inizio ‘600. Oppure, è il caso del lavoro presentato da Simone Campanozzi, dell’Istituto Storico Lombardo (Istlec), che insegna agli allievi a sistemare il cospicuo patrimonio bibliotecario di una scuola sulle imprese coloniali italiane, nell’ambito di un progetto di alternanza.
Le tecnologie diventano il nuovo scenario di questi cimenti didattici. Lo si vede nelle tre esperienze: di Fabrizio Lamanna (della Commissione didattica Sissco), che lavora con le cartoline della Grande Guerra, tratte dai repertori digitali in rete; di Chiara Massari, che ha collaborato alla costruzione di E-story, una piattaforma europea per lo studio della storia con materiali iconografici, per la quale l’Istituto Parri di Bologna ha approntato alcune sequenze didattiche; e di Flavio Febbraro, dell’Istituto storico torinese (Istoreto), la cui originale proposta è quella di meticciare educazione ai media e formazione storica, insegnando agli allievi a scrivere delle voci di Wikipedia.
Queste esperienze sono una testimonianza magnifica di una realtà scolastica straordinaria: di quel manipolo di docenti che “non ha mollato” (il 20% degli addetti è “di eccellenza europea”, secondo Cavalli e Argentin: Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola. Terza indagine dell’Istituto IARD sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana, Il Mulino 2007), ma si impegna con intelligenza e fatica per avvicinare i ragazzi al sapere disciplinare. La varietà dei temi e delle procedure didattiche è significativa della vivacità di questa fascia professionale, e della sua tenacia nell’informarsi su argomenti e tecniche che non hanno fatto parte della sua formazione. La domanda che invariabilmente ci si pone, quando si ascoltano queste esperienze, è: “come si fa a socializzarle?”
Buone pratiche, poca didattica
Osservata dal punto di vista didattico (ovviamente c’è quello istituzionale/sindacale, che qui non posso prendere in considerazione), questa domanda mette in rilievo il dramma della mancanza di un pensiero didattico strutturato e condiviso. Ogni insegnante ha costruito il suo, leggendo libri, partecipando a corsi o, come accade sovente, ingegnandosi. Quanto all’Università, li ha gettati sul campo del tutto digiuni di didattica storica. Per cui: mentre è possibile intervenire su queste esperienze con suggerimenti storici (“se leggi quel libro sulla peste, troverai un’interpretazione diversa”), epistemologici (“la tua interpretazione delle fonti è un po’ troppo postmodern”); financo pedagogici (“questo progetto di flipped classroom è sbagliato”); per quanto riguarda la didattica disciplinare, le osservazioni di tecnica o di teoria didattica, avrebbero molte possibilità di cadere nel vuoto: quale modello di archivio simulato o di studio di caso stai mettendo in pratica? A quale modello di curricolo storico ti riferisci, quando pensi di inserirvi questo laboratorio? Come concili la ristrettezza dei tempi con le esigenze di una didattica partecipata? Qual è la configurazione didattica di questa fonte iconografica o scritta? E perfino la domanda di base: “che cosa per te vuol dire apprendere storia?”, otterrebbe un ventaglio di risposte non sempre gestibile.
Queste domande, alle quali la ricerca didattica ha approntato nel tempo alcune risposte, si trasformano in Italia in problemi aperti, a volte irrisolvibili, come dichiara, peraltro, Daniele Fioravanzo quando confessa che la sua esperienza, per quanto entusiasmante e ben congegnata, non può essere replicata in un contesto normale, a causa sia della sua complessità, sia dei tempi che richiede.
Per ultimo: proprio la mancanza di una cultura didattica condivisa, costituisce un potente ostacolo alla diffusione delle esperienze, perfino all’interno dello stesso gruppo degli insegnanti eccellenti.
Questo mi sembra essere il lato oscuro del fatto che la didattica, in Italia, è qualcosa che gli insegnanti sperimentano e imparano SOLO sul campo, nella quasi completa assenza del supporto di ricerca e di formazione, che dovrebbe essere loro offerto dalle Università.
Perché guardare fuori d’Italia
Luigi Cajani, presidente dell’Associazione internazionale di ricerca didattica in Storia e Scienze sociali, introduce la sessione sull’Europa, facendo notare la contraddizione di un paese nel quale a una produzione storica di tutto rispetto ha corrisposto l’assenza quasi assoluta di una ricerca didattica. Quale che ne sia la causa – retaggi dell’idealismo, la convinzione che esista un rapporto empatico e diretto fra storico e società – le conseguenze sono esattamente quelle che abbiamo di fronte a noi. Con le sue parole: “Il fermento di iniziative dal basso non ha mai trovato un punto di riferimento accademico che lo abbia trasformato in una ricerca strutturata. E senza ricerca, le cose si fanno ma si disperdono. Le esperienze si fanno e si distruggono”.
Di qui, il nostro interesse nell’ascoltare gli altri: non solo per accrescere le nostre conoscenze didattiche, ma per vedere in azione sistemi di formazione iniziale completi di parte culturale e didattica e renderci conto dell’utilità della ricerca didattica.
Olanda, Francia, Germania e Svizzera, infatti, realtà che dal punto di vista della struttura scolastica e dei programmi, presentano molte differenze, hanno tutte in comune una consolidata ricerca storico-didattica, da una parte; e un sistema di formazione didattico universitario (o di scuole di specializzazione) dall’altra. Hanno, inoltre, in comune il fatto che le abilitazioni sono sulle singole discipline (due a scelta, come in Germania; una per volta, nelle altre realtà). Certo, ci sono forti differenze. La ricerca didattica tedesca è di un’ampiezza e di una profondità ineguagliate, che si manifestano in un buon numero di strumenti cartacei (riviste e pubblicazioni) e online. Su “Novecento.org” ne ha scritto Alessandro Cavalli. L’Olanda eccelle nella valutazione: il suo Cito fa impallidire il nostro Invalsi, ma ha grandi problemi con un canone storico, molto discusso. La Francia ha vissuto una buona stagione di produzione didattica e di formazione storica, a volte molto battagliera, che recenti scelte politiche stanno mettendo in crisi: il suo feuilleton lo potete seguire nelle oltre cinquanta clip di una trasmissione televisiva mentre sul sito L’étudiant potrete far la conoscenza dell’articolato percorso di formazione dei docenti; così come in Svizzera, accanto al lodevole tentativo di uniformare 26 sistemi scolastici, tanti quanti sono i cantoni di quello stato federale, l’insorgenza di un forte nazionalismo identitario costituisce una pesante ipoteca sull’insegnamento della storia, e, conseguentemente, impegna professori e ricercatori in un’attività intensa di difesa della sua qualità scientifica. Lo si vede, fra l’altro, nelle proteste degli insegnanti contro le decisioni politiche sull’insegnamento dell’educazione civica.
Domande comuni: sistemi di risposta diversi
Arie Wilschut, dell’Università di Amsterdam, parte da una domanda comune nelle nostre scuole: “qual è la rilevanza che gli studenti attribuiscono alla storia? E che cosa si può fare per migliorarla?”. Fin qui, le cose coincidono, in Olanda come in Italia. Ma supponiamo di avere sottomano le risposte dei ragazzi. Da noi, ciascuno le valuterà, arrangiandosi con la propria esperienza o con il senso comune; nei Paesi Bassi, invece, l’insegnante ha a disposizione ricerche condotte con gli strumenti della sociologia e della psicologia sociale che gli consentono di analizzare le argomentazioni che sono alla base delle risposte degli studenti e l’efficacia delle sue operazioni didattiche per migliorarle.
Infatti, quando l’insegnante italiano dalla diagnosi passa alla “terapia”, e decide di prendere in considerazione – ad esempio – le essential questions, proposta didattica formulata da Jay Mc Tiggins e Grant Wiggins, che certamente si può acquistare e leggere anche in Italia (Fare progettazione. La «teoria» di un percorso didattico per la comprensione significativa, Roma 2003), dovrà arrabattarsi per trasformarla in procedure di insegnamento storico. Al contrario, il collega olandese avrà a disposizione una ricerca accademica, nella quale dall’impero romano, al medioevo inglese e all’emigrazione odierna, ti si mostra come si configura in storia una “questione essenziale”, attraverso quali passi occorre operare, con quali materiali e con quali risultati.
Wolfgang Hasberg, dell’Università di Colonia, è un esponente della formidabile comunità di studiosi di didattica della storia tedesca, una disciplina che (come spiega dettagliatamente nella sua relazione) affonda le sue radici in un passato remoto. Fra le questioni che mette sul tappeto, ne affronta una, particolarmente controversa in Italia: le competenze. Stretti, da una parte, da ispettori e aggiornatori a vario titolo che, in modo sconsiderato, predicano che non bisogna insegnare conoscenze, ma solo competenze; e dall’altra, da un Appello per la scuola pubblica che, forte di oltre diecimila adesioni, mette in cima alla sua protesta l’antinomia fra conoscenze e competenze, e sostiene la tesi specularmente opposta, è agevole immaginare il disorientamento di chi lavora nelle nostre scuole. Fare da soli, peraltro, è un’impresa disperata: attraverso quali tortuosità si riesce a transitare dalle competenze di Lisbona, enunciati dal carattere generalissimo, a proposito dei quali si possono imbastire trattati di sociologia, alla concretezza di una disciplina?
Questo in Italia, ora. Non è difficile immaginare quanto sarebbe più produttivo questo dibattito – tra favorevoli e contrari – se il termine di confronto fosse costituito dalle sei competenze storiche, elencate da Hasberg: saper fare domande storiche; riorganizzare conoscenze storiche; ricostruire e decostruire storie; orientarsi nel tempo e riflettere sul proprio modo di pensare la storia. E, se – a evitare che la discussione si svolga solo attorno ad affermazioni di principio e a speculazioni – queste proposte fossero accompagnate (come accade in Germania) da solide ricerche empiriche che ne testino l’efficacia.
La dimensione teorica dell’insegnamento
Nell’immaginario pedagogico corrente in Italia, la “teoria” e “i contenuti” spettano alle discipline, mentre “il saper fare professionale” è un “come”, che spetta alla pratica. Si tratta di una ripartizione dei saperi disastrosa, che impedisce di innestare nel lavoro di ogni giorno le progressioni virtuose del sapere scientifico: il confronto, l’accumulo, la verifica, la riproduzione dell’esperimento. Chi insegna parte sempre da zero, in questo mondo, costretto com’è a “inventarsi” quotidianamente la sua didattica. Questa ripartizione è deleteria, tuttavia, anche dal punto di vista teorico, perché consegna alla pedagogia (o alla filosofia, o a altre scienze sociali) una massa di questioni che precedono il lavoro d’aula, ma che sono strategiche per definire il ruolo di questo lavoro nella società: perché insegnare storia; qual è il rapporto fra sapere storico e cultura storica diffusa; che cosa vuol dire considerare la storia uno strumento di formazione del cittadino; in che modo collegare i tre momenti della storia – passato, presente e futuro – in un percorso formativo; cosa intendere per cultura storica di una società, o come configurare la coscienza storica di un individuo.
Le relazioni ascoltate a Padova (e in generale la grande bibliografia storico-didattica internazionale) mostrano che la didattica storica è il contesto proprio, dove affrontare questi problemi. È il luogo nel quale le scienze storiche possono riappropriarsi di questioni troppo a lungo demandate ad altre discipline.