Noi e gli altri, fra commemorazione e studio della storia. Editoriale n. 3
L’Europa e l’Italia vivono un biennio denso di commemorazioni, fra Prima Guerra mondiale, Resistenza e sbarco in Normandia, con l’avvio della liberazione del continente europeo dai Nazisti. Quest’ultima si è sostanziana, nel Nord Europa, in un complesso di manifestazioni, alcune delle quali hanno suscitato echi e polemiche mondiali, e nella progettazione di iniziative più circoscritte come le Liberation Routes (http://liberationroute.com/liberation-route-europe), tre percorsi che, partendo da altrettanti luoghi simbolo della Seconda guerra mondiale, convergono su Berlino. La strada orientale è partita da Danzica; quella occidentale si è mossa dall’Inghilterra, ha attraversato la Normandia, le altre regioni francesi teatro delle ultime feroci battaglie, poi il Belgio e l’Olanda; e, infine, quella meridionale, la strada della liberazione dal Mediterraneo, sarebbe dovuta partire dall’Italia addirittura nel 2013, attraversare la penisola, poi le regioni francesi centro meridionali, per unirsi alle altre nella capitale tedesca. Il condizionale è reso obbligatorio dal fatto che questa parte del progetto è rimasta sulla carta: fra i partner dell’iniziativa, promossa dagli olandesi e finanziata dall’Europa (la presentazione sul sito è del vicepresidente della commissione cultura Antonio Tajani), non c’è nessun italiano.
Lungo questi percorsi, le nazioni interessate hanno organizzato manifestazioni, mostre, convegni che hanno reso evidente il grande impatto sociale di questo momento di storia pubblica. Ho avuto modo di visitare il tratto olandese, caratterizzato da massi disposti nei luoghi topici della guerra, quasi enormi pietre di inciampo: un itinerario che già al suo primo abbozzo, nel 2013, aveva superato i due milioni di visitatori, cifra raddoppiata nell’anno successivo.
Forse il caso di queste Liberation Routes è una spia di quella sorta di ripiegamento su se stessi della storia pubblica italiana, parallelo ad altri ripiegamenti che investono la società italiana, dalla politica, all’economia, alla cultura. E’ una specie di contrazione degli orizzonti, paradossale in un periodo, come il nostro, nel quale i fenomeni decisivi della vita si giocano tutti entro scenari mondiali. Per questo segnalo con piacere alcune, fra le diverse iniziative dell’Insmli che marciano in direzione contraria: il convegno di Firenze, che ha inserito il periodo del Fascismo nel contesto del conflitto europeo fra le due guerre (21-23 maggio 2014), o quello che si svolgerà a Milano, dal 21 al 24 aprile del 2015, in chiusura del Settantesimo anniversario della Resistenza, il cui titolo è Il 1945 nella tradizione italiana e europea. Dal canto suo, anche questa rivista cerca di spezzare il cerchio di una didattica storica italocentrata: lo si vede nel contributo di Christian Grataloup sulla geostoria della mondializzazione, nell’articolo sulla demografia mondiale di Cesare Grazioli, e – per quanto riguarda la dimensione europea – nei vari contributi di Charles Heimberg, di Sabrina Manzari e di Deborah Paci sul modo con il quale i francesi studiano e insegnano la Guerra mondiale; o nella proposta didattica sulle guerre balcaniche di Mire Mladenovski e Paolo Ceccoli.
Non si tratta, naturalmente, di cedere all’esterofilia (uno dei vizi nazionali denunciati periodicamente dai commentatori dei media), né di un declassamento della storia italiana, come è ben dimostrato dagli altri contributi di “Novecento.org”. Si tratta, invece, di aprire, e praticare con decisione, due strade di ripensamento didattico.
La prima riguarda l’enorme bagaglio di conoscenze, di problemi e di tecniche che la ricerca didattica internazionale ha approntato negli ultimi decenni. E’ una biblioteca in larga misura estranea al dibattito italiano e alle pratiche scolastiche. Sembra che la nostra scuola viva in un mondo a parte, disturbato ogni tanto dalle deludenti comparazioni con altri stati (fra le poche notizie scolastiche che trovano una qualche eco nella stampa). Questa separazione ha generato la convinzione che essa sia gravata da problemi unici: il “suo” liceo, il “suo” curricolo, i “suoi” immigrati, la “sua” formazione dei docenti. Sostenuto come esigenza di fare attenzione alle specificità del paese, questo atteggiamento è più che altro lo specchio di una provincializzazione mortificante della nostra didattica, dalla quale faremmo bene a liberarci, soprattutto perché legittima disfunzioni, che – privi del confronto con gli altri – non riusciamo nemmeno a riconoscere come tali.
A questa separatezza è collegata l’altra strada, quella di una corretta problematizzazione di questioni generali e specifiche dell’apprendimento storico. Fra queste ci sono le domande fondative della didattica (a che serve insegnare storia? E quale storia insegnare?), che sono oggetto di un acceso dibattito internazionale, a rimarcare il fatto che quasi tutta l’umanità sta ripensando il proprio rapporto con il passato. Ma lo stesso accade per questioni più circoscritte, come per l’appunto la Guerra mondiale, alla cui didattica si sono applicati centinaia di studiosi. Una parte significativa di questi ha esposto i risultati delle proprie ricerche al convegno Guerres et paix: enjeux éducatif, Fribourg 11-13 settembre 2014: http://irahsse.org/conference.html, del quale pubblicheremo alcuni contributi.
La dimensione mondiale, o sovranazionale, delle questioni della storia insegnata è un dato di fatto imprescindibile. Molti docenti italiani lo sperimentano ad ogni 27 gennaio. Si tratta di un effetto perverso, quanto inconsapevole, di una serie di passaggi che hanno portato in tempi abbastanza rapidi la logica sterminazionista del regime nazista (che colpiva una grande varietà di vittime) a coincidere con lo sterminio degli ebrei, e poi a ridursi ulteriormente allo sterminio degli ebrei italiani e alla legislazione antisemita del fascismo. Si è prodotta, quindi, una sorta di riduzione di scala – spaziale e al tempo stesso concettuale – che condiziona fortemente lo comprensione storica di quell’evento, e, di conseguenza, il portato formativo che ci si attende dall’azione della scuola. Un ulteriore passo verso quel ripiegamento su se stessi, dal quale l’insegnamento storico dovrebbe, al contrario, liberarci.