L’impatto della rivoluzione digitale e delle nuove tecnologie della comunicazione
Dossier @storia: la storia nell’era digitale, pubblicato sul numero 1, dicembre 2013.
Relazione sull’intervento di Paolo Ferri “L’impatto della rivoluzione digitale e delle nuove tecnologie della comunicazione sui paradigmi epistemologici e sulle pratiche della didattica e della formazione”.
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Gli studenti italiani di oggi, in maggioranza “nativi digitali”, attraversano ogni giorno i confini di due mondi temporalmente diversi: da un lato ambienti di vita ad alta interattività e connessione che utilizzano correntemente il codice digitale; dall’altra ambienti di apprendimento ancora legati in maniera preponderante al codice alfabetico. Paolo Ferri riporta l’attenzione sulla centralità della didattica e dei suoi nuovi contenuti come rivalutazione dell’”apprendere attraverso il fare” che può finalmente diventare alla portata di tutti.
L’impatto della rivoluzione digitale e delle nuove tecnologie della comunicazione sui paradigmi epistemologici e sulle pratiche della didattica e della formazione. Questo il titolo che Paolo Ferri aveva scelto per il suo intervento al convegno di Piacenza. Diversi gli aspetti presi in esame, che cercherò di sintetizzare.
Lo stato della “rivoluzione digitale” nella scuola italiana.
Nel nostro paese la rivoluzione digitale nelle scuole è in ritardo, forse appena agli inizi, e non per una scarsa propensione della popolazione all’uso di queste tecnologie ( i dati di connessione della popolazione in età di scuola media superiore sono abbastanza simili a quelli statunitensi), ma per un problema strutturale: la quasi totale assenza di cablaggio in fibra ottica negli edifici pubblici. E’ stato sottolineato come da noi, contrariamente a Stati Uniti e Germania per esempio, non si sia riusciti a sfruttare le aste per le concessioni alle compagnie di telefonia mobile per ottenere la fibra ottica negli edifici pubblici, tanto meno nelle scuole. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: solo il 7% delle classi è connesso, e non è detto che lo sia a banda larga. Né il gap sembra destinato a risolversi a breve. I bandi come il recente “generazione web” e gli interventi promossi a vari livelli dalle amministrazioni pubbliche continuano a puntare solo all’acquisto delle “macchine” (i devices: tablet, notebook, computer che siano), trascurando da un lato l’infrastrutturazione necessaria, dall’altra la formazione degli insegnanti, con il risultato di indirizzare le già scarse risorse su ciò che meno serve. Il device non serve a nulla se non c’è la rete. Le “macchine” invece già ci sono: basta chiedere ai ragazzi di portarle da casa.
Nel percorso da casa a scuola un salto indietro di 30 anni.
Il paradosso odierno della scuola è proprio questo. I ragazzi che la frequentano (per lo meno quelli dalla scuola dell’infanzia fino alla scuola media) sono ormai “nativi digitali”, intendendo con questa definizione tutti coloro che, nati dal 2000 circa in poi, non ricordano l’arrivo di internet a casa loro.
Estratto video: Il mondo dei nativi digitali
Sono bambini e ragazzi che in casa hanno una gran quantità di schermi interattivi (schermi, non computer, che sono strumenti già vecchi, usati dai genitori per lavoro) e di possibilità di connessioni, dal telefono cellulare in poi. Ragazzi che, nei 6-700 metri che mediamente separano casa da scuola, compiono un viaggio indietro nel tempo di 30-35 anni.
Dinamiche cognitive e stili di apprendimento dei nativi digitali.
Le dinamiche cognitive e gli stili di apprendimento di questi nativi digitali, ancorché poco note – gli studi sono appena agli inizi – sono abissalmente diverse da quelli delle generazioni precedenti. Per loro, il codice alfabetico è solo uno dei tanti codici utilizzabili.
Estratto video: Dal codice alfabetico al codice digitale
Nella loro testa è nativo il codice digitale, cioè un codice in cui il peso della variabile visuale, quello della variabile sonora, quello dell’immagine – fissa o in movimento – sono almeno pari se non superiori a quella del testo. Il codice digitale è il primo con cui entrano in contatto. Il libro non è qualcosa di immediatamente presente nella loro esperienza diretta e spesso compare solo quando vanno a scuola. Se la maestra spiega i vulcani, non si aspettano un disegno alla lavagna, ma di vedere ciò che si può vedere, sentire ciò che si può sentire, rappresentato ciò che si può rappresentare, possibilmente con una qualità grafica all’altezza di quella dei videogiochi. Questo configura una dinamica di apprendimento diametralmente opposta a quella per assorbimento della scuola tradizionale. La rivoluzione digitale consente di utilizzare simulazioni, di imparare a risolvere problemi attraverso videogiochi, in una parola, di apprendere attraverso il fare. L’impostazione pedagogica di un Dewey, di una Montessori, di un Freinet, finalmente alla portata di tutti.
Neuroscienze e setting didattico.
Le differenze negli stili di apprendimento ci vengono confermate dalle neuroscienze. Gli studi sulla plasticità neurale confermano che le attivazioni neurali che si danno nel cervello a fronte di stimoli differenti – per esempio anche solo la visione di uno schermo in bianco e nero piuttosto che a colori – sono diverse. Se un bambino “legge” al computer si attivano aree neurali diverse che se legge la carta. Non parliamo di quando usa i videogiochi! Certamente quale sia il cambiamento degli stili di apprendimento dei nativi digitali è tutto da capire, ma dobbiamo pensare ad una ridefinizione del setting didattico che vada incontro agli stili cognitivi di costoro, che sia meno legato alla forma trasmissiva e più centrato sull’interazione. Occorre creare ambienti di apprendimento, sapendo che fra 10-15 anni con ogni probabilità qualcosa di simile all’ipad sarà la cartella dei ragazzi.
Quali contenuti per la scuola digitale?
Nell’arco di pochi anni, buona parte dei contenuti sarà archiviato in digitale. Si può ipotizzare che nel 2020-2025 la situazione italiana sarà più o meno simile a quella statunitense, ovvero che la produzione di contenuti digitali sarà grosso modo tripartita. Una buona metà dei contenuti digitali per la scuola saranno prodotti da studiosi e metodologi della didattica, validati dagli editori e venduti all’interno di un market place digitale, scaricabili attraverso devices digitali. Il libro di testo, dunque, non morirà, né falliranno le case editrici. Un altro 25% dei contenuti sarà prodotto dagli stessi insegnanti. Lezioni e materiali didattici archiviati in digitale si accumuleranno nei database delle singole scuole e saranno legati alle esigenze di personalizzazione degli apprendimenti, ma anche di caratterizzazione dei singoli territori. E infine ci saranno i contenuti liberi disponibili sul web (Khan Accademy, BBC school per fare degli esempi), con videolezioni, materiali, eserciziari, organizzati per singole discipline.
Centralità della didattica
Dopo la grande abbuffata di tecnologia, negli Stati Uniti, in Inghilterra, nel Nordeuropa, ora si sta un po’ tornando indietro. Si sta diffondendo la consapevolezza che, per quanto aumentata digitalmente, sempre di didattica si ha bisogno, ovvero che non si può prescindere dalla scuola, dal contatto personale con gli insegnanti, da contenuti validati. In Italia, senza aver fatto l’abbuffata, rischiamo di subire l’onda di ritorno, accrescendo l’immobilismo. L’auspicio di Ferri è che ciò non accada.