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Ricostruire. Emergenze del presente e (im)possibili paragoni con il passato

Ricostruire. Emergenze del presente e (im)possibili paragoni con il passato

La cucina della mensa della Timo di Bologna, a causa dei bombardamenti viene trasferita all’aperto, ai piedi della torre Guidozagni in via Albiroli, foto in Franco Cristofori, Bologna. Gente e vita dal 1914 al 1945, Bologna, Alfa, 1980, p. 467.
Foto pubblicata sul portale guerrainfame.it

Il dossier sulla Summer school 2020
si compone di 5 coppie di parole chiave.
Questo testo afferisce alla coppia di parole chiave

Emergenza/Normalità

Abstract

Nella prima giornata della Summer School 2020 abbiamo chiesto a Matteo Pasetti e Patrizia Gabrielli di riflettere con noi sulle parole chiave Emergenza e Normalità. L’articolo, che nasce dalla relazione tenuta dell’autrice in quell’occasione, si divide in due parti. Nella prima l’esperienza della Seconda guerra mondiale è richiamata al fine di esaminare criticamente il diffuso paragone tra l’emergenza pandemica e la guerra: si riportano i rischi sottesi alla diffusa, spesso strumentale, attualizzazione del passato; ci si sofferma sulla quotidianità dell’esistenza negli anni del conflitto bellico per fare luce sulle profonde differenze rispetto alle attuali condizioni di vita. Nella seconda parte il richiamo alla progettualità condivisa dalla classe politica nell’immediato dopoguerra è utile a riaffermare valori – quali solidarietà e responsabilità –  che possono costituire anche oggi una risorsa per affrontare le emergenze del presente.

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On the first day of the Summer School 2020, we asked Matteo Pasetti and Patrizia Gabrielli to reflect with us on the key words Emergency and Normality. The article, which stems from Gabrielli’s presentation on that occasion, is divided into two parts. In the first part, the experience of the Second World War is recalled to critically examine the widespread comparison between the pandemic emergency and the war. The risks inherent in the often instrumental use of historical analogies are highlighted, and the daily life during the wartime years is explored to illuminate the profound differences compared to our current living conditions. In the second part, the reference to the shared vision and project of the political class in the immediate post-war period serves to reaffirm values such as solidarity and responsibility. These values can also be a resource today for addressing the present emergencies.

L’irruzione della pandemia nella quotidianità

Abbiamo vissuto (e non ne siamo ancora usciti) una drammatica emergenza. Da settimane ascoltiamo con partecipazione i bollettini sul numero dei contagi e dei decessi che si allargano a macchia d’olio in Europa e negli altri continenti. Ascoltiamo quei dati in silenzio, quasi in religioso silenzio, con preoccupazione e spavento.

Abbiamo vissuto (stiamo vivendo) un evento traumatico, che andrà studiato a fondo, da diverse prospettive e alla luce di differenti tipologie di fonti e di testimonianze. L’analisi e la comprensione di tali eventi imporranno di prestare attenzione non tanto alla memoria fattuale, quanto alla rielaborazione delle singole memorie individuali rivelatrici di traumi, così come di attivazione di strategie creative, di acquisizione di nuove consapevolezze.

In questi mesi abbiamo sentito parlare di cambiamento e velocità del cambiamento, irruzione brusca di un evento che marca una periodizzazione, come se il corso della storia (il prima) ricevesse una improvvisa a sterzata. Il Covid-19, con i suoi effetti e ricadute sull’economia, sugli stili di vita, sugli immaginari, persino sulla morte, ha prodotto una traumatica cesura. Su questa valutazione, che giunge dai media come da autorevoli voci, convergono le mie opinioni. Non condivido, invece, il paragone con la guerra, né i numerosi e quanto mai espliciti riferimenti a essa. “Emergenza”, “nemico”, con le varianti di “nemico invisibile e sconosciuto”, “battaglia”, “prima linea”, “arma contro il virus=vaccino” sono stati largamente usati e sono diventati parte integrante del linguaggio dei media, con il rischio di una loro diffusa assimilazione.

 

Il Covid-19 e la guerra

Il paragone con la guerra e le metafore che l’accompagnano sono molto discutibili e mi preoccupano per almeno due motivi.

Il primo è dato dalla constatazione che una buona dose di inconsapevolezza sugli eventi storici si sia impadronita di noi e che fragile sia la coscienza sui tanti drammi consumati nel Novecento, tanto da rendere sempre più sbiadita la storia persino delle due guerre mondiali (che tutti abbiamo studiato fin dalle scuole elementari e medie) oltre che dei recenti o attuali conflitti. Penso alle immagini su quelli lontani dai nostri confini nazionali – talvolta neanche troppo lontani – che i media hanno riversato nelle nostre case e, a tale proposito, mi torna alla mente la lezione di Susan Sontag, stando alla quale stare «davanti al dolore degli altri» ci ha resi indifferenti alle sofferenze altrui, ci ha narcotizzati. Insomma, quelle immagini «non hanno reso l’orrore più vivido», forse neanche ci hanno aiutato a comprendere l’«insensatezza della guerra»[1].

In primo luogo merita ricordare che le guerre sono frutto di scelte umane, maturano da volontà politiche. Il paragone guerra-Covid-19 è ancora di più improbabile per chi, come me, ha studiato le guerre mondiali da un’ottica che non presta attenzione solo alle dinamiche militari, politiche, bensì all’esperienza di guerra, ovvero al suo quotidiano svolgersi e alle sue quotidiane ricadute.

Prestare attenzione all’esperienza di guerra, alla sua materialità e alle conseguenze nella dimensione esistenziale dei soggetti significa allontanarsi dalla prospettiva che esamina la guerra dall’alto, posizione che fa delle persone delle masse anonime, per rivolgersi, invece, ai soggetti e alle loro concrete esperienze di vita, ai disagi materiali ed esistenziali incontrati.

Per questo filone di studi le fonti privilegiate, non le uniche, sono le memorie, i diari, le lettere.

Se noi studiamo e spieghiamo ai nostri studenti la guerra da questa prospettiva, allora, le differenze con la pandemia e il conseguente lockdown emergono tutte.

 

Topoi del racconto di guerra

I racconti di guerra presentano topoi ricorrenti:

  • La fame appare quale vero tormento, è tale da assillare le giornate mentre l’approvvigionamento dei generi alimentari diventa il principale problema che assorbe i discorsi di intere famiglie. Inoltre la fame ha l’effetto di modificare l’immagine e l’auto-percezione del corpo assai lontana da quella custodita. In diversi casi, soprattutto per le giovani donne, il corpo diviene un irriconoscibile involucro.
  • Il freddo è un altro dei temi ricorrenti. La mancanza di carbone, di abiti adeguati, la sottoalimentazione sono le cause principali del disagio e le condizioni climatiche sfavorevoli inibiscono la concentrazione e il sonno.
  • I bombardamenti annunciati dall’urlo delle sirene anche in piena notte, la corsa ai ripari, le luci abbaglianti, il boato comportano uno scompaginamento delle coordinate temporali (abbondanti rifermenti all’inversione notte-giorno), la precarietà, la paura della morte. In molti casi, i bombardamenti sono, specialmente per le bambine e i bambini, un trauma che lascia strascichi.
  • La distruzione, i cumuli di macerie, le case diroccate, le voragini sull’asfalto, i ponti distrutti nelle città.
  • Lo sfollamento con l’abbandono della propria casa, dei luoghi cari; le separazioni affettive; il peggioramento delle condizioni di vita in abitazioni precarie (grotte, stalle).
  • La morte e la violenza diventano familiari. Si vede uccidere nelle piazze e nelle strade della propria città, nelle aie e nei cortili delle proprie case; si compiono, talvolta forzatamente, atti di violenza.

Tra il 1943 e il 1945 è difficile non schierarsi e ciò comporta una scelta, ovvero l’assunzione di una responsabilità verso se stessi e la comunità di appartenenza.

 

L’attuale stato di incertezza e di vulnerabilità

Sono queste, in un’estrema e schematica sintesi, le esperienze che ritrovo puntualmente nelle pagine di tanti testimoni delle guerre mondiali. Che l’urgenza dettata dalla pandemia e il lockdown abbiano generato una sostanziale alterazione delle nostre vite e che siano difficili da affrontare le conseguenze che ne deriveranno, sono dati di fatto, come lo è che siamo nel pieno manifestarsi di un passaggio periodizzante. Ma questo non implica i richiami alla guerra.

Ci siamo sentiti in bilico, sospesi, abbiamo avuto consapevolezza dell’emergenza (ci ha toccati sotto diversi aspetti, anche sul piano professionale: noi insegnanti abbiamo dovuto misurarci con compiti nuovi). Ci siamo sentiti in bilico, sospesi, è vero, ma siamo rimasti seduti nei nostri comodi salotti in morbide e confortevoli tute da jogging, i nostri frigoriferi sono rimasti colmi di tutto il necessario e del di più.

Abbiamo goduto di luce, gas a tutte le ore, dormito nei nostri letti e nessun boato ci ha svegliati nel cuore della notte e ci ha obbligati assonnati a metterci a riparo in un freddo e scomodo rifugio; le nostre case sono rimaste in piedi, i nostri legami familiari, almeno con i parenti più prossimi, hanno subito delle alterazioni, ma, in molti casi, più che separati siamo stati più insieme.

Soprattutto il paragone è un azzardo se teniamo conto che nessuno ha ucciso per sopravvivere (atto non sempre e solo meccanico ma che pone problemi etici non secondari), nessuno è stato ucciso in nome della propria sopravvivenza o per ragioni razziali, ideologiche, nazionali, nessuno deve guardarsi da un nemico armato che spadroneggia con arroganza negli spazi cittadini e fuori di essi. Nessuno in pieno giorno o nel cuore della notte ha visto uscire silenziosamente ma forzatamente dai portoni dei palazzi accanto, o dalla porta del suo stesso pianerottolo, vecchi, adulti di ogni età, bambini, salire su camion e sparire nel nulla.

Certamente si sono compiuti sacrifici, si è rinunciato a piccole e grandi cose, ma nulla di commensurabile con quello che hanno vissuto le generazioni del tempo di guerra.

Pur consapevole del disagio e della profondità del cambiamento imposto dalla pandemia, continuo a irritarmi di fronte alla similitudine tra guerra e Covid-19 almeno per un secondo motivo: le sue possibili conseguenze.

Si tratta di un paragone azzardato e improprio, utile a gettare confusione e ulteriori incertezze; ha rischiato di diventare un banale tentativo per scuotere l’emotività, per favorire giustificazioni, persino per rafforzare il senso di appartenenza alla propria comunità, per farci sopportare i sacrifici che verranno, forse, ma questa circostanza insegna che neutralizzare il virus è e sarà possibile solo operando in direzione diametralmente opposta alle logiche di guerra, affermando i valori della solidarietà, del rispetto della vita e della dignità della persona umana: a questo compito non si assolve con le parole ma con robuste politiche economiche e di solidarietà. Si risponde assicurando garanzie che richiedono oggi più di prima, una concertazione internazionale.

 

Ricostruzione

La Summer School 2020 dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri pone alla nostra riflessione il binomio Emergenza Ricostruzione, dove il secondo termine riconduce, non solo per la storia italiana, al secondo dopoguerra. Sul piano storiografico, infatti, si è soliti intendere col termine Ricostruzione quella fase storica che va dal 1945 al 1948, che ha inizio con la fine della Seconda guerra mondiale (inizialmente con tutte le forze antifasciste alla guida del Paese) e termina con la Guerra fredda che ha tra i suoi effetti nella politica interna la rottura dell’unità antifascista. La Ricostruzione segna il passaggio a una nuova fase sociale ed economica e pone le premesse per gli sviluppi successivi. Pur rappresentando il breve arco di appena tre anni, è in questo lasso temporale che si compiono le scelte decisive per i successivi decenni, sia sul piano economico sia su quello politico-istituzionale. In questa fase, l’Italia realizza, pur con limiti e incompiutezze, un sostanziale cambiamento sia rispetto al totalitarismo fascista sia allo stato liberale. Nel 1945 la democrazia, seppure con differenti declinazioni, è un orizzonte condiviso dai partiti politici che guardano a una nuova forma di Stato.

 

L’Italia in macerie

Nel 1945 la guerra è finita, è questo «l’anno zero» per l’Italia, questo il termine a quo di quel lungo dopoguerra che spetta agli italiani, di quella fase definita ricostruzione in cui si gettano le fondamenta del nuovo Stato: ricostruire l’economia e le infrastrutture, sanare la disoccupazione, favorire il reinserimento dei reduci e dei prigionieri, fondare il nuovo ordinamento politico, le forme di governo nazionali e locali.

Sul fronte economico i problemi sono numerosi, la distruzione ha travolto monumenti, biblioteche, servizi pubblici, alloggi, centri industriali e produttivi. Il PIL è ridotto alla metà rispetto al 1938.

Nonostante gli aiuti degli Stati Uniti, gli italiani continuano ad avere fame. La quota delle calorie pro- capite resta assai bassa, in special modo tra i cittadini meno abbienti che si accontentano di una media di 650 calorie su un fabbisogno giornaliero di 2600.

Si viaggia poco; per i piccoli spostamenti ci sono sei milioni di biciclette, qualcuno si sposta in sella alla Vespa, lo scooter della Piaggio, ma appena l’anno successivo gli stabilimenti Innocenti di Lambrate lanciano sul mercato la Lambretta. La mobilità è limitata anche per le ridotte capacità di trasporto, sono funzionanti solo al 40% le ferrovie e al 35% gli autotreni. Nel 1945 7000 chilometri di binari risultano inutilizzabili; ponti, strade, gallerie distrutte trasformano ogni viaggio in un tormento. La situazione è inquietante anche su altri piani. Tra i principali problemi: la delinquenza comune, la prostituzione, anche minorile; l’assenza di servizi che domina ovunque; l’insufficienza di alloggi e il rimedio della coabitazione profilano dati allarmanti che si riversano anche sullo stato di salute[2].

 

L’Italia riparte

Si tratta di compiti gravosi, ancor più difficili se si tiene conto delle avversioni generate da quel surplus di violenza proprio delle guerre civili e nel biennio 1945-46 tensioni e rancori sono tutt’altro che sopiti. Venuti meno autoritarismo e paternalismo fascista, la società rischia di sgretolarsi. Bisogna liberarsi anche – per dirla con Emilio Gentile – dal «retaggio di un mito», da quella cultura sotterranea ma persistente lasciata «dall’educazione fascista nella coscienza delle generazioni cresciute sotto il regime», dall’influenza di quella che è stata definita l’«atmosfera totalitaria del regime»[3]. Bisognava rompere l’egoismo, il rifugiarsi in se stessi e nella propria famiglia, il disinteresse e la mancata responsabilità verso il bene collettivo: atteggiamenti frutto di una prolungata mobilitazione dall’alto che de-responsabilizza.

Sul piano politico si incrociano vari aspetti e questioni, è il passaggio da un prima a un dopo. Il cambiamento si realizza con l’esercizio del suffragio per il referendum Monarchia-Repubblica e per l’elezione dei membri della Costituente, ovvero, con l’espressione della sovranità popolare. Sono i rappresentanti dei partiti all’Assemblea Costituente ad assumere piena responsabilità verso il Paese, a scrivere, dopo lunghissimi dibattiti e mediazioni, la Costituzione.

Essi attuarono un compromesso costituzionale. Compromesso è un termine sul quale conviene riflettere e interpretare – come ha insegnato Hans Kelsen –: «Compromesso significa risoluzione di un conflitto mediante una norma che non è totalmente conforme agli interessi di una parte, né totalmente contraria agli interessi dell’altra, esso rientra pertanto nella natura stessa della democrazia»[4].

La trasformazione del 1945-48, che pose le premesse per la modernizzazione degli anni Sessanta ma che fu di per sé un miracolo, fu resa possibile grazie all’assunzione di responsabilità e alla partecipazione in prima persona delle cittadine e dei cittadini che misero a disposizione riserve di energie e creatività a favore della «felicità pubblica»[5]. Un impegno civile e politico alimentato dalla comune memoria della guerra, dalla consapevolezza di avere attraversato insieme e non indenni una tragedia: anche questo sentire condiviso, «il vissuto degli italiani» come lo ha definito Pietro Scoppola in un agile ma quanto mai utile e denso libro[6], rafforzò i vincoli di solidarietà e di comune appartenenza.

Le italiane e gli italiani, di diverse appartenenze sociali e politiche, ebbero la certezza che la propria partecipazione poteva avere senso e valore. Essi provarono «il gusto della politica»[7]. In tanti come il padre del protagonista del film Baaría, di Giuseppe Tornatore, uscito nel 2009, sostengono che «la politica è bella».

Nel 1945 si avvia la fase della ricostruzione e nel 1948 l’Italia, attraverso molti e accidentati «passaggi»[8], è ripartita. Certo le contraddizioni, i ritardi non mancano né tantomeno i nodi ancora da sciogliere[9].

Ma pur misurando le contraddizioni dobbiamo tenere conto dei risultati e i principali sono nella Carta Costituzionale, nata dalla volontà politica di dare un nuovo assetto all’Italia nel quadro di una democrazia fondata sulla dignità del lavoro e sulla uguaglianza. Su questo operarono i deputati alla Costituente, direi la nuova classe politica, superando le divergenze in nome della responsabilità e del bene pubblico.

 

Il passato e il presente

Lo studio della storia non permette appiattimenti, banali similitudini o di schiacciare il presente sul passato: non serve al presente e non serve alla storia. Non è proficuo per gli studenti verso i quali abbiamo in primo luogo il dovere di avvicinare al metodo storico: non fatti, nomi, date, ma metodo.  Che in sintesi vuole dire dare profondità al passato, cogliere le sfumature e le contraddizioni, la peculiarità di un dato passaggio, fatto, evento, fase. Questo può aiutare a tenerci lontani dal rischio di appiattire il presente sul passato e viceversa. Il rischio di attualizzazione del passato è reale e le ragioni sono diverse, non ultima la banalizzazione e la liquidazione subita dalla disciplina in questi ultimi decenni.

In poche righe, ha definito bene il processo Tony Judt:

Con entusiasmo manicheo, in Occidente ci siamo affrettati a liberarci, laddove possibile, del bagaglio economico, intellettuale, e istituzionale del ventesimo secolo e abbiamo incoraggiato gli altri a fare altrettanto. Il principio che quello era allora questo è adesso, che tutto quanto avevamo imparato dal passato non andava ripetuto, non riguardava solo le istituzioni defunte del comunismo dell’era della Guerra fredda e la sua membrana ideologica marxista. Non solo non siamo riusciti ad imparare granché dal passato – sarebbe stato appena degno di nota – ma ci siamo convinti – nelle previsioni economiche, nelle strategie internazionali, persino nelle priorità educative, – che il passato non ha nulla di interessante da insegnarci. Il nostro, insistiamo, è un mondo nuovo; i rischi e le opportunità che ci offre non hanno precedenti[10].

Nel caso specifico la storia della Ricostruzione può insegnarci che può esserci la possibilità di ripartire e ciò è realizzabile anche in virtù della responsabilità collettiva e individuale, quella che ciascuna cittadina o cittadino sono in grado di assumersi.

 

La guerra: uno sguardo di genere

Il genere è questione centrale quando ci si appresta a studiare e decidere nuovi assetti, in quanto i ruoli di genere costituiscono fondamento, organizzazione sociale ed economica[11].

La Seconda guerra mondiale – guerra totale – porta sullo scenario pubblico una decisiva presenza delle donne e impone cambiamenti dei ruoli di genere. Gli spazi urbani e quelli agricoli sembrano femminilizzarsi mentre le donne vivono in condizioni difficili: nelle città bombardate a causa della mancanza di acqua, di viveri, la difficoltà di reperire la legna ed il carbone per scaldarsi e per provvedere alla preparazione dei pasti, sono costrette ad un surplus di lavoro quotidiano, e vivono gravi disagi anche per via di legami familiari interrotti, per la precarietà dell’esistenza. L’eccezionalità della situazione infrange gli spazi e i tempi della quotidianità, consentendo alle donne di attraversare territori sconosciuti, di misurarsi in compiti da sempre preclusi al proprio sesso. Impone loro di verificare le proprie capacità e di assumersi responsabilità nuove. Tra queste la partecipazione, in forme diverse e con diversi ruoli e responsabilità, alla Resistenza organizzata e civile, a partire dall’8 settembre 1943, data della resa incondizionata agli alleati.

La Resistenza, o meglio, il paradigma antifascista, sono a fondamento della nuova Repubblica democratica italiana: l’evento è parte della memoria del Paese, nonostante si siano verificati tentativi di rimozione o svilimento cui si è assistito in differenti stagioni. A lungo nelle celebrazioni è prevalsa una Resistenza al maschile, mentre è stato ridimensionato, sotto diversi punti di vista, l’impegno delle donne e la specificità del loro intervento.

 

Suffragio, diritti, modelli

È però necessario stare in guardia dai giudizi sommari, perché se nel dopoguerra si verifica il ridimensionamento dell’impegno femminile, dall’altro non è possibile cancellare con un colpo di spugna le esperienze compiute e la nuova consapevolezza delle donne che trova espressione nei movimenti di massa e nell’associazionismo femminile. Questo protagonismo è valorizzato dai partiti di massa che si dichiarano favorevoli al suffragio femminile, sebbene si manifestino forti opposizioni in tal senso: suffragio, diritto al lavoro, accesso alle professioni sono bersaglio di attacchi.

Si è molto parlato di ritorno a casa: forse la definizione è un po’ forzata in quanto la situazione è più articolata e complessa. È indubbio che le discriminazioni non furono superate, però le donne videro, pur fra mille lacune, riconosciuti dei diritti, quelli sanciti dalla Costituzione; e tuttavia prevalse l’immagine tradizionale, quella che affida alle donne il ruolo domestico con la conseguenza di un ulteriore svilimento della loro funzione nell’emergenza guerra-ricostruzione. Nel dopoguerra molte donne vissero le conseguenze degli stupri e delle violenze subite, considerate innominabili; ciò che portò a lungo trascurare i tanti problemi che intorno al tema ruotavano.

 

Camici, smartworking e pannolini

Nell’attuale fase il rapporto Emergenza Ricostruzione, nelle sue molteplici implicazioni di genere, è poco rassicurante: la disparità – come fonti autorevoli indicano – si manifesta con forza e diviene questione urgente.

Abbiamo visto le donne presenti e attive, molto visibili nella fase dell’emergenza, anche perché impiegate in settori decisamente coinvolti, il contagio è la conseguenza del ruolo sociale: sanità, servizi, distribuzione, ruoli che espongono al contagio; le donne hanno dovuto conciliare vita lavorativa e familiare, ambito che ha visto un aggravio di impegni a causa della chiusura delle scuole e dei servizi per l’infanzia. Si sta assistendo a un peggioramento sul piano dei diritti, si pensi anche solo alla recrudescenza dei dati sulle violenze e sui femminicidi. Studi e ricerche avvertono il rischio di gravi ricadute sul mercato del lavoro e sull’occupazione: «Tra le possibili conseguenze della pandemia vi è dunque l’inasprimento delle diseguaglianze di genere nel lavoro e il ritorno ad assetti più tradizionali nella divisione dei compiti e dei ruoli di genere, su cui sarebbe importante agire con politiche diffuse e risolute»[12]. Lo scenario impone interventi e politiche immediate di prevenzione e di servizio alle fasce della cittadinanza più esposte e la capacità di individuare possibili potenzialità per ripensare e ridefinire gli equilibri di genere (e non solo).

 

L’infanzia

A proposito di Ricostruzione, merita sottolineare la centralità acquisita nel dibattito di quegli anni dall’infanzia.

Bambini e adolescenti sono drammaticamente colpiti dalla guerra: denutrizione, malattie sociali, prostituzione. Gli effetti più sensibili e dolorosi di questo stato di cose dati da un aumento del 40% della mortalità per malattie infettive, del 70% per tubercolosi, e dalla mortalità infantile, salita dal 13% al 56% nel primo anno di vita. Il «secolo del fanciullo» – così aveva definito il Novecento Ellen Key prevedendo progresso e diritti per l’infanzia – si rivela una catastrofe, e data la sua entità l’argomento viene trattato ben oltre il recinto della pedagogia. Si pensi anche solo all’attenzione che rivolge al tema il cinema, è il caso, solo per citare qualche esempio, di Sciuscià di Vittorio De Sica(1946), di Roma città aperta e Germania anno zero di Roberto Rossellini (1945 e 1948).

Infanzia e adolescenza dovrebbero essere centrali anche nel dibattito in corso, in quanto, sebbene in forme molto diverse, se non addirittura incomparabili rispetto ai conflitti bellici, il Covid-19 interviene pesantemente nella vita dei bambini e degli adolescenti. Si pensi anche solo alla scuola, alla riduzione delle opportunità di socializzazione, questioni che – ha ampiamente sottolineato Chiara Saraceno – continuano a essere marginalizzate o, comunque sottovalutate dalla politica. L’infanzia, un universo tutt’altro che omogeneo, in seno al quale sopravvivono profonde disuguaglianze, ha scontato sacrifici, limiti alla libertà di movimento, forse una perdita di autonomia, di spazi individuali anche a causa di una maggiore presenza dei genitori, delle ore trascorse insieme. L’esatto contrario della guerra che costringe all’autonomia e responsabilizza: strappa bambini all’infanzia e ragazzi all’adolescenza.

Mi domando, però, quanto lavoro ci sarà da svolgere – e se saremo in grado e all’altezza di svolgerlo – per capire cosa è accaduto in questi mesi nelle fantasie, nei sogni delle bambine e dei bambini; quanto il fenomeno sia intervenuto nella prorompente voglia di sperimentare relazioni proprio di adolescenti e di giovani, quanto abbia segnato il loro prepotente desiderio di libertà che male si concilia con gli spazi, sempre troppo angusti, della domesticità e i rigidi recinti dei legami familiari.

Scuola, istruzione, diritto alla socialità: questi i temi urgenti cui trovare soluzioni per le quali gli adulti hanno il dovere e la responsabilità di intervenire. Cito a proposito il bell’articolo di Alberto Asor Rosa su «La Repubblica», La Classe, che ci ha sollecitati a riflettere sulla funzione della scuola come momento di relazione, socialità: fattori non indifferenti alla formazione[13].

 

In sintesi

Le fasi di crisi e di rottura mettono in luce ambivalenze e squilibri e posso aprire a scenari alternativi. Che cosa ci insegna il triennio della Ricostruzione rispetto a quanto sta avvenendo nel presente?

Che abbiamo bisogno di una robusta leadership e di una classe dirigente che faccia della responsabilità verso l’intera collettività un valore. Abbiamo bisogno di una leadership lungimirante, che non agiti il fantasma della guerra, ma assuma invece una prospettiva di solidarietà globale.

Vorrei citare le parole dello storico israeliano, Yuval Noah Harari, in una sua intervista rilasciata a «la Repubblica»:

In breve: bisogna aprici anziché chiuderci in noi stessi. Chiudere i confini al virus e non quelli tra uomo e uomo […] Abbiamo bisogno di una leadership che unisca le nostre società anziché dividerle, come cercano di fare populisti e nazionalisti[14].

Dalla Ricostruzione possiamo però cogliere anche un altro dato: che la responsabilità individuale è molto importante e oggi si traduce nel rispetto e nella cura del mondo e dell’ambiente che ci ospita[15].

Bisogna poi prestare attenzione alle tematiche relative al genere perché da tali ruoli e modelli dipende l’organizzazione sociale ed economica della collettività.

Tutto quanto espresso finora mi pare abbia poco a che vedere con il new normal di cui sentiamo molto parlare e che sembra si traduca, in maniera edulcorata, tutto cambia/niente cambia.

A me piacerebbe invece pensare al cambiamento e, per quanto difficile e complesso, vorrei che si ragionasse in questa prospettiva.

 


Note:

[1] S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003, p. 12.

[2] Ho avuto modo di trattare questi aspetti nel mio Il 1946, le donne, la Repubblica, Roma, Donzelli, 2009.

[3] E. Gentile, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Mondadori, Milano 1997, p. 322.

[4] Cit. in L. Carlassare, Nel segno della Costituzione. La nostra carta per il futuro, Milano, Feltrinelli, 2012, p. 26.

[5] Albert O. Hirschman, Felicità pubblica, felicità privata, Bologna, il Mulino, 1982.

[6] P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Torino, Einaudi, 1995.

[7] E’ il titolo di un capitolo del volume di M. A. Serci, M. A. Serci, Un’associazione d’élite. L’Alleanza Femminile Italiana (1944-1950), Soveria-Mannelli, Rubbettino, 2020.

[8] Il riferimento è a M. Salvati, Passaggi. Italiani dal fascismo alla Repubblica, Roma, Carocci, 2019.

[9] Si tratta di temi e questioni, dall’amnistia alle tentazioni autoritarie, alla mancata applicazione di diversi articoli della Costituzione, largamente esaminate in sede storiografica. Presenta un taglio interpretativo e una prospettiva storiografica innovativa U. Gentiloni Silveri, Storia dell’Italia contemporanea, 1943-2019, Bologna, il Mulino, 2019.

[10] T.  Judt, L’ età dell’oblio. Sulle rimozioni del ‘900, Roma- Bari, Laterza, 2009.

[11] J. W. Scott, Genere, politica, storia, a cura di I. Fazio con Prefazione di P. Di Cori, Roma, Viella, 2013.

[12] B. Poggio, Non siamo tutti uguali davanti al virus. Squilibri di genere nella pandemia inLockdown, a cura di P. Gabrielli e R. Giulianelli (a cura di), in L. Andreoni, N. Mignemi (a cura di), Organizzazioni e agricoltura e in Francia tra Otto e Novecento, «Storia e problemi contemporanei», n. 80, 2019, pp. 217-221.

[13] https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/05/07/news/scuola_elogio_della_classe-255992009/

[14] E. Franceschini, Yuval Noah Harari: «Confini chiusi ma solo al virus», «la Repubblica», 14 aprile 2020.

[15] E. Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Torino, Bollati Boringhieri, 2009.

DELLA STESSA COPPIA DI PAROLE CHIAVE:

Dati articolo

Autore:
Titolo: Ricostruire. Emergenze del presente e (im)possibili paragoni con il passato
DOI: 10.12977/nov369
Parole chiave: , , ,
Numero della rivista: n.15, febbraio 2021
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Ricostruire. Emergenze del presente e (im)possibili paragoni con il passato, in Novecento.org, n. 15, febbraio 2021. DOI: 10.12977/nov369

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